Sic volvenda aetas commutat tempora rerum.

domenica 30 marzo 2014

La vita intensa


Alla stazione di Milano.

Cosi dicendo, eravamo arrivati alla stazione. Di là dalle uscite di quella si vedeva minacciare un primo flutto di arrivanti : massa variamente densa, bruna quasi tutta con chiazze disordinate di colori più vivi, e tutta olesoa ; e se ne spiccavano esseri d’aspetto quasi umano. Mi spinsi a guardare : l’amalgamo viscido saliva ribollendo su dalle profondità delle scale , gorgogliava presso i cancelli, vi filtrava attraverso, e di qua si rinfettiva per fare impeto contro le altre porte delle uscite , sboccando all’aêrto cominciava a dilargare, tragico pastone umano sputacchiato qua e là di luci erratiche dalle lampade che non riuscivano a tenere buia la piazza, poltiglione macabro rimescolato dai lunghi bastoni d’ombra e si protendevano dai lampioni. Di mano in mano che s’allontanava dalle superate porte, tutto quello umanume, arabescato dalle volute disinvolte dei tranvai, sferzato dalle frecciate rigide degli automobili, si andava sfarinando in uno sofrmicolio sempre più fumido verso le tenebrosità romantiche del giardino, gli assorbimenti tortuosi dei viali, le luminosità bestiali delle due fili d’alberghi che fanno da quinte a quello scenario feroce. La massa umaniforme non aveva una voce, ma parlava con un miscuglio affatturato di gorgolii isterici, sbuffi, asme e ansiti con gemiti anelati e squarci di strilli e di fischi, come un groviglio di serpi in amore in mezzo a un cespo di fichi d’india : che era l’urlato inno della vita intensa degli uomini verso lo stellato cadente d’agosto.
Io m’infilai tra la nuova calca che usciva dalla porta di destra ; e spronato dalla fiducia e dalla raccomandazione di Florestano, mi misi con infinito scrupolo a esaminare gli arrivanti. Mi stabilii e fermai solidamente sulle due gambe un po’ aperte, per non essere travolte dalla fumana ; il mio corpo costituiva cosi come una roccia incrollabile contro cui la corrente veniva a fendersi, si apriva un momento in due corsi i quali mi giravano attorno ruvidamente per ricongiungersi subito dall’altra parte, dietro di me, verso il loro destino. Ma io non guardavo dietro me, né mi curavo del loro destino ; fissavo avanti con un’attenzione concentrata ed enorme, scrutando tutti i visi sotto i capelli, berretti , paplie e tese d’ogni foggia.
Il glutiname d’uomini che prima avevo ammirato nella sua unità quasi amorfa, ora mi si specificava in individui e individue e individuini, in un continuo lavorio di modellazione. Mi pareva che io col mio sguardo appunto, creassi quelle specificazioni plastiche ; e mi pareva per ciò di essere un Dio, perchè pensai che probabilmente anche Dio lavora sopra una massa malforme affollata ai cancelli del mondo, e col solo sguardo fissandola senza toccarla ne plasma e cava fuori gli esseri interi, staccati e invidivui. Ma forse non è vero. Certo è che Dio li fa senza valigie, scialli, cesti, ombrelli o cappelliere di sorta ; quelle cose se le son fatte loro, con dell’intelligenza avuta da Dio all’uscita dalla Grande Stazione. A me invece pareva che i centri vitali e intelligenti di quella materia fossero appunto le valigie e le ceste, che arrivavano e si spingevano, trascinandosi dietro, mediante un pugno stretto e un braccio testo che dal pugno andava in su, un uomo o una donna. (Massimo Bontempelli, La vita Intensa, Mondadori, Milano)