Tratto da https://web.archive.org/web/20071207165733/http://www.mat.uniroma2.it/~schillac/cinema/koyaan/koyaan.htm
Koyaanisqatsi, un Capolavoro Ambiguo
Filippo Schillaci
Museo dell’Immagine Fotografica e delle Arti Visuali
Università di Roma "Tor Vergata"
via della Ricerca Scientifica, 00133 Roma.
giugno 1998
§1 Un poema per immagini.
Quando, nel 1984, Koyaanisqatsi giunse in Italia, da più parti si pronunciò la parola documentario, né c’è da stupirsene se si pensa che ciò avveniva all’interno di un contesto in cui è sulla componente narrativa dell’opera cinematografica che si usa concentrare la parte maggiore, quando non esclusiva, dell’attenzione, mentre il lungometraggio di Godfrey Reggio, pur giunto nei circuiti commerciali, si distingueva per scelte linguistiche del tutto diverse da quelle dei prodotti che monopolizzano abitualmente tali circuiti, e in particolar modo si distingueva per il fatto di costruire la sua struttura semantica prescindendo in maniera totale dalla parola. Si parlò di documentario là dove invece la spessa manipolazione formale, poetica, estetica della materia prima visiva avrebbe dovuto piuttosto richiamare definizioni come "poema per immagini"; e si parlò di documentario in base alla semplice quanto superficiale considerazione: non ha dialoghi, non ha una trama in senso letterario, non ha attori quindi non è un film di fiction; pertanto non può che essere un documentario. Che delle tre componenti dell’opera cinematografica, quali sono l'immagine, il suono e la parola, solo la prima sia quella pienamente qualificante l'opera cinematografica in quanto tale (come mostrò Murnau nel suo Faust, film muto del tutto privo di didascalie), che una struttura semantica si possa realizzare anche a prescindere dall’uso delle parole, solo attraverso immagini, suoni e... tempo, non ci si accorse allora come si continua a non accorgersi oggi.
Messa dunque da parte ogni improponibile etichetta di stampo documentaristico ed acquisito che solo la piena consapevolezza dei suoi rilevanti connotati artistici possa condurre a una corretta interpretazione di quest’opera, è appunto in una tale ottica che mi accingo al presente lavoro, avente come scopo la lettura della posizione morale espressa dall’autore e come mezzo l’approfondita analisi formale dell’opera stessa. Né deve sorprendere la scelta dell’analisi formale come strumento di lettura del film, essendo la forma, o meglio il "modo di formare", non un rivestimento neutro che si applica dall’esterno a un contenuto a essa indifferente, da essa indipendente, bensì, nel cinema come in ogni altra arte, contenuto esso stesso, rivelatore anzi della reale intenzionalità dell’artista (1).
§2 Il percorso narrativo.
Koyaanisqatsi è, come è noto, un’opera che si fonda in maniera esclusiva su un costante contrappunto fra due elementi linguistici utilizzati in stretta correlazione: immagini e suoni musicali. Attraverso essi si realizza, lungo un arco temporale di circa 81’, una solida struttura narrativa dai contenuti fortemente (ma anche, come vedremo, ambiguamente) critici nei confronti del modello di sviluppo delle società occidentali.
Il film si articola in sei sezioni racchiuse in una doppia cornice; di tali sezioni le prime cinque sono internamente strutturate come dei crescendo ciascuno dei quali si conclude con un brusco salto di pressione temporale (2); all'interno di ciascuna Sezione le immagini evolvono infatti dall’immobilità a un estremo grado di dinamismo, mentre i suoni passano gradualmente dalla rarefazione, a volte dal silenzio, a una accentuata densità acustica e ritmica. La sesta Sezione, più statica, funge da introduzione all’epilogo, nel quale anzi sfuma (limitatamente alla componente visiva) senza soluzione di continuità.
Più in dettaglio la struttura narrativa si svolge attraverso le seguenti fasi:
Sequenza 1: "Cornice" iniziale: figure rupestri umanoidi, presumibilmente alludenti alle profezie degli indiani Hopi che appariranno nelle didascalie conclusive (3).
Sequenza 2: Prologo: un razzo in fase di decollo.
Prima Sezione (crescendo)
Sequenza 3: L’alba del mondo. Immagini di paesaggi desertici privi di presenze umane; la stasi, il puro essere che precede il principio di tutte le cose. La Sequenza si conclude col primo manifestarsi della vita, raffigurato attraverso voli di uccelli fra rocce e vapori ascendenti: il momento iniziale della "Storia".
Sequenza 4: Dalla rigidità del deserto alla fluidità dell’aria e dell’acqua. Preannunciate dai vapori bianchi delle ultime inquadrature della Sequenza precedente, entrano in campo le nubi, in movimento accelerato, alternate a grandi masse d’acqua (onde, cascate). Rimane inalterata l’impressione di grandiosità del paesaggio naturale che si era dispiegata nelle inquadrature del deserto ma ora non c’è più fissità: tutto si muove, tutto diviene. E’ la messa in scena metaforica di un momento di transizione, di mutazione del mondo.
Sequenza 5: Paesaggi verdeggianti visti dall’alto in tre lunghe e veloci carrellate aeree: boschi e specchi d’acqua, campi dagli intensi cromatismi, laghi e formazioni rocciose nel deserto.
Sequenza 6: Ancora il deserto, ma intaccato ora dalle prime tracce di attività umana: una serie di esplosioni in una cava, il denso fumo nero emesso da una ruspa, il paesaggio "ingabbiato" dai reticoli dei tralicci dell’alta tensione: una presenza umana che fin dall’inizio si presenta come violenta, deturpante, invasiva.
Seconda Sezione (crescendo)
Sequenza 7: La presenza umana si fa adesso massiccia: l’insediamento nel deserto si è consolidato nella forma di grandi impianti industriali, mostrati in lentissime riprese aeree non molto dissimili da quelle iniziali.
Sequenza 8: Il movimento ritorna improvviso nel passaggio dall’apparenza di solenne quiete degli immobili contenitori industriali alle attività aggressivamente dinamiche che in essi si svolgono: ancora cave, impianti petroliferi, lavorazioni industriali a caldo, cui vengono accostate "attrattivamente" negli ultimi due piani, immagini di esplosioni atomiche.
Terza Sezione (crescendo)
Sequenza 9: Si entra ora in modo definitivo nei luoghi permanentemente antropizzati. Questa breve Sequenza si compone di tre momenti autonomi: una spiaggia a ridosso di un grande stabilimento industriale, un gruppo di persone immobili a osservare con imbambolata fissità le nuvole che si riflettono sulla superficie vetrata di un grattacielo, due aerei in fase di rullaggio. Il clima è per ora rarefatto (l’immagine inizialmente sfocata dei bagnanti, gli aerei ripresi attraverso uno strato di aria tremolante), quasi al rallentatore. Si vede tutto ciò dall’esterno, come al di là di un velo, come si trattasse di un mondo non (ancora) del tutto reale.
Sequenza 10: Ulteriori immagini urbane concentrate questa volta sul traffico automobilistico conducono a un salto nella fisicità di questo mondo: centinaia di automobili si susseguono con ossessiva ripetitività, tutte uguali, tutte nello stesso modo, in marcia su gigantesche autostrade o, nella conclusiva ripresa aerea, inquadrate in un immenso parcheggio.
Sequenza 11: Dalle file interminabili delle automobili si passa in modo del tutto indifferenziato a file altrettanto interminabili di carri armati. Queste immagini, tratte probabilmente da un cinegiornale dell’epoca del secondo conflitto mondiale, sono il punto di partenza di una "breve storia" dell’industria bellica contemporanea: dalle armi convenzionali di terra ai moderni caccia supersonici fino ai missili a testata atomica, per concludere con la grottesca immagine di una portaerei sul ponte della quale centinaia di marinai vestiti di bianco sono schierati a formare la scritta E=mc2, celebrazione beffarda e autocompiaciuta della conoscenza deturpata fino al suo ribaltamento in capacità distruttiva.
Quarta Sezione (crescendo)
Sequenza 12: La macchina da presa torna nelle città, soffermandosi, più che sulle facciate scintillanti dei grattacieli del centro, sui paesaggi urbani fortemente degradati dei quartieri negri. Una impennata della musica contrappunta la ripresa aerea di un grosso gruppo di edifici di cui si scopre poco a poco lo stato fatiscente. Segue la loro distruzione mediante cariche di esplosivo, e poi ancora immagini di analoghe demolizioni di altri edifici, ponti, gru.
Quinta Sezione (crescendo)
Sequenza 13: Il fumo dell’ultima esplosione si trasforma, con rinnovata quiete, nelle nuvole, riprese lungamente e a velocità accelerata, che ricoprono un gruppo di grattacieli in lontananza. I piani seguenti mostrano ancora nubi in moto accelerato su grattacieli con pareti a vetri e infine l’ombra di uno di essi che scorre sulle facciate degli edifici vicini.
Sequenza 14: Passaggio analogo a quello fra le Sequenze 7 e 8: dalla fissità dei contenitori alla frenesia formicolante delle attività che essi ospitano: il piano iniziale mostra una moltitudine di gente in fila davanti a invisibili sportelli, poi ci si trasferisce nelle strade, le immagini da accelerate diventano al rallentatore e si fissano su enormi masse umane in cammino sui marciapiedi contro uno sfondo di grattacieli e cartelloni pubblicitari. Infine la macchina da presa si sofferma su una serie di ritratti fissi di singoli tipi umani sfociante in un patetico gruppo di donne di un casinò, non giovani né belle, grottescamente vestite e pesantemente truccate.
Sequenza 15. Nel frattempo si è fatta sera; al tramonto del sole fra i grattacieli fa seguito una serie di panorami urbani notturni, pure geometrie di luce animate dal fluire lontano del traffico automobilistico. Il famoso piano della luna che "tramonta" dietro la facciata di un grattacielo chiude la Sequenza.
Sequenza 16: Ventiquattro ore di vita in città, da notte a notte; traffico, gente, catene di montaggio e altro, mostrati in un progressivo scatenamento di frenesia ritmica. E’ la Sequenza più lunga del film, e ne costituisce in un certo senso il cuore (il suo istante iniziale è situato nel centro dell'opera). Si comincia dal traffico automobilistico, precedentemente visto in lontananza, che balza ora in primo piano, incessante per tutta la notte e il giorno successivo. Si passa poi all’interno delle fabbriche, davanti alle cui catene di montaggio macchine e esseri umani divengono entità indifferenziate, soggetti le une e gli altri agli stessi movimenti ripetitivi, agli stessi ritmi incessantemente accelerati. E come le fabbriche si susseguono davanti alla macchina da presa i fast food, i grandi supermercati, le metropolitane, i luoghi di divertimento artificiale, l’industria televisiva e poi ancora il traffico automobilistico, nuovamente notturno, alternato a quello pedonale; insomma tutti (o quasi) i gironi dell’inferno urbano. Ed è sempre il concetto di indifferenziazione, insieme all’onnipresente, ossessivo incalzare della velocità nella sua forma piú degenerata, quella della frenesia senza senso, a dominare ogni momento di questa Sequenza, avendo essa come tema una realtà, la vita urbana contemporanea, ogni momento della quale è infatti sottomesso alla stessa organizzazione omologante, agli stessi ritmi ripetitivi e serratissimi, allo stesso trattamento da lavorazione in serie delle ripetutamente mostrate catene di montaggio.
Sesta Sezione (stasi)
Sequenza 17: Si torna, con un nuovo forte salto di pressione temporale (il piú brusco in assoluto), dalla velocità estrema alla estrema immobilità, dal ritmo sfrenato al silenzio. Un secco montaggio "attrattivo" accosta riprese aeree di centri urbani e microchips.
Sequenza 18: La rigidità delle precedenti immagini si sblocca in un fluido movimento di macchina (ripresa aerea notturna di un centro urbano), in coincidenza con un nuovo fluidificarsi della musica, prima non cessata del tutto ma irrigidita anch’essa in scarne note fissamente tenute. Sembrerebbe l’inizio di un nuovo crescendo ma non è così poiché il ritmo di questa Sequenza si assesta in realtà fino alla fine sui toni pacati di un incedere mesto, una sorta di vittoriniana ´quiete nella non speranzaª. Si parte ancora dalle geometrie luminose dei grattacieli notturni, con un ironico gioco di sincronia fra l’accendersi delle luci alle finestre e gli arpeggi della musica, ma poco dopo si passa a una nuova lunga serie di ritratti di gente, tipi umani più che mai patetici, l’antitesi della facciata luminosa della città dei grattacieli, ed è in questa serie di ritratti che si raggiungono momenti elegiaci particolarmente intensi; nel fissarsi della macchina da presa su un vecchio molto dimesso che le rivolge uno sguardo spaurito, (momento sottolineato, nella musica, dal primo attacco delle voci); oppure, piú oltre, nel dettaglio di un letto di ospedale dal quale una mano tremante coperta di rughe e fasciata da una benda insanguinata, si solleva a incontrare la mano di una infermiera (anche questo momento è sottolineato da una ripresa delle voci simultanea al toccarsi delle due mani), o nell’immagine di un uomo privo di sensi caricato su una barella da poliziotti armati. Ben otto piani sono centrati su figure di anziani, molti altri su uomini di colore; l'accento viene posto insomma sulle classi emarginate, non senza qualche accenno ai loro rapporti con le "altre" classi, dei quali si sottolinea metaforicamente la natura gerarchica: come nel piano, relativo probabilmente a un incendio, in cui appaiono un gruppo di persone di colore e un pompiere bianco che indirizza loro un gesto imperioso.
Due piani in cui in un grande ufficio (una Borsa?) figure trasparenti, fantasmi di esseri umani, continuano incessantemente il loro affaccendarsi senza senso, preludono al gruppo di quattro piani in cui si ripropone, come refrain tematico della Sequenza 2, il decollo del razzo...
Sequenza 19: ... sfociante, senza altra soluzione di continuità che il ritornare della musica al tema iniziale, nell’epilogo costituito dai due lunghi piani conclusivi della esplosione del razzo stesso e del suo infinito precipitare.
Sequenza 20: "Cornice" finale: nuovamente figure rupestri umanoidi, che chiudono l’ideale cerchio delle profezie e del loro attuarsi.
§3. La struttura formale.
§3.1. La simmetria e l’antisimmetria. Lo schema narrativo sopra visto si può rappresentare qualitativamente in forma grafica come mostrato in fig. 1. Analizziamolo partendo dall’interno, ovvero dalla successione di cinque crescendo che costituisce il cuore dell’opera. Preso nella sua globalità l’insieme di queste cinque sezioni presenta una nettissima antisimmetria: dall’evolversi composto, contenuto degli elementi naturali (primo crescendo), a quello sfrenato, distruttivo dei luoghi intensivamente antropizzati (quinto crescendo), una struttura dunque che, se presa in sé, ovvero prescindendo dal contesto che la racchiude, risulta caratterizzata da una ben precisa freccia del tempo e in quanto tale fortemente proiettata verso l’esterno, massimamente dinamica, messa in scena di una realtà cui è connaturata una condizione di perenne divenire.
A proposito degli elementi naturali che sono protagonisti della prima Sezione, ho parlato di un evolversi contenuto. Questo aggettivo è motivabile a vari livelli, fra cui la presenza di una struttura fondamentalmente simmetrica interna alle due Sequenze (la 4 e la 5) immediatamente precedenti l’entrata in scena delle attività umane, che chiude tale Sezione e sulle quali sarà poi permanentemente focalizzato l’interesse. Per meglio valutare questa articolazione formale (antisimmetria globale, simmetria locale) è opportuno soffermarsi ora su una analisi completa della prima Sezione.
Il punto di partenza è il deserto, ovvero la Sequenza 3, internamente strutturata in due parti, di 13 e 17 piani rispettivamente ( fig. 3). A dominare in entrambe è, più che la fissità, il movimento lentissimo: nella prima parte è quello, appena accennato ed esterno all’immagine, della macchina da presa puntata su paesaggi di assoluta immobilità, nella seconda parte è quello del paesaggio stesso (mentre la macchina da presa si immobilizza); detto in altri termini il movimento si trasferisce dall’esterno all’interno dell’immagine, divenendo con ciò di percezione più diretta e facendosi al tempo stesso più netto, dando forma in ultima analisi a un percorso di avvicinamento (4). All’accentuarsi del movimento si accompagna anche un serrarsi del ritmo del montaggio: la durata media dei piani che nella prima parte della Sequenza è di 23", nella seconda scende infatti a 11"; nulla però di macroscopicamente percettibile: la sensazione piuttosto di un lentissimo avvio, di uno sguardo appena dato oltre la soglia, non ancora attraversata, del divenire, ma che non è ancora un abbandono dell’immobilità, non è ancora una immersione nel dominio del tempo e che non lede dunque la preponderante staticità di queste immagini iniziali. La Sequenza si conclude (ultimi 4 piani) col primo manifestarsi della vita: il momento iniziale del futuro divenire ancora in embrione.
Quel divenire di cui incontriamo invece il pieno manifestarsi nella successiva Sequenza 4, in cui entrano in campo le nubi, in movimento accelerato, alternate a grandi masse d’acqua (onde, cascate). La struttura formale è quella di un montaggio parallelo fra stato gassoso e stato liquido di uno stesso elemento; più esattamente i 21 piani che costituiscono la Sequenza sono distribuiti come schematizzato in fig. 2, da cui risulta l’evidenza di una forma simmetrica, estesa anche al sussistere di una parziale regolarità nelle durate e nel numero di piani di ciascuna parte.
La successiva Sequenza 5 è composta da tre lunghe e veloci carrellate aeree: la simmetria è qui riferibile alla analogia tematica fra la prima e la terza di esse (di 45" e 40" rispettivamente), costituita dal passaggio terra-acqua mentre il piano centrale, più breve (18"), mostra una successione di campi dagli intensi cromatismi e funge da cerniera fra gli altri due. Il piano conclusivo inoltre riporta circolarmente, nelle formazioni rocciose e nel rallentamento del movimento, che nella sua parte conclusiva riprende la solennità iniziale, alle immagini di apertura del deserto.
Riassumendo, si nota all’interno di ciascuna di queste ultime due sequenze e, con riferimento al tema del deserto, all’insieme delle sequenze 3, 4 e 5, la preferenza per le forme chiuse, composte staticamente anche quando i piani sono ricchi di dinamismo interno. Il mondo preumano insomma certamente diviene, ma allo stesso tempo è stabile, chiuso in sé, nei propri equilibri (nelle proprie simmetrie) che lo rendono estraneo all’effimero, partecipe dell’essere. Ecco perché il salto tematico fra le sequenze 3 e 4, fra lo stato solido, permanente, immobile della materia (il deserto) e lo stato fluido, liquido o gassoso, mutevole, dinamico (l’acqua e il vapore), ma ancora naturale, è accompagnato dall’introduzione di quell’elemento frenante che è la struttura simmetrica. Più esattamente la simmetria, non necessaria nella Sequenza 3 perché la staticità è intrinseca alle immagini, lo diviene nelle sequenze 4 e 5 dove la staticità, divenuta assente dal livello immediatamente visivo, viene trasposta un livello più su, nel montaggio, o meglio nella struttura temporale globale della singola Sequenza.
In accordo con quanto detto la simmetria è infatti assente nella successiva Sequenza 6, conclusiva della prima Sezione, dove si ha il primo apparire dell’attività umana, ovvero l’irrompere violento di un agente esterno disturbante. Qui comincia il vero divenire (sezioni 2 - 5), sempre più affannoso e distruttivo, un crescendo dopo l'altro, un refrain dopo l'altro, non più contenuto entro alcuna riequilibrante simmetria (5).
Fa eccezione a questo schema l'insieme complessivamente statico delle Sequenze 13, 14 e 15 che, situato proprio nel cuore dell'opera, costituisce una singolare isola di rinnovata simmetria, preparatoria della Sequenza 16, il più lungo e sfrenato crescendo dell'intero film. Si ha intanto una simmetria interna alla Sequenza 13, riferita alla composizione delle immagini, nel passaggio staticità - dinamismo - staticità attraverso inquadrature frontali (piano iniziale) - angolate (piani intermedi) - frontali (piano finale). Simmetrico è inoltre l'insieme delle tre sequenze, nel passaggio tematico grattacieli - gente - grattacieli con, unico elemento speculare, il passaggio giorno - notte fra la Sequenza 13 e la 15 e il conseguente smaterializzarsi delle forme, nel sopraggiungere del buio, in pure strutture di luce. Più esattamente, vi è fra queste ultime due sequenze una analogia tematica centrata sul contrasto fra elementi geometrici (i grattacieli) e organici (rispettivamente le nuvole e i flussi, quasi linfatici, del traffico), immobili gli uni, in movimento sempre uguale a se stesso gli altri. Nella staticità complessiva che consegue a tale costruzione, come pure nella lentezza interna ai piani (in particolare quelli della Sequenza 14 sono in gran parte al rallentatore) si ravvisa come un anticipo, un presagio della Sezione 6, una indicazione del fatto che gli elementi di quell'epilogo sono già contenuti nel cuore della società occidentale, ne fanno inestricabilmente parte (tutto ciò ricorda il noto simbolo dello Yin e dello Yang, con il germe dell’uno che nasce nel cuore dell’altro). Nei ritratti di gente della Sequenza 14 in particolare vi è già un anticipo di quella nota di patetismo che ritroveremo come tema portante nella Sequenza 18.
Alla struttura costituita dalle cinque sezioni in crescendo sopra descritte, che, se libera da ulteriori aggiunte, sarebbe interpretabile come una mera, sia pur critica, sia pure, a volte, sarcastica (6), celebrazione di una discutibilissima forma di divenire antropocentrico, si aggiungono in realtà ulteriori strutture semantiche: la sesta Sezione intanto, che dopo lo sfrenato parossismo che conclude la Sezione precedente introduce, come già detto, il perdurare d’una statica, intensa mestizia. Non si tratta di un nuovo equilibrio ma di un esaurimento delle energie vitali, di un inizio della fine; non è possibile tendere più verso alcunché perché la spinta del divenire, deviata in senso dissipativo, tende ora a spegnersi: l’onda, raggiunto il limite invalicabile della spiaggia, si esaurisce in una debole risacca.
E in realtà il proiettarsi verso un potenziale altrove delle prime cinque sezioni era solo illusorio poiché esse, insieme alla sesta, sono racchiuse entro una "gabbia", la doppia cornice cui accennavo all’inizio, che conferisce all’intera opera una struttura globalmente simmetrica, una deterministica circolarità che toglie spazio a ogni possibile idea di apertura. La cornice più interna è costituita dalle sequenze 2 e 19, rispettivamente il decollo iniziale del razzo (il principio di ogni cosa) e la sua esplosione e caduta (l’epilogo): una ripresa tematica che suggerisce come la conclusione sia implicita nelle premesse, deterministicamente conseguente a esse; il mondo cioé, nella cosmogonia di Reggio, obbedisce a Leggi rigidamente causali, come quelle della meccanica newtoniana cui obbedisce la traiettoria del razzo stesso. Tale cornice è a sua volta racchiusa all’interno di un’altra: le pitture rupestri (sequenze 1 e 20, di un solo piano ciascuna), che rimandano alle culture "primitive" cui appartengono le profezie che sovrintendono al percorso narrativo dell’opera. Le profezie, manifestazioni sensibili delle Leggi, preesistono al principio del mondo, lo contengono nella sua totalità, il loro attuarsi ne rappresenta il compimento, dunque la fine. Esse cioé governano, racchiudono circolarmente l’accadere di ogni cosa. Nonostante ogni apparenza nulla in realtà diviene, ma tutto è, poiché tutto esiste a priori, già scritto in esse.
Alla accezione di chiusura intesa come simmetria si aggiunge inoltre una chiusura intesa nel senso di Umberto Eco (7), ovvero come univocità interpretativa, come presenza di una forma forte. La struttura formale di Koyaanisqatsi, così rigorosamente, vien quasi da dire classicamente determinata, certamente sorprende infatti per la sua totale estraneità a ogni poetica novecentesca dell'opera aperta, in contrasto con quanto verrebbe spontaneo attendersi da un'opera dai connotati apparentemente di così spiccato tenore avanguardistico. Nuovamente il riferimento alle profezie, al loro implicare come già detto una concezione deterministica, cioé appunto chiusa, del mondo, al loro presupporre un epilogo già scritto nello stato iniziale, costituisce una valida chiave di lettura, essendo infatti inevitabile che a tutto ciò corrisponda, sul piano della "metafora epistemologica", una forma a sua volta chiusa, cioé rigorosamente determinata in ogni sua parte poiché non la libera arborescenza dei possibili ma l’obbligata traiettoria lineare della necessità metaforizza una simile visione delle cose. La concezione del mondo che sovrintende a quest'opera è dunque arcaica, la condanna dello dissennato modello di sviluppo occidentale nasce da un atteggiamento non progressista bensì quasi teocratico verso il mondo, in cui tutto è inscritto entro un ordine globale stabilito a priori e perpetuamente immutabile.
§3.2 Il montaggio per attrazioni. Il termine "attrazione", nella sua accezione cinematografica corrente, è noto da Ejsenstejn. Esso fa riferimento all’instaurazione di una relazione di tipo dialettico fra due piani contigui, dalla quale scaturisce un concetto. Io lo intenderò qui in una accezione più generalizzata, potendo, con uguale efficacia, un tale tipo di correlazione essere instaurato "a distanza" fra piani non contigui, anzi appartenenti a diverse sequenze, oppure essere perfino esteso a livello di sequenza anziché di piano. Vorrei comunque notare che, in qualsiasi modo lo si voglia intendere, il montaggio attrattivo quale lo si ritrova nella pratica cinematografica non differisce sostanzialmente dal concetto letterario di similitudine dalla quale infatti, come dall’"attrazione" nel cinema, nasce un significato che ciascuno dei due elementi che la compongono, preso a sé stante, non contiene; nient’altro che similitudini sono ad esempio, in Ottobre, le note sequenze dell’accostamento fra Kerenskij fermo davanti alla porta dello Zar e la statua di un pavone, o fra l’oratore menscevico e un suonatore d’arpa.
Ritroviamo tale tipo di struttura sintattica in Koyaanisqatsi all’interno delle cinque sezioni in crescendo, mai al di fuori di esse, né c’è da stupirsene essendo l’"attrazione" metaforizzazione cinematografica di una concezione come già detto dialettica, cioé dinamica, della realtà, quale è appunto quella posta in essere nelle prime cinque sezioni.
Un primo esempio di "attrattività" estesa a livello di sequenza lo si ha fra la Sequenza 3 (inizio della prima Sezione), già analizzata, e la Sequenza 7 (inizio della seconda Sezione). Fra esse vi è unità di luogo (il deserto) e di struttura (lentissime riprese aeree) ma opposizione tematica: la celebrazione del deserto integro come metafora di un "puro" stato primigenio nella prima, l’avvenuto insediamento umano in forme massiccie (grandi impianti industriali) nella seconda. La tensione dialettica è fra due opposti stati di equilibrio, naturale e reale il primo, artificiale e apparente il secondo. Sotto un altro aspetto la Sequenza 7 è anche soggetta ad accostamento attrattivo con la Sequenza 5 mediante l’analogia tematica del passaggio terra-acqua, accompagnata al tempo stesso da una contrapposizione naturale-artificiale vista qui come contrapposizione libertà-prigionia: quella terra su cui nella Sequenza 5 si sviluppava una rigogliosa vegetazione o la monumentale plasticità delle formazioni rocciose è questa volta una terra gravata dal peso di grandi masse di metallo e cemento, quell’acqua che, pur immobile, si percepiva in tutta la sua interminabile vastità, è ora un’acqua imprigionata entro gli argini di grandi bacini artificiali o dighe. Quest’ultima contrapposizione dialettica è ulteriormente ribadita in una "attrazione a distanza" fra due piani contenuti l’uno ancora nella Sequenza 7, l’altro nella 4, relativi rispettivamente a una diga e a una cascata. Ciò che rimanda dall’una all’altra è la forma ugualmente arcuata di entrambe e l’identica struttura interna dei due piani, in cui la ripresa è effettuata con un movimento di macchina rotatorio che segue la curvatura del soggetto. Nuovamente dunque una analogia-contrapposizione fra un prima e un dopo, fra uno stato di libertà naturale (l’acqua libera della cascata) e uno stato di prigionia artificiale (l’acqua chiusa nella forma rigida della diga).
Ancora un caso di montaggio in cui dall’accostamento di due elementi apparentemente disgiunti (attività "pacifiche" e militari in questo caso) viene derivato un concetto si ha nella successiva Sequenza 8. In essa irrompe nuovamente l’espandersi delle attività umane la cui natura è e rimane invasiva, aggressiva (per tale motivo ho definito apparente l’equilibrio artificiale che le immagini della Sequenza 7 sembravano suggerire). In particolare il piano conclusivo, molto più lungo dei precedenti otto (46" contro una durata media di circa 7" dei precedenti), che mostra il lento innalzarsi di un fungo atomico nel cielo, pone l’accento sull’elemento militare, prolungandolo fissamente nel tempo (8). Il concetto che deriva da tale accostamento è l’affermazione della natura unitaria dei due tipi di attività in quanto entrambe rivolte verso l’esterno a sé secondo modalità aggressive (9), essendo ciò che ci fa ritenere "pacifiche" le prime solo il fatto che l’aggressività da esse scatenata è rivolta verso il mondo extra-umano, un mondo che il dualismo cartesiano (uomo-natura, mente-corpo, senziente-non senziente) di cui è permeata la cultura occidentale ha relegato al ruolo di entità inerte, neutra, plasmabile ad arbitrio.
A ribadire l’idea di una indifferenziazione fra tecnologia "di pace" e tecnologia di guerra interviene il passaggio fra le Sequenze 10 e 11 la prima delle quali si conclude con una ripresa aerea che scopre gradualmente, in un progressivo allargarsi rotatorio del campo, centinaia di automobili inquadrate in un immenso parcheggio cui il successivo piano iniziale della Sequenza 11 associa file altrettanto interminabili di carri armati, con in più l’ulteriore elemento analogico costituito dalla musica che nel passaggio fra le due sequenze non presenta soluzioni di continuità, a suggerire appunto fra esse una sorta di omogeneità tematica.
Troppo spazio richiederebbe l’analisi della lunga serie di accostamenti attrattivi presenti nella Sequenza 16. Fra essi uno dei più consistenti è il ripetuto passaggio fra le immagini di una industria alimentare e quelle di un fast food, indicante come la "razionalizzazione" efficientistica sia estesa non solo al momento della produzione ma anche a quello del consumo (consumo in serie = produzione in serie), momento in cui non è più l’oggetto a essere instradato nella catena di montaggio, ma l’essere umano, degradato al rango di oggetto-consumatore. Il susseguirsi di accostamenti di tale genere risulta determinante nella resa di quella assimilazione di ogni aspetto della vita urbana all’attività delle catene di montaggio, di cui si è già detto.
Infine, un’ultimo caso di montaggio attrattivo si ha nella Sequenza 17 (il raffronto fra città e microchips). Possiamo suddividerla in tre parti ( fig. 3):
a) (59"; 2 piani, durata media 30"). Due lunghe riprese aeree di un centro urbano, la prima in luce naturale, la seconda ai raggi infrarossi, animate da un lentissimo movimento rotatorio della macchina da presa puntata vertiginosamente in perfetta verticale verso il basso.
b) (54"; 9 piani, durata media 6"). Una serie di inquadrature fisse di microchips. Si noti come la durata complessiva di questa parte sia quasi identica alla precedente.
c) (10"; 4 piani, durata media 2.5"). Montaggio alternato di riprese aeree di centri urbani, nuovamente in luce infrarossa, e microchips.
E’ anche questo un montaggio particolare rispetto alla nozione classica di attrazione poiché in esso vengono esplicitati separatamente i tre momenti dialettici della tesi (a), dell’antitesi (b) e della sintesi (c).
Vorrei notare in conclusione come il ripetuto ricorso a un tale tipo di montaggio implichi, oltre a una visione della realtà (o quanto meno di quella "porzione" di realtà rappresentata nelle prime cinque sezioni) in cui l’interazione dialettica ha un ruolo prevalente, anche un ben preciso atteggiamento di non passività del regista di fronte alla realtà stessa; il montaggio generatore di significato concettuale esterno all’essere statico delle immagini come dei singoli piani, implica infatti una presa di posizione morale dell’autore, un giudizio; detto altrimenti, dal punto di vista del montaggio, nella singola immagine, nel singolo piano appare la visualizzazione della realtà, nel loro accostamento attrattivo e nel concetto che ne deriva appare la personalità dell’autore, il suo sistema morale nell’atto del confrontarsi con la realtà stessa.
§3.3 La pressione del tempo nei crescendo. Il concetto di "pressione del tempo" è dovuto, come è noto, a Tarkovskij, benché la definizione che egli ne ha dato risulti in fin dei conti poco più che intuitiva. Credo comunque che si possa identificare l’idea di "pressione temporale" nel piano con la densità degli eventi interni al piano stesso, densità che il montaggio è, sempre secondo Tarkovskij, semplicemente chiamato ad assecondare. Sulla scia del regista russo, considero a mia volta scontato che l’analisi del montaggio non esaurisca ogni discorso sulla struttura temporale del film essendo quest’ultima non meno dipendente dalla struttura interna dei piani, il prescindere dalla quale può anzi a volte condurre a considerazioni erronee.
Continuando però ancora per un momento ad analizzare "dall’esterno" la durata dei piani notiamo che il film si presenta nella sua interezza, oltre che in ogni singola Sezione, nella forma di un crescendo ritmico, come è mostrato dalla durata media progressiva dei piani stessi, che tende a decrescere con notevole costanza dall’inizio alla fine ( fig. 4). Gli analoghi grafici relativi a ciascuna Sezione ( fig. 5a e fig. 5b) inoltre, presi singolarmente, mostrano a loro volta un analogo andamento, a eccezione di quello della sesta Sezione, la quale appunto non è un crescendo. La tendenza generale dunque è quella di assecondare a livello di montaggio il progredire del dinamismo tematico attraverso un ritmo progressivamente più serrato, fermo restando però che a volte, localmente, non alle relazioni ritmiche fra i piani ma ad altri elementi linguistici è affidata la realizzazione del crescendo, in accordo con le sopra citate tesi secondo cui non (solo) la durata dei piani ma (anche) la loro "condizione interiore" determina la forma del tempo (è il caso, come vedremo, del finale della Sequenza 16). C’è anzi di più: quando si parla di condizione interiore di un piano non necessariamente ci si riferisce a moduli linguistici facenti parte della componente visiva. Ad esempio, nella Sequenza 6, conclusiva della prima Sezione, si ha addirittura nelle immagini una inversione di tendenza progredendo esse verso una fissità crescente, che nel finale (i tralicci) diviene pressoché assoluta. Il dinamismo insomma esce dalla componente visiva, che anzi si irrigidisce sempre più e, senza per questo divenire meno percepibile, si concentra sulla componente sonora attraverso il progressivo accentuarsi di una forte ritmicità musicale. Una situazione analoga si ha nel finale della seconda Sezione (Sequenza 8), concludentesi come già visto con un piano di notevole durata (46") e dalla rarefatta struttura interna (il lento innalzarsi verso il cielo di un fungo atomico), mentre ancora una volta è sulla ritmica musicale che si concentra la realizzazione del crescendo.
Un evolversi parallelo di montaggio, struttura interna dei piani e musica si ha invece nella terza Sezione (Sequenze 9-11) e nella quarta (Sequenza 12). Analizziamo per prima la terza Sezione. Sul piano sonoro le tre sequenze che la compongono sono collegate da un crescendo ritmico della musica, privo di soluzioni di continuità, mentre sul piano visivo a questa accentuazione del dinamismo fa riscontro sia un aumento della "pressione del tempo" interna ai piani sia una diminuzione nella durata media dei piani (54" nella Sequenza 9, 11" nella Sequenza 10 e 5" nella Sequenza 11). In particolare quest’ultima Sequenza è articolata in due parti; nella prima la durata media dei piani non muta rispetto alla Sequenza precedente (11"), mentre a mutare è soltanto il dinamismo interno ai piani, nella seconda una maggiore accentuazione di tale dinamismo (bombardamenti, esplosioni) è ulteriormente esasperata da un montaggio serratissimo (la durata media dei piani scende qui sotto i 2").
Di concezione sintattica analoga è la quarta Sezione, composta da un’unica Sequenza (la n. 12) in cui il crescendo (dall’immobilità all’incalzare di esplosioni e crolli) si svolge attraverso le seguenti cinque fasi ( fig. 3), sempre caratterizzate da un perfetto accordo musica-immagini.
a) 5 piani: facciate di grattacieli. Immobilità. Silenzio iniziale, poi (dal terzo piano) quieto inizio della musica.
b) 11 piani. Edifici fatiscenti, macerie, detriti di ogni sorta. Il degrado e l’abbandono dei quartieri negri. La musica si mantiene su toni mesti, contrappuntando immagini che scoprono, in inquadrature fisse o in lenti movimenti di macchina, paesaggi urbani di sconsolante desolazione. Durante l’ultimo dei piani che costituiscono questa parte la musica subisce una impennata ritmica che introduce alla parte successiva.
c) 11 piani. Un ostinato di ottoni si aggiunge a contrappuntare una veloce ripresa aerea (due piani di 32" l’uno) di un vasto gruppo di edifici del cui stato di degrado ci si accorge gradualmente. Nei 6 piani successivi vengono mostrati di essi vari dettagli in brevi inquadrature fisse di durata molto più breve (meno di 3"). Poi, in coincidenza con l’aggiungersi delle voci agli ottoni, si torna alla ripresa aerea (due piani di 16" e 20" rispettivamente); un ultimo dettaglio (di soli 4") introduce...
d) 9 piani. ...una lunga serie di crolli, prima degli edifici appena mostrati, poi di altri edifici, ponti, gru, nuovamente edifici.
e) 1 piano. La Sequenza si conclude con una esplosione "astratta" al rallentatore, molto simile a quelle della Sequenza conclusiva di Zabriskie Point, quasi una citazione di Antonioni.
Significativo è che la durata media dei piani decresca nelle prime quattro parti di questa Sequenza, essendo rispettivamente di 16", 11", 11" e 8", in coincidenza col serrarsi del ritmo interno ai piani e alla musica, e si porti infine a 18" nel piano conclusivo che con l’effetto dilatatorio del rallenty esasperato provoca un allentamento della pressione temporale, ancora una volta in accordo con l’acquietarsi della musica sui mesti toni iniziali, che si prolungano nella Sequenza successiva.
Nella Sequenza 16 il rapporto fra il montaggio e la struttura interna dei piani risulta al contrario più articolato. Come già detto il risultato cui si mira (e che si ottiene) è uno sfrenato crescendo di velocità; la durata media dei piani tende in effetti a diminuire gradualmente col progredire della Sequenza ma non è questo (non soltanto) che genera il crescendo, anzi, nel finale, negli ultimi 17 piani per l’esattezza, la durata media di essi aumenta sensibilmente senza che ciò determini alcun rallentamento. Nuovamente è il ritmo interno ai piani, la sempre maggiore pressione temporale interna a ciascuno di essi a determinare il serratissimo ritmo. Ad esempio, si consideri il 40o piano (l’uscita dalle scale mobili), di ben 47" interamente a macchina da presa fissa. Nulla di più statico apparentemente; nessun sintomo di lentezza, di indebolimento della pressione temporale in realtà, a causa dell’estrema densità del movimento al suo interno. Nonostante questa prevalenza del ritmo generato internamente ai piani su quello generato dal montaggio, quest’ultimo non è del tutto assente. In almeno tre momenti infatti (vedi fig. 3), l’ultimo dei quali è quello relativo alle trasmissioni televisive, è proprio il succedersi rapidissimo di piani brevissimi, quasi istantanei a mantenere l’ossessività del ritmo. Un ulteriore contributo al progressivo addensarsi del dinamismo è dato dai movimenti della macchina da presa: fino al piano dell’ingresso dei passeggeri nella metropolitana essa è immobile o presenta movimenti di trascurabile rilevanza. Dal piano successivo (una donna che cammina, in movimento - ovviamente - accelerato) la macchina da presa comincia a muoversi, a seguire i pedoni nella loro corsa sfrenata; due piani dopo si ritorna al traffico automobilistico, ma questa volta ripreso dall’interno di una delle auto in corsa. In altre parole l’osservatore, in un primo tempo esterno al movimento, ne viene, negli ultimi 5 minuti della Sequenza, totalmente coinvolto, divenendone egli stesso parte. Si ripropone insomma, sia pure in altro modo e in altro contesto, quel percorso dall’esterno all’interno già riscontrato nella Sequenza 3 (10).
E passiamo alla Sequenza 17, dove nell’assenza pressocchè assoluta di movimento sia esterno che interno all’immagine (a eccezione dei primi due piani dove c’è un lentissimo movimento di macchina gli altri sono costituiti da inquadrature fisse su soggetti fissi) è adesso il puro montaggio a determinare il ritmo, anche qui in leggero crescendo, della Sequenza; un montaggio caratterizzato dalla diminuzione della durata dei piani fra la prima parte e la terza, ma anche dalla perdita di uniformità dei soggetti in quest’ultima (il contrasto-analogia finale città-microchips) che evidenzia maggiormente la scansione ritmica attraverso l'accentuarsi delle soluzioni di continuità temporali dovute alla disomogeneità dei soggetti.
Infine nella Sequenza 18 la durata media dei piani si innalza nuovamente ai livelli della Sequenza iniziale (16") e anche la pressione del tempo interna ai piani si allenta (la maggior parte dei piani, dal sesto in poi, è ripresa al rallentatore). Inoltre, proprio grazie alla Sequenza 18, nella sesta Sezione, caso unico fra tutte, la durata media progressiva dei piani non tende a una costante diminuzione ma a una certa costanza ( fig. 5b), in accordo con la percezione di finale staticità che la permea.
Riassumendo sono individuabili un certo numero di moduli linguistici deteminanti il ritmo del film, ovvero: la ritmica musicale, le durate dei piani (ritmo esterno ai piani), la densità degli eventi (ritmo interno ai piani), l’essere l’osservatore (macchina da presa) partecipe o meno del movimento, il grado di uniformità delle immagini oggetto di montaggio. Essi sono usati in vari momenti singolarmente ("monodicamente") o simultaneamente ("polifonicamente"); c’è dunque nella costruzione della struttura temporale il ricorso a una molteplicità di scelte, a un uso delle possibilità del linguaggio cinematografico secondo modalità il più possibile ad ampio spettro. Siamo insomma lontanissimi da ogni forma di ascetismo linguistico, ed è forse questo l’unico sintomo di contatto con quella contemporanea cultura della molteplicità che ha trovato la sua espressione artistica più complessa nella polivalenza stilistica di un Joyce col quale sotto l’aspetto qui analizzato (e solo sotto questo) si può azzardare una analogia.
§3.5 I piani. L’analisi portata al livello dei singoli piani mostra il film come un succedersi di forme chiuse in sé, presentandosi, in altre parole, quasi ognuno di essi come un momento contemplativo autonomo, collegato ai precedenti e ai successivi solo da una affinità tematica, ma espressivamente e sintatticamente autosufficiente. Si vuole con ciò significare che ciascun piano, tutt’altro che pura cellula elementare di montaggio, presenta una propria compiutezza interna (11), pur non escludendo questo che ulteriori valenze espressive possano aggiungersi, come abbiamo visto in §3.2, dalla sua messa in relazione con altri piani o blocchi di piani, al livello della macrostruttura temporale dell’opera.
Un ulteriore modulo linguistico presente nella maggior parte dei piani è la stazionarietà, intendendo con tale termine il loro essere privi di importanti elementi di articolazione interna: essi mostrano, quasi fossero pure fotografie in movimento, qualcosa che accade e continua ad accadere per tutta la durata del piano (ad esempio l’accendersi e spegnersi delle luci dei grattacieli all’inizio della Sequenza 18). Poche le eccezioni, in cui il piano da struttura atemporalmente contemplativa, da contenitore di tempo uniforme si fa, attraverso l’evolversi di una azione al suo interno, struttura narrativa, sede di un tempo internamente divenente. Nella Sequenza 9, il lungo piano del rullaggio degli aerei, in cui si parte da una immagine incerta, rarefatta, lontana del soggetto (il primo aereo) e si giunge, attraverso un suo lento e costante movimento di avvicinamento (a macchina da presa ferma), alla sua progressiva materializzazione, al suo ingigantimento, al suo incombere sull’immagine, straripare al di là dei confini di essa con un effetto espressivo di schiacciamento sullo spettatore (12). Nella Sequenza 18, il piano dell’ingresso nell’ascensore, il quale racconta la storia di una esclusione (l’uomo che rimane fuori perché non c’è più posto), che nel contesto della Sequenza assume valore metaforico. E anche in alcuni piani della Sequenza 15, dove l’arrivo della sera è narrato attraverso il progressivo, lentissimo svanire del riflesso rossastro del sole al tramonto sulle pareti dei grattacieli.
L’assenza di divenire interno ai piani, o meglio la ripetizione sempre uguale a se stessa di un evento minimale (13) assume valenze diverse nel corso del film. Nella Sequenza 10 il transitare davanti alla macchina da presa di innumerevoli autoveicoli susseguentisi, essi come gli uomini al loro interno, identicamente a pezzi in una catena di montaggio, tutti uguali, tutti nell’identico modo, rappresenta una chiara metaforizzazione della vita "fatta in serie" dei grossi centri urbani, dove l’individuo, assorbito dal meccanismo dei processi produttivi, perde, funzionalmente a essi, ogni specificità che lo qualifichi appunto come tale. Inutile ribadire che discorsi del tutto analoghi valgono a proposito di molti piani della Sequenza 16. Nella Sequenza 19 invece il dilatarsi oltre misura della caduta del razzo, e quel movimento rotatorio sempre uguale a se stesso di uno dei suoi frammenti suggerisce una sospensione del tempo, un uscire al di là dei suoi confini, in un dominio in cui ogni divenire si è definitivamente congelato.
Per i motivi sopra esposti sulla struttura interna dei piani c’è in generale poco da aggiungere a quanto già detto finora: solamente il 19% di essi presenta movimenti di macchina (quasi sempre panoramiche, raramente zoomate e ancor più raramente carrellate), tanto da rendere degna di nota, insieme ai già analizzati movimenti di macchina che invadono gli ultimi cinque minuti della Sequenza 16, la parte iniziale della Sequenza 3, in cui proprio tale struttura interna, e segnatamente proprio il movimento di macchina, assume particolare valore: il viaggio nel deserto inizia infatti con una serie di lentissime carrellate aeree da destra a sinistra (14) lungo dorsali rocciose che mostrano un prevalente parallelismo con l’asse di traslazione della macchina da presa. La struttura di questi piani è dunque prevalentemente antiplastica, lineare, sorprendentemente non dissimile da certe interminabili carrellate laterali dell’ultimo Tarkovskij, e fornisce un contributo non trascurabile alla staticità della Sequenza.
Tuttavia, pur essendo la maggior parte dei piani costituita da inquadrature fisse "riempite" da eventi privi di divenire interno, non sarebbe esatto affermare che Koyaanisqatsi si presenta come un’opera concentrata pressoché esclusivamente sui livelli del montaggio e della figuratività per il già evidenziato motivo che spesso proprio la "pressione del tempo" interna ai piani gioca un ruolo fondamentale nel generare, della Sequenza, il ritmo complessivo.
In sintesi i piani sono dunque caratterizzati da compiutezza interna, significanza del ritmo interno e stazionarietà. Esemplifichiamo citando nuovamente il piano dell’uscita dalle scale mobili nella Sequenza 16, che contiene tutti i moduli linguistici sopra discussi. Esso è innanzi tutto caratterizzato da una forte pressione del tempo interna (velocità del movimento) ed è dunque, sul piano del ritmo, fortemente dinamico, ma è allo stesso tempo stazionario per l’assenza di divenire interno (il movimento si ripete sempre uguale) e chiuso in sé (nel piano successivo come nel precedente vediamo altre cose, nulla più sappiamo di cosa accade alla gente che ha lasciato le scale mobili).
Su piccola scala temporale o, in altre parole, in ciascun singolo momento (un momento reso in sé significativo dalla compiutezza interna di ciascun piano) dunque lo spettatore si trova di fronte a un accadere allo stato puro, che lo invita alla semplice, acritica delibazione di sé. Si può in altre parole dire che l’insieme delle caratteristiche sopra evidenziate qualifica i piani come strutture concepite in funzione di una fruizione ipnotica, in cui lo spettatore rischia di annullarsi nella pura contemplazione, perdendo di vista i valori semantici posti in essere nei livelli superiori della struttura temporale. Tale ambiguità, come vedremo nel prossimo paragrafo, è presente in misura ancora più evidente nell’ultimo dei livelli sintattici dell’opera: la struttura della singola immagine, si può anzi giungere ad affermare che la concezione della struttura dei piani pare finalizzata a porre l’accento sull’immagine (atemporale) in quanto tale, a non disturbarne la fruizione con una complessa articolazione interna del tempo.
§3.6. Le immagini. Questa è la componente certamente di più forte impatto sullo spettatore: Koyaanisqatsi si impone infatti innanzi tutto allo sguardo, per i valori estetici altissimi che si accompagnano alle immagini, sempre composte con assoluto rigore e facendo appello al massimo grado di virtuosismo fotografico.
Già la semplice ripresa iniziale delle pitture rupestri, con le sue figure inscritte in un triangolo scaleno, evidenziato ulteriormente dalle venature della roccia, denota tale attenzione alla composizione figurativa perfetta, un rivolgersi più d’ogni altra cosa al soddisfacimento dello sguardo; e una analoga concezione coinvolge per intero le successive prime due sezioni in cui predominano immagini caratterizzate da una spiccata ricchezza cromatica o plastica o da entrambe. Non ci si adagia nell’affievolimento delle sollecitazioni visive nemmeno nelle immagini del deserto in cui si ricorre alla luce calda delle ore tarde del giorno per annullare ogni piattezza cromatica e all’obbiettivo grandangolare per esaltare la plasticità delle frastagliate formazioni rocciose, in contrasto con la linearità, prima notata, della struttura interna dei piani. Nemmeno la gravitas di cui sono pervase queste immagini iniziali, quella interna staticità, su cui ho ripetutamente posto l’accento, della forma del tempo che le racchiude, fa dimenticare insomma il compiaciuto indulgere a una sorta di turgore visivo di sicuro effetto nel renderne la visione accattivante, immediatamente ed efficacemente leggibile sul piano puramente edonistico del godimento estetico, che si presenta in tal modo inevitabilmente come primo, e piú visibile, livello di lettura.
Tutto cambia con l’ingresso in città (terza Sezione), dove le immagini perdono spessore, si fanno a tratti perfino rarefatte, dominate dal bianco (gli aerei in rullaggio), dal grigio della foschia (il traffico) o delle masse di cemento (lo stabilimento industriale a ridosso della spiaggia), mentre il grandangolare lascia il posto al teleobiettivo e dunque l’accentuata plasticità all’appiattimento prospettico. Sono queste, insieme a varie altre della Sequenza 16, le immagini per cosí dire piú "oneste" del film, quelle in cui la componente figurativa è caratterizzata dal maggior grado di coerenza con l’aspetto contenutistico. In particolare, a proposito della Sequenza 16, è da notare come alla dominanza di quel ripetersi ossessivo di movimenti elementari tipico delle catene di montaggio, notato relativamente alla sua componente diacronica (ovvero la struttura interna dei piani), si affianchi una analoga ripetitività coinvolgente la componente sincronica, ovvero appunto la composizione delle immagini, in cui ricorre lo schierarsi di una moltitudine di oggetti tutti identici: automobili, persone, pezzi in lavorazione, prodotti alimentari; una identica organizzazione dunque dello spazio nell’immagine e del tempo nel piano, funzionale, anche qui, all’espressione.
Una tale coerenza tuttavia non è certamente dominante in Koyaanisqatsi: intanto, anche in queste immagini il lato spettacolare non viene mai abbandonato del tutto (ad esempio nell’ampiezza degli orizzonti e nelle vertiginose angolazioni della macchina da presa in varie riprese aeree); inoltre, già a partire dalle Sequenze 13 e 15 (inizio quinta Sezione) tornano la plasticità e il gusto per i cromatismi forti. Nella prima si ha una serie di inquadrature fisse di grattacieli, angolate (a eccezione, ricordiamo, della prima e dell’ultima) dal basso, caratterizzate dunque da uno spiccato dinamismo ascendente: i grattacieli sono ripresi in modo da evidenziarne gli spigoli vivi e il verticalismo, appaiono quasi essere lance puntate verso il cielo, il riflesso del cui azzurro intenso ricopre le loro vetrate. Di dinamismo mediamente meno accentuato, ma non di molto, la composizione delle immagini della Sequenza 15, mentre di notevole intensità permangono i cromatismi: il rosso vivo dei riflessi del sole al tramonto sui vetri e la galassia di luce artificiale della città notturna. La tendenza complessiva è insomma rivolta a saturare ogni aspetto della percezione visiva; tanto che in generale non si è molto lontani dal vero nel dire che ogni elemento tematico costituente l’immagine è anche elemento spettacolare e proprio per ciò funzionale a quel tipo di fruizione finalizzata al puro, edonistico godimento estetico di cui si diceva. Tipico e particolarmente rilevante (per il suo ricorrere in ogni parte del film) esempio di ció è il leit motiv costituito dai movimenti delle nuvole, sulle alture in principio, poi sui grattacieli, interpretabile sì come significante del sostituirsi di questi ultimi alle prime, del paesaggio artificiale a quello naturale, ma avente sulle immagini anche un effetto decorativo, una funzione estetizzante. In tal senso esso si presta, in primo luogo, a essere letto e questo è infine, se è vero che forma è contenuto, il senso ultimo delle immagini in quest’opera.
§4. Le implicazioni morali della forma.
Abbiamo ora abbastanza elementi per formulare delle valutazioni conclusive. Siamo di fronte a un’opera che si presenta nei suoi intenti come enunciazione di una netta condanna morale nei confronti della linea di sviluppo su cui l'umanità occidentale si è avviata; lo fa impostando una struttura narrativa precisa e a suo modo coerente che consente allo spettatore attento e ancor piú, come abbiamo visto, all’analisi spinta in profondità, di giungere a una visione chiara dell’interiorità dell’autore, ma realizzando tutto ció attraverso immagini e suoni di estrema, accattivante, direi perfino ridondante bellezza. Ho già rilevato come la stessa statica autosufficienza interna ai piani, contrastante con la concezione dialettica riscontrabile in molti punti nel montaggio, non è che un invito alla contemplazione estetizzante, ipnotica di quella bellezza, invito che rende ambigua l'opera ed equivoco l’atteggiamento dell'artista, perché una tale esuberanza di valori estetici che ricopre (ho usato questo termine non a caso) anche le immagini che mostrano gli aspetti piú deteriori dell'occidentalità, non puó non essere letta come una sotterranea forma di adesione a essi, non puó non invitare a un loro apprezzamento, sia pure contrabbandato all’interno della tesi ufficiale della loro condanna.
In un suo saggio inedito Alberto Grifi cita ´una lettera che aveva scritta Van Gogh dal manicomio: "... gli uomini sono spesso dei prigionieri e vagamente sentono, come succede a certi uccelli in gabbia, a primavera, che c’è qualcosa da fare: il nido, la covata, che è tempo di percorrere i cieli, eppure sentono di non poterlo fare, di essere legati da qualche dura impossibilità e invano continuano a battere la testa contro le sbarre della gabbia fino a impazzire di dolore..." Ecco, si può metaforizzare e dire che l’arte che contiene il progetto di una vita nuova, della libertà, dell’amore, del desiderio di conoscenza, è proprio come il canto degli uccelli in gabbia: il canto non ha la forza di rompere le sbarre e finisce per adattarsi alla prigionia assumendo la forma alienante della gabbia.ª
E’ quel che accade a Koyaanisqatsi, un’opera che vorrebbe esprimere un’ansia di libertà, di rinnovamento, ma che rimane immobile nella gabbia di una forma raccolta in se stessa (il conchiudersi di ciascun piano al proprio interno, la simmetria globale dell’opera), compiaciuta di sé (gli altissimi, estetizzanti valori figurativi), e che assume alla fine la forma della gabbia tecnologica che vorrebbe frantumare prestandosi agli stessi modi di fruizione edonisticamente alienati dei media, che sono la struttura a-comunicativa del sistema sociale che si vorrebbe sottoporre a critica. Per convincersi dell’utilizzabilità, dell’addomesticabilità di queste immagini basti pensare che spezzoni di questo film sono stati ripetutamente trasmessi da emittenti televisive specializzate in videoclip di musica commerciale e addirittura utilizzati per spot pubblicitari.
Come scrive ancora Grifi: ´è proprio quando i processi rivoluzionari falliscono nella vita che la creatività ripiega sull’attività artisticaª, e Koyaanisqatsi, opera d’arte a tutti gli effetti, che dell’arte non si sogna di mettere nulla in discussione, è un grandioso, entusiasmante, coinvolgente, e proprio per ciò alienante esempio di questa impotenza nell’agire sul mondo reale. E della potenza del mondo reale nel dare all’arte la forma di sé.
Appendice: le rappresentazioni grafiche.
Per l’analisi formale portata avanti in questo lavoro sono state utilizzate, come già nel secondo dei miei lavori su Tarkovskij citati alla Nota 1, delle rappresentazioni grafiche della struttura temporale del film la principale delle quali ( fig. 3) è costituita da un istogramma avente in ascissa il numero progressivo dei piani e in ordinata la durata dei piani stessi. L’n-esima linea rappresenta in tal modo l’n-esimo piano del film e la sua lunghezza è proporzionale alla durata del piano stesso. In fig. 3 inoltre è riportato il raggruppamento dei piani in Sequenze e delle Sequenze in Sezioni. Ogni gruppo di piani distanziato dagli altri tramite uno spazio vuoto rappresenta una Sequenza, la numerazione delle quali è riportata in ascissa, entro riquadri, sotto quella dei piani. La suddivisione in Sezioni è riportata invece nella parte alta del grafico. Inoltre, per le Sequenze 3, 12 e 17 è riportata anche la loro suddivisione interna in 2, 5 e 3 parti rispettivamente.
L’insieme dei dati ricavabili da questo grafico determina, fra l’altro, la struttura qualitativamente riassunta nel grafico di fig. 1.
Dal grafico di fig. 3 derivano inoltre i seguenti, nei quali si prescinde dalla suddivisione in sequenze:
Grafico delle durate medie progressive dei piani ( fig. 4) in cui l’n-esima linea rappresenta la durata media dei primi n piani.
Grafici delle durate medie progressive dei piani Sezione per Sezione ( fig. 5a e fig. 5b), analoghi al precedente ma ricavati isolando ciascuna Sezione dal resto del film.
Nell’approccio a tali rappresentazioni quantitative è tuttavia opportuna qualche avvertenza. Non si cada nell’errore di vedere questi istogrammi come rappresentazioni complete della struttura temporale del film, poiché essi tacciono totalmente sulla struttura interna dei piani. Inoltre, con particolare riferimento a quelli di fig. 4, fig. 5a e fig. 5b, si tenga presente che essi sono idonei a fornire valide indicazioni di tipo globale, ma non di dettaglio, le quali possono anzi risultare fuorvianti. Si pensi ad esempio al grafico di fig. 5b relativo alla Sezione 5, dal quale sembrerebbe di poter dedurre la presenza di un ritmo in crescendo anche nella sua parte iniziale (Sequenze 13 e 14), deduzione indotta falsamente dal lunghissimo piano iniziale della Sequenza 13 che porta in un primo tempo su valori alti le medie progressive. Lo stesso grafico tuttavia, se guardato nella sua globalità, evidenzia correttamente la struttura ritmica in crescendo dell’intera Sezione, che era poi ciò che interessava.
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