Alla stazione di Milano.
Cosi dicendo, eravamo arrivati alla stazione. Di là dalle uscite di
quella si vedeva minacciare un primo flutto di arrivanti : massa
variamente densa, bruna quasi tutta con chiazze disordinate di colori più vivi,
e tutta olesoa ; e se ne spiccavano esseri d’aspetto quasi umano. Mi
spinsi a guardare : l’amalgamo viscido saliva ribollendo su dalle
profondità delle scale , gorgogliava presso i cancelli, vi filtrava
attraverso, e di qua si rinfettiva per fare impeto contro le altre porte delle
uscite , sboccando all’aêrto cominciava a dilargare, tragico pastone umano
sputacchiato qua e là di luci erratiche dalle lampade che non riuscivano a
tenere buia la piazza, poltiglione macabro rimescolato dai lunghi bastoni
d’ombra e si protendevano dai lampioni. Di mano in mano che s’allontanava dalle
superate porte, tutto quello umanume, arabescato dalle volute disinvolte dei
tranvai, sferzato dalle frecciate rigide degli automobili, si andava sfarinando
in uno sofrmicolio sempre più fumido verso le tenebrosità romantiche del
giardino, gli assorbimenti tortuosi dei viali, le luminosità bestiali delle due
fili d’alberghi che fanno da quinte a quello scenario feroce. La massa
umaniforme non aveva una voce, ma parlava con un miscuglio affatturato di
gorgolii isterici, sbuffi, asme e ansiti con gemiti anelati e squarci di
strilli e di fischi, come un groviglio di serpi in amore in mezzo a un cespo di
fichi d’india : che era l’urlato inno della vita intensa degli uomini
verso lo stellato cadente d’agosto.
Io m’infilai tra la nuova calca che usciva dalla porta di destra ;
e spronato dalla fiducia e dalla raccomandazione di Florestano, mi misi con
infinito scrupolo a esaminare gli arrivanti. Mi stabilii e fermai solidamente
sulle due gambe un po’ aperte, per non essere travolte dalla fumana ; il
mio corpo costituiva cosi come una roccia incrollabile contro cui la corrente
veniva a fendersi, si apriva un momento in due corsi i quali mi giravano
attorno ruvidamente per ricongiungersi subito dall’altra parte, dietro di me,
verso il loro destino. Ma io non guardavo dietro me, né mi curavo del loro
destino ; fissavo avanti con un’attenzione concentrata ed enorme,
scrutando tutti i visi sotto i capelli, berretti , paplie e tese d’ogni
foggia.
Il glutiname d’uomini che prima avevo ammirato nella sua unità quasi
amorfa, ora mi si specificava in individui e individue e individuini, in un
continuo lavorio di modellazione. Mi pareva che io col mio sguardo appunto,
creassi quelle specificazioni plastiche ; e mi pareva per ciò di essere un
Dio, perchè pensai che probabilmente anche Dio lavora sopra una massa malforme
affollata ai cancelli del mondo, e col solo sguardo fissandola senza toccarla
ne plasma e cava fuori gli esseri interi, staccati e invidivui. Ma forse non è
vero. Certo è che Dio li fa senza valigie, scialli, cesti, ombrelli o
cappelliere di sorta ; quelle cose se le son fatte loro, con dell’intelligenza
avuta da Dio all’uscita dalla Grande Stazione. A me invece pareva che i centri
vitali e intelligenti di quella materia fossero appunto le valigie e le ceste,
che arrivavano e si spingevano, trascinandosi dietro, mediante un pugno stretto
e un braccio testo che dal pugno andava in su, un uomo o una donna. (Massimo Bontempelli, La vita Intensa, Mondadori, Milano)
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