Corso di
Laurea magistrale in Lettere moderne (Classe LM –14)
La violenza del disinganno. Leopardi e Bruto contro la
«ferrata necessità»
Relatore:
Prof. Guglielmo Barucci
Correlatrice:
Prof.ssa Laura Neri
Tesi di
laurea di Rebecca Fioravanti Matr. 00092A
Anno accademico 2023/2024 INTRODUZIONE..................................................... 2
1.1. FONTI ANTICHE.
DISEGNI LETTERARI E PADRI CLASSICI.......................................... 6
1.3. SPUNTI PERSONALI. IL
RICHIAMO DELLA VIRTÙ NELL’EPISTOLARIO.................... 27
2.1. LEOPARDI E LA CRISI DEL ’19-’21: UN MOMENTO DI SVOLTA............................... 35
2.2. L’AVO E IL NIPOTE. SOMIGLIANZE
DI FAMIGLIA TRA LEOPARDI
E BRUTO............. 46
2.2. L’ALTO RISCHIO DELL’AMOR PROPRIO:
L’EGOISMO............................................. 92
2.3. IL TITANISMO DI BRUTO NEL RINNEGAMENTO DELL’OLIMPO............................ 102
2.5. BRUTO CONTRO LA «FERRATA NECESSITÀ»....................................................... 122
1. PASSAGGIO,
ADEMPIMENTO. UNA «MUTAZIONE TOTALE»........................................ 134
2. BRUTO E TEOFRASTO: «L’ULTIMA
ETÀ DELL’IMMAGINAZIONE».............................. 146
INDICE
INTRODUZIONE
Il presente lavoro consiste in una trattazione critico-analitica
attorno alla tematica centrale dell’apostasia della virtù – e con essa, in
generale, di tutte le illusioni e degli ideali di derivazione antica – intesa
come momento di passaggio nella vita e nella poetica di Leopardi. A livello
storico e ideologico, la caduta degli ideali si pone come contrassegno della
fine dell’epoca antica (in cui erano ben vivi i sentimenti di virtù, gloria e
amor di patria), e inizio della modernità, incancrenita e corrotta da un
eccesso di ragione e barbarie sopravvenuto dopo la «strage delle illusioni». A
simboleggiare questo particolare mutamento è stato scelto il personaggio di
Bruto suicida (sia, e per la maggior parte, la figura storica che dà il titolo
al Bruto minore, sia il Bruto della Comparazione delle sentenze di Bruto minore
e di Teofrasto vicini a morte), poiché emblema della sconfitta, del
disinganno, del decadimento della morale e della morte degli ideali. Accanto
alla sua figura, che domina l’intera analisi, si colloca proprio Leopardi
stesso, non tanto in qualità di autore, ma in veste biografica, inquadrato
negli anni della crisi che va dal 1819 al 1821, anno di composizione del Bruto.
L’abiura della virtù rappresenta un mutamento che si espande
su più punti di vista:
se per Bruto questo cambiamento è storico-politico, per
Leopardi è invece poetico, ideologico, etico ed estetico; e mentre per il primo
la disillusione consiste nel crollo definitivo della Repubblica romana, e si
conclude con un suicidio compiuto come feroce atto di protesta, per il secondo
l’attimo del disinganno ha coinciso con alcune cruciali esperienze private e
politiche che lo hanno condotto a una ritrattazione delle sue opinioni attorno
alla natura degli uomini e delle cose.
In particolare, a segnare questa età di transizione sono stati, per Leopardi,
il mancato tentativo di fuga da Recanati, stroncato dal padre nel 1819, e il
fallimento dei moti risorgimentali che scuotevano i regni d’Italia nel biennio
1820-1821.
Di particolare supporto in questa
ricerca sono state le pagine critiche di alcuni tra i più importanti studiosi
di Leopardi, tra cui Andrea Campana, Ugo Dotti, Mario Fubini e Mario Andrea
Rigoni, per quanto riguarda i commenti ai Canti;
Fabiana Cacciapuoti, di cui è stata utilizzata l’edizione tematica dello Zibaldone; Bruno Biral, Pietro Citati e
Rolando Damiani, che hanno fornito dettagli illuminanti e precisi sulla vita di
Leopardi;
Umberto Bosco, Cesare Luporini e Marco Marcazzan, le cui
analisi sono state fondamentali per redigere un’accurata interpretazione della
filosofia leopardiana nonché per stilare il particolare accostamento tra
Leopardi e Bruto. Nondimeno, i contributi di Giorgio Barberi Squarotti, Barbara
Zandrino e Anna Dolfi sono stati indispensabili per l’approccio alla Comparazione delle sentenze di Bruto minore
e di Teofrasto vicini a morte e alla volgarizzazione del Manuale di Epitteto.
Il capitolo I (Un passaggio necessario: Bruto e Leopardi)
è un’introduzione che prepara il terreno alle tematiche salienti del Bruto minore. Si parte infatti da una
breve rassegna delle fonti storico-letterarie utilizzate da Leopardi per
costruire la figura di Bruto penitente, che, su testimonianza di Floro, in
punto di morte avrebbe esclamato che la virtù non è cosa, ma nuda parola: «Sed
quanto efficacior est fortuna quam virtus: et quam verum est quod moriens
[Brutus] efflavit, “non in re, sed in verbo tantum, esse virtutem”» (Floro IV,
7).
Il tema del
rinnegamento della virtù è stato presente nella prosa di Leopardi in realtà già
dal 1820-1822, anni a cui risalgono i primi abbozzi di Operette morali, e nello specifico il Dialogo… Filosofo greco, Murco senatore romano, popolo romano,
congiurati, il Dialogo Galantuomo e
mondo e la Novella: Senofonte e
Niccolò Machiavello. Non solo: il dramma psicologico della virtù era ben
vivo nella sensibilità – prima ancora che nella poesia – di Leopardi. Ciò è
evidente certo nello Zibaldone, ma
soprattutto nelle lettere giovanili indirizzate a Pietro Giordani, in cui i
primi accenni al decadimento della virtù e delle illusioni sono evidentissimi,
nonché associati al fantasma di Bruto, che da qui alla lettera a De Sinner del
1832 si prefigura come indissolubile alter ego di Leopardi. Questo legame
comprende numerose affinità (così come alcune differenze), che, sulla scorta
delle pagine critiche di Bruno Biral e Marco Marcazzan, si delineano come delle
vere e proprie somiglianze di famiglia, quasi come se Bruto fosse stato per il
recanatese una sorta di storico avo.
Nel corso del
capitolo II (I sentimenti di Bruto)
le tematiche analizzate seguono i sentimenti di Bruto: si va quindi dalla
rievocazione di un eroismo classico di ascendenza alfieriana (evidente già nel
puerile La morte di Ettore) al suo
rovesciamento, rappresentato dall’anti-eroe Bruto; per poi giungere alla
trattazione di passioni quali il disprezzo (presente anche nel più tardo Il pensiero dominante), ma soprattutto
dell’amor proprio, nella misura in cui Bruto lo incarna nell’accezione di amor di sé, che sfocia nell’oscuro
egoismo imperante nella società moderna e corrotta. E quello di Bruto è un amor
di sé che, portato all’eccesso nel furore della protesta, sfocia nell’atto atroce
del suicidio, sempre confrontato dalla critica con quello – più placido, più
rassegnato – della poetessa greca nell’Ultimo
canto di Saffo, contraltare di Bruto e corrispettivo femminile dello stesso
Leopardi.
Il gesto di Bruto va
però ben oltre l’atto in sé, poiché racchiude in una violenza estrema tutta la
meditazione solipsistica scaturita da un animo afflitto, disilluso e reduce da
una sconfitta secolare che vede tramontare qualsiasi speranza di ritorno degli
antichi ideali. Nel suicidio di Bruto emergono indubbiamente l’odio infervorato
contro sé stesso e l’Olimpo, ma soprattutto la lotta mancata contro il destino,
che nel componimento prende il nome di «ferrata necessità». Questa riveste il
ruolo non solo di fato, di contingenza estrema, ma anche di quella che negli
anni diverrà l’iconica natura matrigna che si insinua nelle pieghe della vita
di ciascuno: se Leopardi, dal canto suo, si era ritrovato a combattere la
necessità una volta prigioniero tra le mura di casa Antici all’indomani della
fuga e del fallimento dei moti risorgimentali, Bruto la incontra nella piana di
Filippi. E se Leopardi nella sua disperazione non poteva in alcun modo
conseguire il suicidio – a causa del dissidio interiore dettato dai deboli strascichi
dell’educazione cattolica – ecco che scorge nel suo Bruto un pretesto
catartico, trasferendo sul suo alter ego poetico la cupa rassegnazione di chi,
di fronte all’«arido vero», abbandona la scia originaria delle illusioni e
delle favole antiche.
È nel terzo capitolo
(In limine) che attraverso la lettura
di alcuni brani salienti dello Zibaldone si
dispiega in maniera più approfondita il passaggio da poeta a filosofo, la
«mutazione totale» che vede Leopardi abbracciare lo studio del vero per
addentrarsi nell’analisi filosofico-sociale delle passioni umane. Dopo aver
condotto un paragone tra il personaggio Bruto della canzone e quello – più
silenzioso – della Comparazione,
viene presa in esame l’opera del Leopardi più maturo, che, a differenza del suicida
di Filippi, è diventato virtuoso nella pazienza, quasi avvicinandosi all’atarassia
tipica degli stoici. Questo stato di tranquillità dell’animo è descritto dalle
parole dello stesso Leopardi nel Preambolo
del volgarizzatore al Manuale di
Epitteto tradotto nel 1825, in cui si legge che «l’uomo non può nella sua
vita per modo alcuno né conseguir la beatitudine né schivare una continua
infelicità». Questa condizione di instabilità, di confine, insomma, tra uno stadio
e un altro, riflette lo stato d’animo di Bruto che, uomo antico ma non ancora moderno,
si ritrova sulla soglia tra due epoche, delimitando quella che Luporini ha definito
una «zona “Bruto minore”».
Infine, si espone
come il dramma della virtù venga riproposto da Leopardi in alcuni canti del suo
ultimo lavoro, i Paralipomeni della
Batracomiomachia, poemetto satirico elaborato a seguito dei disordini
insorti durante i moti del ’30-’31 (e quindi: in una situazione storica simile
a quella che ha favorito la composizione del Bruto) in cui la larva della virtù si riaccende nello spirito del
generale Rubatocchi al sopraggiungere della sconfitta, ma che, di fronte alla
«ferrata necessità», a differenza di Bruto sceglie di morire da eroe per amore
e salvaguardia della patria.
Oltre ai tre capitoli
finora presentati, a conclusione del lavoro si è deciso di aggiungere
un’appendice (Un mondo nuovo) che
propone un parallelismo tra Il mondo
nuovo di Aldous Huxley, romanzo distopico del 1932, e la filosofia
leopardiana, specialmente quella che trapela dai versi del Bruto minore. Infatti, insieme alla critica della società che, per
certi aspetti, mostra degli elementi di comunanza tra i due autori – seppur
nella diversità di intenti – ciò che si è ritenuto interessante riportare è un paragone
tra due figure a loro modo penitenti della virtù: Bruto, dalla parte
leopardiana, e il Selvaggio John, dalla parte huxleyana. Entrambi i personaggi,
infatti, pongono drasticamente fine alla vita col suicidio dopo essere venuti a
contatto con un “mondo nuovo” che non soddisfa le loro aspettative – e anzi
provoca in loro la più amara delle disillusioni – proprio perché non rispecchia
l’onestà degli ideali per cui fino a quel momento avevano con fierezza
combattuto. Naturalmente, un simile raffronto si pone come tentativo di lettura
dell’opera distopica di Huxley sulla scorta della filosofia leopardiana, poiché
che non si hanno fonti certe sulla piena conoscenza dell’opera del recanatese
da parte di Huxley.
I – UN
PASSAGGIO NECESSARIO. BRUTO E LEOPARDI
1. VERSO
IL BRUTO MINORE
1.1.
FONTI ANTICHE. DISEGNI LETTERARI E PADRI
CLASSICI
Che il disegno del Bruto
minore[1] fosse germogliato nella
mente di Leopardi già tempo prima del 1821 (data della sua effettiva
composizione)[2] appare chiaro in primis da alcuni brevi appunti volti
a trattare «di quella famosa esclamazione di Bruto vicino a morte […] e notando
e compiangendo l’abiura da lui fatta della virtù»[3],
assieme ad altre puntuali note che avrebbero idealmente costituito possibili Argomenti di un libro politico:
Dello scopo degli antichi (il bello
e non l’utile né il vero).
Della diversa disposizione degli
antichi e de’ moderni rispetto alla necessità. Di quella famosa esclamazione di
Bruto vicino a morte.
Delle cagioni de’ fatti eroici (V.
Montesq. p. 34. Lin. 4.)
[…]
Della barbarie
Dell’amore della virtù presso gli
antichi […][4].
È evidente che questi titoli sono strutturati come se
fossero un elenco di argomenti già pensati in precedenza (sicuramente, nello Zibaldone) [5]
o destinati a un successivo approfondimento: Leopardi non poteva essere più
lontano dal disordine, anzi dava ai suoi
progetti un’importanza tale per cui risultavano parte di un
enorme e continuo lavoro quanto mai caotico, ma anzi «ragionato e dimostrato»[6].
Da una prima lettura di queste
annotazioni emerge che Leopardi «distingueva tra l’atteggiamento attivo degli
antichi e quello passivo dei moderni di fronte alla “necessità” o al “destino”.
Ai primi, più combattivi, appartiene naturalmente il Bruto bestemmiatore della
virtù»[7], il cui amaro verdetto
(pronunciato in nome di una «stolta virtù», non più cosa ma nuda parola) offre lo spunto sia per la canzone che
per la Comparazione delle sentenze di
Bruto Minore e di Teofrasto vicini a morte, ed è prontamente copiato dal
testo di Floro annotato nello Zibaldone:
«Sed quanto efficacior est fortuna quam virtus: et quam verum est quod moriens
(Brutus) efflavit, “non in re, sed in verbo tantum, esse virtutem”
FLORO IV, 7»[8].
Si potrebbe poi notare, sulla scia
proposta da Blasucci, che il titolo Bruto
minore non vanta di spiccata originalità: al contrario, era consuetudine di
Leopardi riprendere talvolta stilemi di opere classiche (specialmente, e per
ovvi motivi, nelle traduzioni, come il Manuale
di Epitteto, fino ad arrivare ai Paralipomeni
della pseudo-omerica Batracomiomachia),
proprio perché «il rapporto di Leopardi con i titoli fu generalmente meno
inventivo, più allineato ai canoni della tradizione letteraria»[9]. E infatti, in questo caso,
poco si discostava dal familiare Bruto
secondo dell’Alfieri, anche se l’intento di Leopardi era piuttosto di
riportare nella sua personalissima poesia un’usanza propria degli antichi, i
quali «intitolavano spesso i loro libri assolutamente dal nome delle persone
che v’erano introdotte a parlare»[10].
Acuta osservazione è appunto quella di Blasucci,
che considera i titoli dei Canti come
«una sorta di langue titolatoria,
rispetto alla quale la parole fu
costituita dai testi»[11], e aggiunge che «la
distanza fra tradizionalità del titolo e innovatività del testo tende a
presentarsi in parecchi casi con un carattere di marcata intenzionalità, tale
da presupporre una vera e propria strategia d’autore»[12].
Non solo nel Bruto minore, ma anche nella Comparazione
delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto vicini a morte (che, composta
nel 1822, fungeva da introduzione al Bruto
nell’edizione bolognese delle Canzoni del
1824)[13], il recanatese si serve di
fonti classiche, dal momento che sulla figura di Bruto – traditore politico per
antonomasia – «incentra ogni riferimento biografico, rimandando alla pura
citazione delle fonti e all’eventuale memoria del lettore, la complessità
dell’eroe, capitano, politico, filosofo, oratore, interlocutore del dialogo Brutus, destinatario dell’Orator di Cicerone»[14],
che però, al contrario della versione leopardiana, si mostra «grande e
magnanimo, ponderato e tranquillo, capace di ogni sentimento di bellezza e di
onestà, semplice e puro di vita, generoso della congiura, forte nel desiderare,
amante delle belle discipline e della filosofia con cui modifica natura e
ragione»[15].
Inoltre, opportunatamente menzionato da
Barbara Zandrino è anche Plutarco, dal momento che «è l’impianto strutturale
delle Vite parallele di Plutarco a
costituire l’occasione e lo spunto, la genesi costitutiva dell’operetta» che,
sottoforma di un paragone di estreme sentenze, mette in scena la caducità delle
grandi illusioni e «l’adozione di un
Laelius, dove pur prima di tutto parla esso Cic. in
persona propria), ma similmente altri libri, come Isocrate il Nicocle e
l’Archidamo”».
atteggiamento fermamente virile»[16].
Ancor più esplicativo è ciò che intuisce Zandrino riguardo al
raffronto tra la biografia di Dione
e quella di Bruto, due eroi che compiono grandi imprese ispirati quasi dagli
stessi principi (poiché uno è allievo di Platone, l’altro educato nelle dottrine
platoniche) che rendono testimonianza della virtù provando come sia necessario
che potenza e fortuna debbano andare congiunte con la prudenza e la giustizia
perché le imprese politiche abbiano grandezza e bellezza e che muoiono di morte
violenta, non avendo mai avuto pace nei contrasti della vita, senza veder
compiuti i loro disegni (Dione, 1,
2-3; 2, 2)[17].
Considerate le massicce competenze filologiche e
linguistiche raggiunte da Leopardi già in giovane età, nonché il suo altissimo
livello di erudizione[18], non dovrebbe sorprendere
che il suggerimento primo per la materia del Bruto minore sia da ricercarsi nelle fonti storiche della Roma
antica: come infatti riportato da Andrea Campana nella sua nota introduttiva,
«lo spunto principale di BM […] sta
nella leggenda»[19] ed è riportato, del resto,
proprio nelle prime righe della Comparazione
delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto vicini a morte, in cui è
l’autore stesso a giustificare la scelta della materia trattata:
Io non credo che si trovi in tutte
le memorie dell’antichità voce più lagrimevole e spaventosa, e con tutto ciò,
parlando umanamente, più vera di quella che Marco Bruto, poco innanzi alla
morte, si racconta che profferisse in dispregio della virtù: la qual voce, secondo
ch’è riportata da Cassio Dione, è questa. O
virtù miserabile, eri una parola nuda, e io ti seguiva come tu fossi una cosa:
ma tu sottostavi alla fortuna. […] laonde Pier Vettori dubita che Dione in
questo particolare faccia da poeta più che da storico, si manifesta il
contrario per la testimonianza di Floro, il quale afferma che Bruto vicino a
morire proruppe esclamando che la virtù
non fosse cosa ma parola[20].
Non di sole fonti storiche si è servito,
naturalmente, Leopardi: a un soggetto così peculiare
– come il Bruto uccisore di Cesare – e così perfettamente
inserito in preciso contesto
storico, è doveroso dedicare un incipit «significativamente modellato sul principio del libro III
dell’Eneide»21, opera
simbolo della latinità:
Poi che
divelta, nella tracia polve
Giacque ruina
immensa
L’italica virtute, onde alle valli
D’Esperia verde, e al tiberino
lido,
Il calpestio de’ barbari cavalli
Prepara il fato[21]
Nelle postille al testo Leopardi riporta pedissequamente,
per chiarezza nei confronti del lettore, la fonte virgiliana da cui ha
ricalcato la struttura dei tempi verbali, giustificando così i cambi repentini
all’interno della stessa strofa[22]:
Acciò che questa mutazione di Tempo
non abbia a pregiudicare agli stomachi gentili de’ pedagoghi, la medicheremo
con un pizzico d’autorità virgiliana. Postquam
res Asiae, Priamique evertere gentem Immeritam VISUM Superis, CECIDITQUE superbum Ilium et omnis humo FUMAT neptunia Troia[23].
Inoltre, sapendo di aver volutamente modificato la geografia
dello scenario tragico, sempre nelle postille Leopardi sottolinea di essersi
concesso «la licenza, usata da parecchi scrittori antichi di attribuire alla
Tracia la città e la battaglia di Filippi, che veramente furono nella
Macedonia»[24]. Il motivo di questa scelta
è da ricercarsi, probabilmente, nel
21 Cfr. note
al testo di Ugo Dotti, in G. Leopardi, Canti,
a cura di U. Dotti [1993], Milano, Feltrinelli, 2012, p. 254.
permanere di uno stile solenne, peregrino[25] e ricercato (e che si cuce
perfettamente all’argomento e all’atmosfera del Bruto, personaggio della
romanità) tipico del Leopardi erudito: il Bruto
minore si inserisce infatti nel
novero delle canzoni giovanili, che ancora risentono della lezione appresa
dagli autori classici.
Analogamente a quanto accadrà in seguito
nella stesura della Storia del genere
umano (nonostante si tratti di prosa) può essere d’aiuto il commento di
Fubini, che riguardo all’operetta in questione precisa che talvolta «quella
prosa ci appare stanca e accademica», e tuttavia anche nel caso del Bruto minore si può affermare che «ciò
accade non già per le forme e i modi di espressione usati dallo scrittore,
bensì perché quelle forme e quei modi sono adoperati più per abitudine che per
necessità, e, con la loro dignità esteriore, tentano di nascondere la debolezza
del pensiero e del sentimento»[26].
Seguendo poi il suggerimento di Giulio
Di Fonzo, si può tentare di spiegare come l’utilizzo di tracia polve si debba alla «concretezza metaforica e veemente» che
nel componimento «si misura anche nell’ordine dello spazio raffigurato»[27], oltre che nel tentativo di
emulazione di stilemi tradizionali. Infatti, continua Di Fonzo,
la stessa inconsistenza della
virtù, che Bruto deluso colpisce, si oggettiva in un paesaggio corrispondente
di “cave nebbie”, di campi abitati da larve e fantasmi. Il notturno sanguinoso
lambito dal mare, come scena in primo piano, apre dietro di sé una vastissima
spazialità che nella sola Ia strofe si muove come effetto di
rapidità concitata e di concisione drammatica (esaltata da Leopardi nelle note
del Novembre ’21 ed esemplificata su Orazio): dalla “tracia polve” all’“Esperia
verde”, al “tiberino lido”, per salire alle zone nordiche dei barbari pronti a
calcare su Roma[28].
Anche Blasucci ricorda che, oltre alla ripresa di un
archetipo classico, il tono solenne dell’esordio (e, del resto, di quasi tutto
il componimento) è volto alla «ricerca di quel “pellegrino”, additato
dall’autore dello Zibaldone come un
coefficiente primario della ‘poeticità’»[29],
e sistematicamente propone altri esempi di aperture di Canti ricalcate sullo stesso costrutto, fra cui i versi che aprono Nelle nozze della sorella Paolina:
Poi che del
patrio nido
I silenzi lasciando, e le
beate
Larve e l’antico error, celeste
dono,
Ch’abbella agli occhi tuoi
quest’ermo lido,
Te nella polve della vita e il
suono
Tragge il destin[30]
Riguardo l’influenza che lo studio dei classici ha
esercitato sul recanatese, sempre Blasucci prende in analisi la traduzione
leopardiana del secondo libro dell’Eneide,
specificando che il suo saggio «non riguarda propriamente l’originalità della
traduzione in se stessa, quanto la sua importanza sugli effetti del costituirsi
del linguaggio poetico dei Canti»,
nel momento in cui «il valore di quella versione non consiste soltanto […] in una
generica atmosfera stilistica, ma in una serie di precise e numericamente
imponenti […] soluzioni espressive che il traduttore dell’Eneide propone al futuro poeta delle canzoni»[31].
Quale che fosse la fonte da lui
utilizzata, e se si trattasse di storia o di mera leggenda, non è tuttavia il
nodo fondamentale: ciò che slitta in primo piano è l’estremo fascino subito da
Leopardi per la figura di Bruto – ma un Bruto penitente della virtù –, e la
sottile quanto lampante somiglianza che avvertiva con lo storico avo, al punto
da riservargli non solo una delle punte più alte di tutta la sua poesia, ma
anche la Comparazione delle sentenze di
Bruto minore e di Teofrasto vicini a morte e puntuali riferimenti, spesso
impliciti, nelle lettere e nello Zibaldone.
A fianco
dell’emblematico tema della caduta della virtù (che, più avanti, verrà
accorpato al pessimistico e più generale concetto di “crollo delle illusioni” e
al vagheggiamento per una perduta comunione uomo-natura tipica dell’età primordiale),
Leopardi si scaglia anche contro la filosofia entrata in vigore dai tempi dei
romani in poi, considerata «come un sintomo della decadenza della civiltà
antica, del suo allontanarsi dalla natura», e «si impegnò a dimostrare questa
tesi specialmente per il mondo
con un Preludio di A. Prete [2019], Milano,
Feltrinelli, 2020, pp. 674-675: «Il pellegrino delle voci o dei modi […] è
fonte di eleganza in modo che se osserverete lo stile di Virgilio o di Orazio,
modelli di eleganza a tutti i secoli, vedrete che l’eleganza loro
principalissimam. e generalmente consiste nel pellegrino dei modi e delle voci,
o delle loro applicazioni a quel tal uso, luogo, significazione, nel pellegrino
delle metafore ec. […] E ciò è tanto vero, che se quella cosa pellegrina, p.e.
quella voce, quella frase, metafora, diventa usuale e comune, non è più
elegante […]. Per noi italiani è grandissima fonte di eleganza l’uso di voci o
di modi latini, presi nuovamente da quella lingua, in modo che sieno
pellegrini; ma non però eccessivi nè come pellegrini, cioè per la forma troppo
strana ec. ec. nè come troppo frequenti latinismi».
romano»[32], come si evince ad esempio
da questo passo dello Zibaldone
risalente al luglio 1820:
Vedete che cosa avvenne ai Romani
quando s’introdusse fra loro la filosofia e l’egoismo, in luogo del
patriotismo. Il qual egoismo è così forte che dopo la morte di Cesare, quando parea
naturalismo, che le antiche idee si risvegliassero ne’ romani, fa pietà vederli
così torpidi, così indifferenti, così tartarughe, così marmorei[33] verso
le cose pubbliche. E Cicerone nelle filippiche il cui grande scopo era di
render utile la morte di Cesare, vedete se predica la ragione, e la filosofia,
o non piuttosto le pure illusioni, e quelle gran verità che aveano creata e
conservata la grandezza romana[34].
È evidente che qui Leopardi insiste anche sulla freddezza
degli animi dei romani, e non nasconde lo sconforto nel vederli ormai spenti,
egoisti e appunto marmorei; lo
stesso, personalissimo aggettivo scandisce anche l’apatia degli dèi nel Bruto minore: «A voi, marmorei numi, /
(Se numi avete in Flegetonte albergo / O su le nubi)»[35].
1.2. TRE
DIALOGHI PER LA VIRTÙ
Quello di Leopardi è un Bruto idealmente eletto fautore
della libertà, ma che suo malgrado si ritrova perdente e sconfitto di fronte
alla vittoria degli eredi di Cesare e al rischio di vedere il governo
precedente tramutarsi in un dispotismo accuratamente celato. Gli ideali
perseguiti dai nostalgici della Repubblica non esistono più, poiché «la virtù
non è che un vuoto nome, [e perfino] la divinità, anziché premiare il virtuoso
se ne fa beffa e ludibrio, [e] tutta l’esistenza storica dell’uomo non è che
una vistosa insensatezza»[36]. Di fronte dunque alla
constatazione che, con la disfatta dei cesaricidi, Roma avrebbe aperto le porte
a una direzione velatamente tirannica, così Leopardi
rifletteva sulla caduta della libertà, dai tempi dei romani in poi, nel gennaio
1821:
Il governo monarchico assoluto e
dispotico, ossia giustamente e con verità, ossia che l’uomo odia naturalmente
la servitù, e soffre di miglior animo i mali della cattiva e sregolata libertà;
o che questo è il peccato, il flagello, il difetto, la sventura dominante del nostro
secolo, e de’ passati, dall’estinzione, possiamo dire, della libertà Romana, in
poi: per qualunque ragione, è considerato come il più imperfetto e barbaro e
contrario al buon senso, alla retta ragione, alla natura, in somma per il peggiore
di tutti i governi[37].
Questo specifico momento di passaggio dalla libertà Romana a un governo
pseudomonarchico – e che sottende, però, il fulcro centrale del pensiero
leopardiano, che vede nella fine dell’età antica la caduta di ogni dolce
illusione, e l’avvento dell’arido vero e
del disinganno all’entrata di un’epoca moderna predominata dalla ragione – è
rappresentato proprio dalle conseguenze del cesaricidio. Prima di entrare nel
vivo del Bruto minore, infatti, è
interessante notare come lo spunto storico della congiura presenti proprio
nell’agosto del ’20[38] lo sfondo ideale per «quel
gioiello di prosa satirica»[39] che è Dialogo… Filosofo greco, Murco senatore romano, popolo romano,
congiurati[40], ancora acerbo ma «celere,
borioso» [41] e ambientato appunto «nella
circostanza cruciale (l’assassinio di Cesare) in cui si spegne “l’ultima età
dell’immaginazione” […] e si annuncia il tempo della filosofia»[42].
Si tratta, invero, di
un dialogo ritmato e incalzante, che incorpora alcune dottrine tipiche del
Leopardi filosofo (e che infatti parimenti si ritrovano in alcuni pensieri
dello Zibaldone, nella Comparazione e nel Frammento sul suicidio) ma che conserva anche, specialmente nella
parte iniziale, il tipico «tuono ironico»[43]
caratterizzante delle Operette morali:
M. […] Il fatto sta che di Cesare
in quanto Cesare non me ne importa un fico; e per conto mio lo potevano mettere
in croce o squartare in cambio di pugnalarlo, ch’io me ne dava lo stesso
pensiero. Ma mi rincresce assai che ho perduta ogni speranza di fortuna,
perch’io non ho coraggio, e questi tali fanno fortuna della monarchia, ma nella
libertà non contano un acca. E peggio è che mi resta una paura maledetta[44].
La dichiarazione di Murco e «il movimento di battute
dialogiche rapidissime»[45] (che vagamente può
ricalcare i serrati dialoghi dell’Alfieri tragico) lasciano presto spazio a ben
più amare sentenze, dalle quali, come indicato dal Russo, «emerge da un lato il
tramonto dei valori antichi nel tempo moderno, e la corrispondente apostasia
contro la virtù; dall’altro l’immagine degli uomini che, non più tenuti desti
dalle illusioni, si addormentano in seno alla filosofia»[46]:
M. Che m’importa di patria, di
libertà ec. Non sono più quei tempi.
Adesso ciascuno pensa ai fatti suoi […] Questo
non è il secolo della virtù ma della verità. La virtù non solamente non si
esercita più col fatto (levati pochi sciocchi), ma neanche si dimostra colle
parole, perché nessuno ci crederebbe. Oh il mondo è cambiato assai.
L’incivilimento ha fatto gran benefizi […].
F. La filosofia non è altro che la scienza della viltà d’animo e di corpo,
del badare a se stesso, procacciare i propri comodi in qualunque maniera, non
curarsi degli altri, e burlarsi della virtù e di altre tali larve e
immaginazioni degli uomini. La natura è gagliarda magnanima focosa […] Se tutto
il mondo fosse filosofo, né libertà né grandezza d’animo né amor di patria né
di gloria né forza di passioni né altre tali scempiezze non si troverebbero in
nessun luogo. Oh filosofia filosofia!
Verrà tempo che tutti i mortali usciti di tutti gl’inganni che tengono svegli e
forti, cadranno svenuti e dormiranno perpetuamente fra le tue braccia […] Che bella cosa la nuda verità![47]
Da questi passaggi essenziali si evince che «il Filosofo
greco è il teorizzatore di quella viltà – dovuta al prepotere della ragione e
alla morte delle illusioni – di cui il senatore romano Murco è l’incarnazione»[48]. L’operetta, insomma, nel
momento in cui «offre una sorta di ritratto della confusione seguita
all’uccisione di Cesare alle Idi di marzo»50 mette in scena una
crisi descritta quasi alla leggera, in modo frivolo, poiché concretizza l’iniziale
intento del recanatese di trasporre in commedia temi da tragedia,
scrivendo
Dialoghi Satirici alla maniera di
Luciano, ma tolti i personaggi e il ridicolo dai costumi presenti o moderni, e
non tanto tra morti, giacché di Dialoghi de’ morti c’è giá molta abbondanza,
quanto tra personaggi che si fingano vivi, ed anche volendo, fra animali; […]
insomma piccole commedie, o Scene di Commedie[49].
Questo progetto rispondeva a «un’ottica di giovamento, di
utilità generale che è sottesa all’ambizioso programma di Leopardi» – spiega
Emilio Russo –, «ottica nella quale potranno riuscire dunque più efficaci le
armi del “ridicolo”, piuttosto che quelle della passione o della filosofia»[50]. Per questo motivo, essa si
rivela «una satira molto acuta, brillante, pungente di uomini vili e
conformisti che, tolti al loro quieto vivere, si trovano improvvisamente a
dover prendere posizioni su fatti così impegnativi e così impellenti»[51]. Nondimeno, nella misura in
cui inaugura un impianto tematico che ritornerà anche nella maggior parte delle
Operette morali, si dimostra «un
testo più rilevante di quanto non appaia, per l’emergere di alcune formule che
si distenderanno nelle operette più mature, per la denuncia della guerra tra
gli uomini sullo sfondo dell’opposizione naturaragione»[52]
e che, in questo caso, si serve di un quadro storico particolarmente presente
in svariati componimenti del recanatese.
Tuttavia, ad emergere
nel dialogo non è la figura di Bruto (tant’è vero che qui «i Romani appaiono
insensibili al suo gesto eroico, profondamente corrotti dalla ragione»[53], e da una parte gridano
«Viva la libertà» e dall’altra «Viva la dittatura»)[54],
ma il fatto che il mondo sta cambiando, che non esistono più «la libertà, la
patria, la virtù», poiché sono «parole da vigliacco»[55],
non più cose, ma nude parole. E, soprattutto, che «l’atto eroico di Bruto non
può ridestare un popolo così profondamente corrotto dalla ragione»[56].
Forse la scelta dello scenario della
battaglia di Filippi, e in particolare di quel preciso momento di passaggio
dall’età repubblicana all’età imperiale – che costituì, senza dubbio, uno
scarto rilevante tra le due fasi storico-politiche vissute dalla Città Eterna –
si deve al fatto che «era questo un periodo in cui la fine della repubblica
romana costituiva oggetto di appassionata meditazione per il giovane
alfieriano, che già tendeva a dare, più dello stesso Alfieri, uno sbocco
disperato al proprio libertarismo»[57].
Inutile tentare invano di raggiungere a
ritroso quel tempo antico in cui libertà virtù e amor di patria pur contavano
qualcosa (e anzi, non poco): ora, soltanto, «giacque ruina immensa / l’italica
virtute»[58], un tempo radiosa, e
lucente. Anche la più bella età deve compiere il suo corso, e «giunge per così
dire sino al tempo della battaglia di Filippi quando l’eroe, pronunciando la
sua solenne abiura della virtù, è come se decretasse la fine della repubblica
romana intesa, come Leopardi stesso annota, come “istato libero”»[59]:
Poi che
divelta, nella tracia polve
Giacque ruina immensa
L’italica virtute, onde alle valli
D’Esperia verde, e al tiberino
lido,
Il calpestio de’ barbari cavalli
Prepara il fato, e dalle selve
ignude
Cui l’Orsa algida preme,
A spezzar le romane inclite mura
Chiama i gotici brandi[60].
Già dai primi versi emerge che l’antico gioiello nato dal
frutto delle conquiste virtuose degli antenati di Bruto è raso al suolo:
saranno i barbari ad impossessarsi della sua rara bellezza, che a stento ora
riluce.
Oltre al Dialogo… Filosofo greco, Murco senatore romano, popolo romano,
congiurati si distingue, per continuità tematica, anche un’altra operetta del
’21 (non pubblicata e successivamente confluita in Appendice) in cui «la virtù è dichiarata inutile e dannosa»[61]: si tratta del Dialogo Galantuomo e mondo[62], il quale mostra che «il
moderno, come stortura e
rovesciamento […] progredisce a partire da una scissione morale prodottasi
subito dopo Bruto e Murco […] con l’avvento del cristianesimo»[63]. Infatti, così si descrive
corrotto e snaturato il Mondo in persona che
intrattiene il Galantuomo:
Dunque sappi che quando io fui d’età fra maturo e vecchio, e
lasciai la bottega e i cibi della natura per quelli della ragione, mi prese una malattia simile a quella che Dante ec.
Perché la testa e le gambe mi si cominciarono a voltare in maniera che la
faccia venne dove stava la nuca, e il ginocchio dove stava l’argaletto (parola
falsa), sicché il davanti restò di dietro, e quello che tu vedi non è il petto
né il ventre, ma la schiena e il sedere. E non
posso più camminare altro che a ritroso, e quelli che gridano che il mondo è tutto il rovescio di quello che
si dovrebbe, si maravigliano scioccamente. Allora bench’io guardassi e
considerassi il mio cammino assai più di prima, siccome lo guardava di
traverso, e in un modo pel quale io non era fatto, inciampava, cadeva, errava
ad ogni passo. Così finalmente mi risolsi di mettermi a sedere, e non muovermi più[64].
La «malattia simile a quella che Dante» di cui soffre il
Mondo è un chiaro riferimento all’immaginario infernale, e in particolare agli
indovini reclusi nella quarta bolgia dell’ottavo cerchio. La dura legge del
contrappasso punisce le anime dei fraudolenti attraverso una condanna che fa da
monito all’onestà intellettuale: coloro che, come l’interlocutore
dell’operetta, spinti dalla smania di indovinare anzitempo le sorti del mondo
(battendo con la loro ragione Dio e le leggi della natura), hanno mostrato in
vita eccessiva fretta e arroganza, si ritrovano con il collo inclinato
all’indietro e la faccia retroversa, al punto che «’l pianto de li occhi / le natiche
bagnava per lo fesso» (Inferno XX,
vv. 23-24), e son costretti a camminare al contrario in una lenta
processione:
e vidi gente
per lo vallon tondo venir, tacendo e lagrimando, al passo che fanno le letane
in questo mondo. Come ’l viso mi scese in lor più basso, mirabilmente apparve esser travolto ciascun tra ’l mento e ’l principio del
casso, ché da le reni era tornato ’l
volto, e in dietro venir li convenia, perché
’l veder dinanzi era lor tolto.
(Inferno XX, vv. 7-15)
Gli indovini fecero uso sbagliato della ragione, volendone
usufruire non tanto per ampliare le loro conoscenze o offrire aiuto in società,
quanto per ergersi sopra le leggi del destino peccando di frode. Allo stesso
modo, una volta che il Mondo dell’operetta cammina a ritroso, insomma si
ritrova completamente al contrario di quello che fu un tempo (dacché l’eccesso
di ragione ha paradossalmente instupidito gli uomini, e resi grezzi e incapaci
di immaginare e di sentire), iniziano a vigere leggi strane e diverse, «cui il
Galantuomo dovrà appunto adeguarsi, rinunciando alla propria natura virtuosa»[65].
E qui siamo
allora al cuore dell’operetta, nel momento in cui l’autore annota che si
potrebbe aggiungere «un discorso […] sopra l’inutilità anzi dannosità del vero
merito e della virtù»[66]:
G. Adesso capisco perché la massima
parte, anzi, si può dire, tutti quelli
che da giovani avevano seguita la virtù ec. entrati al servizio di V.E. in poco tempo mutano registro, e
diventano cime di scellerati e lane in chermisino. V.E. mi creda ch’io
gl’imiterò in tutto e per tutto, e quanto per
l’addietro sono stato fervido nella virtù e galantuomo, tanto per l’avanti sarò caldo nel vizio.
M. Se avrai filo di criterio. Io
voglio che tu mi dica una cosa da galantuomo per l’ultima volta. A che ti ha giovato o giova agli uomini la
virtù?
G. A non cavare un ragno da un buco. A fare che tutti vi mettano i
piedi sulla pancia, e vi ridano sul viso e dietro le spalle. A essere infamato,
vituperato, ingiuriato, perseguitato, schiaffeggiato, sputacchiato anche dalla
feccia più schifosa, e dalla marmaglia più codarda che si possa immaginare[67].
Una volta interiorizzata la lezione del Mondo «sempre
vittorioso, che convince facilmente il giovanetto che, a dir il vero, era già
convinto che la virtù non cava un ragno dal buco»[68],
il Galantuomo si ritrova a cambiare idea, e imbocca la strada per diventare un
vero penitente della virtù. E svela
finalmente, e solo da ultimo, il suo nome, «che riveli, almeno a chi sappia un
po’ di greco, da quale terra proviene colui che ha tanta fretta di mettersi al
servizio del Mondo»71:
G. […] Perché quelli che non hanno
mai sperimentato il vivere onesto, non possono avere nella scelleraggine quella
forza c’ha un povero disgraziato, il quale avendo fatto sempre bene agli
uomini, e seguita la virtù sin dalla
nascita, e amatala di tutto cuore, e trovatala sempre inutilissima e sempre
dannosissima, alla fine si getta rabbiosamente nel vizio, con animo di
vendicarsi degli uomini, della virtù e di se stesso. E vedendo che se
avesse
voluto far bene agli uomini, tutti
avrebbero congiurato a schiacciarlo, si determina di prevenirgli, e di
schiacciargli esso in quanto possa.
M. Qual è il tuo nome, ch’io lo
metta in lista insieme cogli altri?
G. Aretofilo Metanoeto al servizio di V.E. Aretofilo Metanoeto è quanto dire Virtuoso Penitente, cioè penitente della virtù, come diciamo
peccator penitente colui che si pente nel vizio[69].
Quel «povero disgraziato» che, credendo di operare nel bene
e «seguita la virtù sin dalla nascita», si è ritrovato immancabilmente a
gettarsi nel vizio per vendicarsi di coloro che «avrebbero congiurato a
schiacciarlo» è prefigurato già nel cap. XVIII del Principe (Quomodo fides a
principibus sit servanda), in cui Machiavelli elenca le qualità che un buon
principe deve incarnare per difendersi dagli attacchi di chiunque si appresti a
ingannare colui che agisce in buona fede, e soprattutto per governare lo Stato
secondo astuzia:
Quanto sia laudabile in uno
principe il mantenere la fede e vivere con integrità e non con astuzia,
ciascuno lo intende; nondimanco si vede per experienza nelli nostri tempi
quelli principi avere fatto gran cose, che
della fede hanno tenuto poco conto e che hanno saputo con l’astuzia aggirare e
cervelli delli uomini: et alla fine hanno superato quelli che si sono
fondati in sulla realtà[70].
L’osservanza della fede da parte di un buon principe – e
dunque, leopardianamente, della virtù – sarebbe solo fine a sé stessa, in
quanto per poter governare gli uomini è necessario aggirare coloro che vivono
ingannando gli onesti, e prevenire le loro mosse grazie all’astuzia della volpe
e alla forza del leone:
E se li uomini fussino tutti buoni, questo precepto non sare’ buono: ma perché
sono tristi e non la observerebbono a te, tu etiam non l’hai ad observare a
loro; né mai ad uno principe mancarono cagioni legittime di colorire la
inobservanzia […] e quello che ha saputo
meglio usare la volpe, è meglio capitato. Ma è necessario questa natura saperla bene colorire et essere gran simulatore e dissimulatore:
e sono tanto semplici gli uomini, e tanto ubbidiscono alle necessità presenti,
che colui che inganna troverà sempre chi
si lascerà ingannare. […] E però
bisogna che egli [il principe] abbia uno animo disposto a volgersi secondo che
e venti della fortuna e la variazione delle cose gli comandano; e, come
sopra dixi, non partirsi dal bene,
potendo, ma sapere entrare nel male, necessitato[71].
Seguendo questa linea di pensiero si delinea allora, in fine
di operetta, quel concetto di “eroicità nel vizio” che Leopardi riprenderà
ancora più precisamente in un celebre passo dello Zibaldone del giugno 1822:
Alle ragioni da me recate in altri
luoghi, per le quali il giovane per
natura sensibile e magnanimo e virtuoso, coll’esperienza della vita
diviene, e piú presto degli altri e piú costantemente e irrevocabilmente, e piú
freddamente e duramente, e insomma piú
eroicamente vizioso, aggiungi anche questa, che un giovane della detta
natura e del detto abito deve, entrando nel mondo, sperimentare e piú presto e
piú fortemente degli altri la
scelleraggine degli uomini e il danno della virtú, e rendersi ben tosto piú
certo di qualunque altro della necessità
di esser malvagio e della inevitabile e somma infelicità ch’é destinata in
questa vita e in questa società agli uomini di virtú vera. Perocché gli
altri, non essendo virtuosi o non essendolo al par di lui, non isperimentano
tanto né cosí presto la scelleraggine degli uomini, né l’odio e persecuzione
loro per tutto ciò ch’é buono, né le sventure di quella virtú che non
possiedono. […] In somma, il giovane di poca virtú non può concepire un odio
cosí vivo verso gli uomini, né cosí presto, com’é obbligato a concepirlo il
giovane d’animo nobile. Perché colui trova gli uomini e meno infiammati contro
di se e meno capaci di nuocergli, e meno diversi da lui medesimo. Per lo che,
non arrivando mai ad odiare fortemente gli uomini, e odiarli per massima nata e
confermata e radicata immobilmente dall’esperienza, non arriva neppure cosí facilmente a quell’eroismo di malvagità
fredda, sicura e consapevole di se stessa, ragionata, inesorabile, immedicabile
ed eterna, a cui necessariamente dee giungere (e tosto) l’uomo d’ingegno al
tempo stesso e di virtú naturale[72].
Di questo argomento complesso, e di
tali sentimenti (su cui si ritornerà in seguito), Leopardi ha saputo dare
espressione nella figura del penitente virtuoso, un giovane «di forte
immaginazione e sentimento, che fu dapprima “eroico nella virtù”» e che
«quando, per forza dell’esperienza, delle sventure, degli esempi, disingannato
dalla virtù, arriva a lasciarla, non si arresta a un grado intermedio tra virtù
e vizio, ma diviene “eroico nel vizio”»[73].
Si è ritenuto opportuno citare qualche
passo del detto dialogo proprio perché è «nell’anno 1821 [che] il Leopardi
inventò la figura del pentito, cioè di un personaggio che si dissocia da tutto
il suo passato di galantuomo perché riconosce di aver avuta la testa piena di
sciocche fantasie»77.
Sempre agli stessi anni risale anche un’ulteriore
prosetta satirica[74] che pone al centro un
penitente virtuoso: Machiavelli, interlocutore prescelto per l’omonima Novella: Senofonte e Niccolò Machiavello (definita
da Russo come «il più ambizioso e importante degli abbozzi di operette arrivati
fino a noi)[75], nella quale il contrasto
tra le illusioni dei classici e la sapienza dei moderni è ancora il motivo
preponderante[76].
Discorrendo della
morale, e del modo in cui questa era stata inopportunamente considerata dai
suoi predecessori nel mestiere di governare, Machiavello confessa di essere
stato anche lui – come il Galantuomo – uno spasimante della virtù, e che
proprio per questo «dopo aver conosciuto la realtà della vita e del mondo» [77] abbia voluto dimostrare quant’è
importante «separarsi dalla responsabilità di quei retori che insegnano tutta
una serie di virtù spegnendo le quali l’individuo si muove in modo errato,
poiché la realtà è del tutto diversa»[78].
Un po’ come Bruto, dunque, anche Machiavelli si rivela un uomo «per quanto
illuso o deluso, in fondo saggio e pienamente consapevole di sé»[79], e si riconosce nel
pentimento scagionando l’inutilità della virtù, che ad altro non serve se non a
sorreggere un mondo contraffatto «secondo i precetti di quella che si chiama
morale»[80]:
Domando io: è vero o non è vero che
la virtù è il patrimonio dei coglioni: che il giovane più bennato, e beneducato
che sia, pur ch’abbia un tantino d’ingegno, è obbligato poco dopo entrato nel
mondo, (se vuol far qualche cosa, e vivere) a rinunziare a quella virtù ch’avea pur sempre amata: che questo
accade sempre e inevitabilissimamente85.
Tutto il discorso di Machiavello si
svolge, analogamente al soliloquio notturno del Bruto, nell’intento di una rivalsa personale: se però, da un lato,
Bruto penitente è tutto incentrato
su sé stesso, e rinnega non solo la virtù, ma anche gli dèi
e il fato avversi (come per accusarli della sua personale disfatta), e
soprattutto maledice il suo fallace impegno nell’aver perseguito un progetto di
governo irrealizzabile, dall’altro affiora un Machiavelli pienamente
filantropo, deciso insomma a insegnare come
si debba redigere un buon governo, proprio partendo dal rinnegamento degli
antichi valori[81]:
Sappi ch’io per natura, e da
giovane più di molti altri, e poi anche sempre nell’ultimo fondo dell’anima
mia, fui virtuoso […]. Né da giovane
ricusai, anzi cercai l’occasione di mettere in pratica questi miei sentimenti,
come ti mostrano le azioni da me fatte contro la tirannide, in pro della patria
[…]. Ma come uomo d’ingegno, non tardai a far profitto dell’esperienza, ed
avendo conosciuto la vera natura della società e de’ tempi miei (che saranno
stati diversi dai vostri), non feci come quei stolti che pretendono colle opere
e coi detti loro di rinnuovare il mondo, che fu sempre impossibile, ma quel
ch’era possibile, rinnovai me stesso.
E quanto maggiore era stato l’amor mio
per la virtù, e quindi quanto maggiori le persecuzioni, i danni e le sventure
ch’io ne dovetti soffrire, tanto più salda e fredda ed eterna fu la mia
apostasia. E tanto più eroicamente mi
risolvetti di far guerra agli uomini senza né tregua né quartiere (dove
fossero vinti), quanto meglio per esperienza m’accorsi ch’essi non l’avrebbero dato
a me, s’io fossi durato nell’istituto di prima[82].
Similmente a quanto era accaduto già nel Dialogo Galantuomo e Mondo, anche in
questo caso Leopardi si serve delle parole di Machiavelli – che ben si sposano
a un dialogo che lo vede protagonista – e precisamente del contenuto del cap.
XV del Principe (De his rebus quibus homines et presertim principes laudantur aut
vituperantur), in cui si introduce la differenza tra la realtà delle cose e
il vivere secondo morale:
E molti si sono immaginati
repubbliche e principati che non si sono mai visti né conosciuti in vero
essere. Perché gli è tanto discosto da
come si vive a come si dovrebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa,
per quello che si dovrebbe fare, impara più presto la ruina che la
perseverazione sua: perché uno uomo che voglia fare in tutte le parte
professione di buono, conviene che ruini infra tanti che non sono buoni. Onde è
necessario, volendosi uno principe mantenere, imparare a poter essere non buono et usarlo e non usarlo secondo la
necessità[83].
A seconda delle contingenze, dunque, un buon principe deve
saper giostrare le sue abilità, e essere in grado di agire non tanto secondo
precetti appresi in maniera teorica, quanto basandosi sulla propria esperienza,
formatasi anche e soprattutto sull’osservazione dei comportamenti umani. E
dunque, come il Machiavello leopardiano, il principe deve rinnegare i valori
morali quando questi non siano funzionali a redigere un buon governo, evitando
così di cadere in «quegli vizi che gli torrebbono lo stato», accogliendo invece
quelli utili a salvaguardarlo:
è necessario essere tanto prudente
che sappi fuggire la infamia di quegli vizii che gli torrebbono lo stato; e da
quegli che non gliene tolgano guardarsi, se gli è possibile: ma non possendo,
vi si può con meno respecto lasciare andare. Et etiam non si curi di incorrere
nella infamia di quelli vizii, sanza e quali possa difficilmente salvare lo
stato; perché, se si considera bene tutto, si
troverrà qualche cosa che parrà virtù, e seguendola sare’ la ruina sua: e
qualcuna altra che parrà vizio, e seguendola ne nasce la sicurtà et il bene
essere suo[84].
Anche per Machiavelli autore, quindi, chiunque segua
«qualche cosa che parrà virtù» cade facilmente in rovina: è necessario allora
fare buon uso di quei vizi utili a donare stabilità e benessere dello
Stato.
Come fa notare Marcazzan, il Machiavello
di Leopardi è indubbiamente dipinto in veste di pedagogo intento a instillare
nei suoi allievi il seme di una nuova morale; e però questa pedagogia, nel
proposito di insegnare l’arte del vivere (ed essendo dunque diametralmente
opposta al testamento di Bruto) certo «non risolve in sé lo spirito del Bruto, ma […] neppure si dissolve in
esso»[85].
Così, la
differenza sostanziale tra l’apostasia di Bruto e quella di Machiavelli sta
nella scelta: dove l’uno è ferocemente deciso a far guerra contro sé stesso e
il fato, e si uccide, l’altro antepone al suo sentimento di delusione l’amore
per la verità, e dunque l’insegnamento verso i posteri: «e promettendo loro di
ammaestrarli, non li feci più rozzi e stolti di prima, non insegnai loro cose
che poi dovessero disimparare […] spiegai loro distintamente e chiaramente
l’arte vera ed utile»[86]. E allora Machiavelli – fermo sì come Bruto, ma mosso dalla
devozione al vero e al sapere – si dimostra «paradossalmente, non
un misantropo, ma un amico degli uomini in quanto li aveva
stimolati a conoscere la verità e a comportarsi di conseguenza»[87]:
istituendo [gli uomini] non quanto
al fatto, ma quanto all’osservazione de’ fatti, ch’è proprio debito del
filosofo […]. Così che il Misantropo ch’io era, feci un’opera più utile agli
uomini (chi voglia ben considerare) di quante mai n’abbia prodotte la più
squisita filantropia, o qualunque altra qualità umana, come io mi rimetto
all’esperienza di chiunque saprà mettere, o avrà mai saputo mettere in opera
l’istruzione ricevuta dal mio libro[88].
Dove Bruto non arriva, arriva Machiavello, e si fa filosofo:
conosce il mondo antico, lo vede, lo disconosce; ma ricomincia. Trova, nella
disillusione, il punto di partenza per predicare l’insegnamento del vero ed utile. Tuttavia, «anche il suo
sapere, analogamente a quello del Galantuomo e di Teofrasto “vicino a morte”,
proviene da un “rinnegamento degli antichi principi umani e virtuosi”»[89], per cui è inevitabile che
anche la tenace apostasia di Machiavello sia mossa da una contingenza nondimeno
vincolante. Perciò, così conclude il suo discorso: «che non ostante il mio
rinnegamento degli antichi principii umani e virtuosi, fui costretto a conservare
perpetuamente una non so se affezione o inclinazione e simpatia interna verso
di loro»95.
Attraverso la
rivalutazione dell’errore – il vivere secondo precetti teorici – Machiavelli
esprime il proprio pensiero sulla virtù, tanto è vero che «l’intensa partecipazione
a livello personale a ciò che viene esposto si evidenzia anche negli accenti vibranti
di una prosa personalmente sentita», voce dell’abilità di Machiavello-Leopardi
di «oggettivare il proprio pensiero ed esprimerlo tanto come assioma
impersonale, quanto
come profonda convinzione personalissima»[90]. Questa novella incarna
infatti, alla stregua del Bruto minore,
la filosofia di Leopardi (di cui Machiavelli si fa portavoce) anticipando una
serie di alter ego dell’autore che prenderanno la parola nelle successive Operette morali, quali l’Ottonieri nei Detti memorabili di Filippo Ottonieri o
Amelio filosofo solitario nell’Elogio
degli uccelli. Queste figure-specchio del poeta mirano al «perseguimento
del vero e del reale, delle cose come sono in sé» – proposito che dopo il ’19
diventa «uno dei moti vitali dell’animo di Leopardi, come uno dei motivi della
ricerca e del pensiero di Machiavelli»[91].
Con questa prima introduzione si è
voluto dare uno sguardo a quelle opere, coeve al Bruto minore, che per parità di contesto (la fine della Repubblica)
e di argomento (l’apostasia della virtù, il rinnegamento degli ideali, il
sopravvento del vero e il perfezionamento dell’uomo da un primitivo stadio di
ingenuità verso uno di saggezza filosofica) si considerano affini, preparatorie
al e gemelle del componimento in questione. Di fatto, è specialmente dal Dialogo Galantuomo e Mondo e dalla Novella: Senofonte e Niccolò Machiavello
– le quali, presentando «la morale come l’arte del non vivere, e la virtù come
materia di pentimento in luogo della colpa» – che si nota quanto «il raccordo
col tema del Bruto è evidente, come è
evidente il raccordo colle penose, esasperate confessioni del 1819»[92].
Ora, come già si è accennato, l’intento
di Leopardi non era certamente quello di delineare l’ennesima biografia di uno
degli antagonisti più emblematici nella storia della Roma pre-imperiale, né
tantomeno quello di dedicargli un titolo encomiastico: non doveva essere,
insomma, un Bruto già visto, ma
«razionalista e illuminista […], attore della negazione pura e intrepido
sacerdote di riti intellettuali avvelenati da un’amara
coscienza di peccato». Quello che stava per plasmarsi era un
Bruto già al di là del cesaricidio, sconosciuto, nascosto, «quasi larva
insinuatasi surrettiziamente»[93].
In altre parole, ciò che a Leopardi premeva
di ingrandire sotto la lente era l’inutilità della «stolta virtù», il rimpianto
che Bruto nutriva verso quegli ideali repubblicani ormai inevitabilmente
caduti, e la sua bestemmia contro «il destino invitto» e i «marmorei numi»[94].
1.3.
SPUNTI PERSONALI. IL
RICHIAMO DELLA VIRTÙ NELL’EPISTOLARIO
Secondo quanto riportato da Leopardi circa il suo modo di
comporre poesie [95] , e considerando
ciò che lui stesso riporta in diversi passi dello Zibaldone e dell’Epistolario,
il Bruto risulta frutto di un
progetto che per lungo tempo ha tenuto occupato il suo autore in maniera
visceralmente necessaria.
Già nelle prime pagine dello Zibaldone il decadimento della Roma
repubblicana è oggetto di un appassionato appunto in cui Leopardi chiama in
causa Cicerone affinché si dispieghi in maniera il più possibile limpida – ma
infervorata – che le magnanime illusioni erano ormai svanite con la Repubblica
e il «beato tempo»[96]:
Cicerone era il predicatore delle illusioni. Vedete le
Filippiche principalmente, ma poi
tutte le altre orazioni sue politiche: sempre sta in persuadere i Romani a operare illusamente: sempre l’esempio de’
maggiori, la gloria, la libertà, la patria: meglio la morte che il servizio:
che vergogna è questa? Antonio, un tiranno di questa razza, ancora vive ec. E
intanto Antonio, che sarebbe stato pugnalato nel foro o nella curia in altri
tempi, tiranno vergognosissimo, non si poteva ottenere in Roma, essendoci tante
armate contro di lui, tanto motivo di sperare che sarebbe vinto che fosse
dichiarato nemico della patria: calcolavano, cercavano ec. quello che in altri
tempi senza un istante di deliberazione sarebbe stato deciso a pieni voti. Cicerone predicava indarno: non c’erano piú
le illusioni d’una volta, era venuta la ragione, non importava un fico la
patria, la gloria, il vantaggio degli altri, dei posteri ec.: eran fatti
egoisti, pesavano il proprio utile, consideravano quello che in un caso poteva
succedere: non piú ardore, non impeto, non grandezza d’animo: l’esempio de’
maggiori era una frivolezza in quei tempi tanto diversi. Così
perderono la libertà, non si arrivò a conservare e difendere
quello che pur Bruto per un avanzo d’illusioni aveva fatto, vennero
gl’imperatori, crebbe la lussuria e l’ignavia; e poco dopo con tanto più
filosofia, libri, scienza, esperienza, storia, erano barbari. E la ragione, facendo naturalmente amici
dell’utile proprio e togliendo le
illusioni che ci legano gli uni agli altri, scioglie assolutamente la
società e inferocisce le persone103.
A ribadire l’importanza della virtù, qualche anno dopo – e
all’altezza del Bruto minore – sempre
nello Zibaldone Leopardi afferma che
«la virtù, come predica Cic. de amicitia, è il fondamento dell’amicizia, né può
essere amicizia senza virtù, perché la virtù non è altro che il contrario
dell’egoismo, principale ostacolo all’amicizia ec. ec. ec. (17. Sett. 1821)»104.
Nonostante la precisione e la raffinatezza delle sue riflessioni, è tuttavia
risaputo che Leopardi era spesso antinomico e cambiava opinione nel tempo, e
non a caso era stato già Solmi a parlare dello Zibaldone come di un «pensiero in movimento»[97]:
perciò, se da una parte la virtù è elogiata in qualità di elemento fondante
dell’amicizia, dall’altra viene prontamente disprezzata in quanto inutile,
«stolta» e «patrimonio dei coglioni» (questo è, naturalmente, solo un esempio
della malleabilità del pensiero di Leopardi, che, per riprendere le parole di
Solmi, è sempre stato suscettibile di variazioni e soggetto a «delineare,
attraverso il costante rimuginio delle sue lucide proposizioni ed analisi, una
contraddizione per esso irresolubile sul piano logico»)[98].
Eppure, di fronte ai
repentini cambi di idea che rendono la Weltanschauung
leopardiana un continuo negarsi e correggersi, una cosa apparentemente
rimane uguale: i sentimenti eroici di Giacomo verso il destino. Sembra anomalo,
comunque, che a distanza
103 Z I, 107
in G. Leopardi, Zibaldone scelto, in
G. Leopardi, Opere vol. III, cit., pp. 25-26. Corsivi miei.
Si veda anche, per continuità di argomento, (Z II, 2, 2) in ivi, p. 224: «Le Filippiche di Cicerone contengono l’ultima voce romana, sono
l’ultimo monumento della libertà antica, le ultime carte dov’ella sia difesa e
predicata apertamente e senza sospetto ai contemporanei. D’allora in poi la
libertà non fu più l’oggetto di culto pubblico, né delle lodi e insinuazioni
degli scrittori […]. Quelli che vennero dopo la celebrarono nel passato come un
bene, la biasimarono e detestarono nel presente come un male. I suoi fautori
antichi furono esaltati nelle storie, nelle orazioni, nei versi come eroi: i
moderni biasimati ed esecrati come traditori». 104 Z 1724, 1 in G.
Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova
edizione tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., p. 62.
di dieci anni dal componimento Leopardi abbia mantenuto la
medesima posizione attorno a questo tema[99].
È del 1832, infatti, la celebre «apologia della propria filosofia»[100] nella lettera in risposta
a De Sinner, considerabile come una sorta di testamento dell’autore:
Quels que soient mes malheurs,
qu’on a jugé à propos d’étaler et que peut-être on a un peu exagérés dans ce
Journal, j’ai eu assez de courage pour ne pas chercher à en diminuer le poids
ni par de frivoles espérances d’une prétendue félicité future et inconnue, ni
par une lâche résignation. Mes sentiments envers la destinée ont été et sont
toujours ceux que j’ai exprimés dans Bruto
minore109.
Si tenga conto, però, di una precisazione essenziale, e cioè
che il dramma di Bruto non è solo personale, ma collettivo e storico. Pertanto,
l’interesse di Leopardi è anche di
natura storica, quasi analitica, volto ad indagare i motivi e le dinamiche che
hanno portato la fine di un’epoca di virtù, gloria e amor di patria che
inevitabilmente crollano. E dunque, come già accennato, non si tratta tanto di
voler approfondire la figura di Bruto cesaricida, «visto non nel momento della
disfatta e della disperazione, ma in quello eroico del tirannicidio»[101], quanto di ergerlo a exemplum di uomo penitente della virtù
ormai caduto in disgrazia, disingannato e disilluso quale era Leopardi nel
pieno della gioventù. Nel Bruto minore,
infatti, «l’orizzonte si allarga […] per proiettare dall’interno di un
personaggio dell’antichità classica […] il senso di una situazione
esistenziale» [102] : esprimere
quel sentimento che lo affliggeva nel momento rivelatorio della caduta della
virtù – quale illusione magnanima che alimenta il desiderio di conseguire un
ideale – è per Leopardi una questione urgente. E le questioni urgenti, da
quelle strettamente personali confessate a Giordani o alla sorella, ai motivi
di carattere prettamente editoriale,
sono tutte contenute nell’Epistolario (che, contrariamente a quanto riteneva Croce, è una
fonte più che mai illuminante del pensiero leopardiano)[103]
e che incarna una lampante «urgenza comunicativa, cioè, come rottura di un
isolamento, come anelito a un dialogo vivo e con i vivi, proiettato in un
altrove concreto e raggiungibile, dopo lunghi colloqui muti, e a senso unico,
con i libri»[104]. Di fatto, l’emblema della
virtù emerge fin da subito (dal 1817!), quando gli intensi desideri giovanili
ancora non erano accostati a una conseguente condizione di infelicità, e anzi
Leopardi mostrava di avere un «grandissimo, forse smoderato e insolente
desiderio di gloria»[105]:
Quando un giovane, Carissimo mio,
dice d’essere infelice, d’ordinario si immaginano certe cose che io non vorrei
che s’immaginassero di me, singolarissimamente dal mio amico Giordani, per il
quale io vorrei essere virtuoso quando bene non ci avesse altro spettatore né
alcun premio della virtù. Però vi voglio dire che, benché desideri molte cose,
e anche ardentemente, com’è naturale ai giovani, nessun desiderio mi ha fatto
mai né mi può fare infelice, né anche quello della gloria, perché credo che
certissimamente io mi riderei dell’infamia, quando non l’avessi meritata, come
già da qualche tempo ho cominciato a disprezzare il disprezzo altrui, il quale
non crediate che mi possa mancare[106].
Ma le cose presto cambiano. Nel giro di un anno, Leopardi si
rende conto di non essere altro che «un giovane senza scopi e gloria»[107]: nella sua personale
visione del mondo, la virtù cangia aspetto, e come quella spasimata (e poi
negata) da Bruto, è solo una nuda parola:
«chicchessia è costretto a desiderare che la virtù non sia senza qualche
ornamento esteriore, e trovandonela nuda affatto, s’attrista, e per forza di
natura che nessuna sapienza
può vincere, quasi non ha coraggio
d’amare quel virtuoso in cui niente è bello fuorché l’anima»117.
Siamo vicinissimi al Bruto. Non a caso, Leopardi tendeva a
confessare i suoi più reconditi sentimenti alla persona a lui più cara, la cui
amicizia era, sebbene in forma diversa, tenace quanto quella degli antichi[108]. Il carteggio con Pietro
Giordani racchiude alcune tra le punte espressive più alte della singolare
sensibilità del recanatese verso le cose (tra cui, appunto, la virtù),
nonostante «molti pensano che Leopardi esagerasse:
certo esagerava, ma aveva bisogno, almeno in questo periodo, di eccesso, di
furore, di follia»[109]. E sono soprattutto le
lettere giovanili a custodire la radice della filosofia leopardiana, mano a
mano affinata e perfezionata nello Zibaldone[110]. Sia da esempio questa
celebre lettera giovanile, dalla quale risalta «l’evidentissima analogia tra la
generale situazione leopardiana e quella del protagonista del canto – la
certezza che nulla al mondo ha valore, neppure la virtù»[111]:
[…] i libri, particolarmente i
vostri, mi scorano insegnandomi che la bellezza appena è mai che si trovi
insieme colla virtù, non ostante che sembri compagna e sorella. Il che mi fa
spasimare e disperare. Ma questa medesima virtù quante volte io sono quasi
strascinato di malissimo grado a bestemmiare con Bruto moribondo. Infelice, che
per quel detto si rivolge in dubbio la sua virtù, quand’io veggo per esperienza
e mi persuado che sia la prova più forte che ne potesse dar egli, e noi recare
in favor suo[112].
È chiaro che già da almeno un paio
d’anni Leopardi aveva in mente la figura di Bruto bestemmiatore, poiché
«l’abiura di Bruto serpeggia nel suo animo e lo sommuove: da
117 Lettera A Pietro Giordani, Milano (Recanati 2 Marzo
1818), in G. Leopardi, La vita e le
lettere, cit., pp. 78-79.
tempo egli stesso conosce il gusto amaro della virtù
inutile»123. Sempre all’altezza del ’19 (primo anno di profonda
crisi, anche a causa dell’aggravarsi di una malattia ai nervi oculari che tenne
pressoché fermo Leopardi nei suoi studi per lunghi mesi)124 risale l’appassionata
lettera a Saverio Broglio d’Ajano, in cui «l’identificazione con Bruto moribondo
è sconcertante»[113]:
Io sono stato sempre spasimato
della virtù: quello ch’io volea eseguire non era delitto: ma io son capace
anche della colpa. Si vergognino ch’io possa dire che la virtù m’è stata sempre
inutile. Il calore e la forza dei miei sentimenti si poteano diriggere a bene,
ma se vorranno rivolgergli a male, l’otterranno […]. Non fo gran conto di me:
pur mi parrà sempre formidabile chi avendo amata la virtù da che nacque, si
consegna disperatamente alla colpa[114].
La lettera a Broglio d’Ajano, le cui parole sembrano
«sfuggite […] a un’anima in tempesta» [115]
, si inserisce in un contesto di estrema difficoltà per Leopardi appena
ventunenne, che veramente sentiva una spinta verso l’esterno (dettata, in primo
luogo, dalla fatica di convivere nella casa paterna)[116]
e desiderava incanalare una progressiva via di fuga, dacché avvertiva una
sempre più forte e amara consapevolezza che «questo mondo è un nulla, e tutto
il bene consiste nelle care illusioni»[117].
Giacomo era fermamente disposto a rinnegare la stessa virtù un tempo spasimata
per ricercare quella disposizione d’animo che tempo dopo avrebbe definito eroicità nel vizio. All’altezza del ’19
è ormai
123 B. Biral, op. cit., p. 84.
124 Lettere A Pietro Giordani, Vicenza (Recanati 4
Giugno 1819): «Domandi notizia de’ miei studi: ma sono due mesi ch’io non
studio, né leggo più niente, per malattia d’occhi» e A Pietro Giordani, Vicenza (Recanati
21 Giugno 1819), entrambe in G. Leopardi, La vita e le lettere, cit., pp. 114-115: «Da Marzo in qua mi
perseguita un’ostinatissima debolezza de’nervi oculari, che m’impedisce non
solamente ogni lettura, ma anche ogni contenzione di mente». In ivi, p. 148, un’altra lettera A Pietro Giordani, Piacenza (Recanati 20
Marzo 1820): «Da gran tempo non penso né scrivo né leggo cosa veruna, per
l’ostinata imbecillità de’ nervi degli occhi e della testa […] son diventato
inetto a chicchessia, mi disprezzo, mi odierei m’aborrirei se avessi forza; ma
l’odio è una passione, e io non provo più passioni».
avvenuta la conversione letteraria che «rappresentò anche il
primo contatto non più meramente erudito, ma appassionato e impegnato, con
l’antichità»130.
Inizia a emergere ora, dopo anni di
studio incentrati sulla mera acquisizione passiva di nozioni letterarie,
storiche e linguistiche131, il vero carattere di Leopardi,
«ardentissimo e disperato»[118], che si scaglia contro «i
persecutori della giovinezza e delle giuste passioni di questa età»[119] e stabilisce una «recisa
affermazione di essere lui, Giacomo Leopardi, questo “mite” giovane ventunenne,
capace anche della colpa»[120]. Ma se è capace
della colpa, allora è capace anche di vendetta: si tratta, invero, di un
desiderio quanto mai raggiungibile, ma sempre tenuto vivo e presente nell’animo
come – e soprattutto – nelle opere. E non si esime infatti dall’anticipare
all’amico Pietro Giordani, nel 1820, ciò che lo spingeva a iniziare un nuovo
progetto: «In questi giorni, quasi per vendicarmi del mondo, e quasi anche
della virtù, ho immaginato e abbozzato certe prosette satiriche»[121]. L’apostasia di Bruto è
ancora lontana dalle Operette morali del
’24, ma è ben chiaro l’intento (un po’ serio, un po’ ironico) di proseguire un
impegno morale, di analizzare fino in fondo quel concetto di virtù – o meglio,
di apostasia della virtù – che costantemente lo attanagliava e che sarebbe
divenuto nel tempo, modificandosi ed evolvendosi, uno dei nodi cruciali della
sua filosofia.
Non lontano dal
dicembre 1821 (e dunque appresso alla manifestazione poetica dell’abiura di Bruto), Leopardi scrive:
130 S.
Timpanaro, op. cit., p. 190.
131 Lettera A Pietro Giordani, Milano (Recanati 2 Marzo
1818): «Perché in somma io mi sono rovinato con sette anni di studio matto
e disperatissimo in quel tempo che mi s’andava formando e mi si doveva assodare
la complessione», in G. Leopardi, La vita
e le lettere, cit., p. 78. Si veda anche la lettera A Pietro Brighenti, Bologna (Recanati 21 Aprile 1820), in ivi, pp. 152-153: «Dai 10 ai 21 anni io
mi sono ristretto meco stesso a meditare e scrivere e studiare i libri e le
cose. Non solamente non ho mai chiesto un’ora di sollievo, ma gli stessi studi
miei non ho domandato né ottenuto mai che avessero altro aiuto che la mia
pazienza e il mio proprio travaglio».
Era un tempo ch’io mi fidava della
virtù, e dispregiava la fortuna: ora dopo lunghissima battaglia son domo, e
disteso per terra, perché mi trovo in termine che se molti sapienti hanno
conosciuto la tristezza e vanità delle cose, io, come parecchi altri, ho
conosciuto anche la tristezza e la vanità della sapienza[122].
Ma il Bruto non è
che un inizio. Sempre tenendo fede all’Epistolario,
la riprova forse più lampante del sentimento di disillusione raggiunto (e
mantenuto) da Leopardi è offerto dalla celebre lettera a Jacopssen del ‘23: «Je
conviendrai, si l’on veut, que la vertu, comme tout ce qui est beau et tout ce
qui est grand, ne soit qu’une illusion».[123]
Ciò significa che è proprio questo il momento in cui il giovane recanatese sta
mettendo da parte la sua piena fiducia nei confronti dell’uomo (e della
naturale predisposizione a vivere secondo sentimento), e comincia a intuire lo
scorcio di un pessimismo ancora in erba che vede «l’allontanamento dall’antico
come una progressiva e inarrestabile decadenza»[124].
In sostanza, il Bruto minore costituirebbe
un punto di svolta tra il sogno delle illusioni giovanili e una presa di
consapevolezza moderna e pessimistica, incastrandosi a metà tra un passato
edenico e sterili tempi che precipitano
in peggio139, poiché l’età dell’oro è ormai tramontata e giace
come dipinta in un’antichità cara e lontana. E pure Leopardi si accorge che
«tutto [è] falso in questo mondo, anche la virtù»[125].
Questo breve excursus attorno all’Epistolario mira a dimostrare quanto gli
argomenti espressi nel Bruto minore
siano, forse più che in altri Canti,
peculiarmente vicini a Leopardi (soprattutto, Leopardi giovane) proprio perché
il componimento esprime quel momento di svolta necessaria situato alla fine di
un’epoca storica. Se, per Bruto, quest’epoca era la compianta Roma
repubblicana, per Leopardi coincideva con la violenta caduta del velo di Maya,
accompagnata dal disinganno e dalla scoperta dell’arido vero: di fatto, «Bruto dimostra una crisi delle illusioni del
tutto analoga a quella
sperimentata da Leopardi sul fronte esistenziale ed
estetico: come lui, è colto e raffigurato nella meditazione sul suicidio
liberatorio»[126].
Sicuramente, l’episodio del Bruto si situa nel limine tra due fasi
ben distinte, e Leopardi non poteva servirsi di una figura storica più
rappresentativa per dare voce a quella che era la sua estenuante condizione, al
punto che il critico Marco Marcazzan definì il poeta «l’ombra di Bruto»[127].
2. L’ALTER
EGO DI GIACOMO
2.1. LEOPARDI E LA CRISI DEL ’19-’21:
UN MOMENTO DI SVOLTA
Si è detto che particolarmente nelle lettere del biennio ’19-’20,
«spontanee, immediate, crude, strazianti»[128],
si annida non solo il germe della materia del Bruto (e del successivo ciclo lirico), ma anche della concezione
del mondo di Leopardi, la cui filosofia (che più tardi definirà «dolorosa, ma
vera») permea in tutti i suoi
componimenti[129]. Il 1819 segna infatti un
primo punto di svolta nella vita e nella poetica del recanatese. Come spiega
Biral,
la crisi si svolge su due piani:
sul piano profondo, dove agisce l’avidità critica del Leopardi, il processo di
erosione avvenne in forma costante, con sicure sfaldature; ma sul piano
psicologico il moto era più lento e contrastato, con qualche arresto, perché vi
pesavano i vincoli con tutto il suo passato145.
La coesistenza di aspetti differenti della crisi deriva dal
fatto che l’educazione rigidissima che gli fu imposta in casa Antici (da una
parte, la pedissequa osservanza della fede cattolica, dall’altra il contatto
con gli intellettuali illuministi colleghi di Monaldo) contrastava aspramente
con la sensibilità che stava via via plasmando il suo pensiero. Soprattutto, «l’attrito
complicato ed acerbo di questo primo momento di delusione, mescolato ad impeti
volitivi, a bruschi risentimenti di protesta, a movimenti teneri e
affettuosi»[130] sboccia in una profonda e
meditata riflessione attorno al sistema della natura (la quale, in un primo
momento, «diveniva soprattutto un polo positivo di vitalità, una fonte di
illusione e virtù generose, gentili ed eroiche, carica di energia, di risorse sentimentali,
edonistiche, estetiche»147, per poi progressivamente rivelarsi madre di parto e di voler matrigna)[131] e delle illusioni,
portando a una graduale maturazione del suo pensiero che, nel Bruto minore, è immortalato proprio nel
pieno della conversione, a metà tra la poesia edenica degli antichi e la
filosofia dei moderni.
Dunque, per giungere
all’essenza del Bruto minore (da cui
siamo partiti) andrebbe fatto qualche raffronto con la vita di Leopardi nel
periodo ’19-‘21, in modo da valutare alcuni episodi cruciali che hanno indotto
il divenire della sua filosofia e, soprattutto, la vicinanza alla figura di
Bruto penitente.
Prima di addentrarci in qualsiasi
discorso di natura storico-biografica, è opportuno precisare che «una compiuta
e particolareggiata interpretazione del pensiero di Leopardi dovrebbe […]
rinunciare ai tentativi di trarne conclusioni definitive, ma piuttosto fondarsi
sopra una sua integrale “storicizzazione”»[132]:
ciò è tanto più importante quanto più si analizzano i testi dell’autore in
correlazione al contesto biografico, culturale, storico, eccetera. Sarebbe
improprio tracciare certe somiglianze di
famiglia tra Bruto e Leopardi senza tener conto di tutto ciò che c’è
attorno: esiste quell’esatto contesto
storico, quella precisa delusione, quel particolare sentimento. In altre
parole, «tale storicizzazione dovrebbe intendersi in un duplice senso, ossia:
collocazione storica delle idee di Leopardi in rapporto al pensiero antico e al
pensiero sensistico e illuministico degli autori che frequentò, nonché delle
ideologie correnti al suo tempo»[133].
Se è vero dunque, come più volte
rilevato dalla critica, che il Bruto di Leopardi si affianca alla sconfitta
personale derivata da una delusione che fu anche
storica, si partirà proprio dal repentino mutamento che investì gli anni
’19-’21. Di fatto, il periodo di gran lunga più infelice della sua vita
comincia esattamente nel ’19 («anno di logoranti,
agghiaccianti noie»)[134],
quando la malattia d’occhi e l’aggravarsi delle sue condizioni fisiche lo
tennero legato a uno stato pressoché larvale per circa due anni, durante i
quali «pensò ancora, molte volte, al suicidio: la quasi cecità lo fece
sprofondare in sé stesso, e lo indusse a pensare come non aveva mai pensato
[…]; abbandonò la speranza, rifletté profondamente sopra le cose, divenendo
“filosofo di professione”»[135].
E all’insorgere di questa prima,
profondissima crisi germoglia in lui l’imperioso desiderio di fuggire da
Recanati – «borgo che pare sommerso in un lago di nebbia»[136]
– per incanalare una via di libertà brutalmente stroncata. Sono le calorose
lettere scambiate con Giordani a dimostrare che per il giovane «il non uscire
un poco da Recanati, sarebbe non vivere»[137]
e che tutta la sua famiglia premeva affinché lui rimanesse confinato tra le
mura domestiche155:
Non ho più pace, né mi curo
d’averne. Farò mai niente di grande? Né anche adesso che mi vo sbattendo per
questa gabbia come un orso? In questo paese di frati, dico proprio questo
particolarmente, e in questa maledetta casa, dove pagherebbero un tesoro perché
mi facessi frate ancor io, mentre, volere o non volere, a tutti i patti mi
fanno viver da frate, e in età di ventun anno, e con questo cuore ch’io mi
trovo, fatevi certo ch’in brevissimo io scoppierò, se di frate non mi converto
in apostolo, e non fuggo di qua mendicando, come la cosa finirà certissimamente[138].
In questa «vita strozzata»[139]
(per riprendere le infelici parole di Croce, che però in questo caso dipingono
come un’ekphrasis la sensazione di
oppressione domestica) Leopardi navigava da anni, tanto è vero che «almeno dal
1818, ha l’animo lacerato perché la condizione dell’uomo moderno è innaturale,
nemica delle fondamentali esigenze della vita»158: non potrebbe
essere più disilluso, e si sente anche lui, come Bruto moribondo,
«disgraziatissimo in tutto e per tutto»159,
infelice e reietto. Scrive così il suo congedo nella lunga lettera al padre,
vero e proprio «capolavoro di disperazione, furore, amore, odio, scherno,
retorica, strazio immedicabile»[140]:
Tutto questo, e le riflessioni
fatte sulla natura degli uomini, mi persuasero, ch’io benché sprovveduto di
tutto, non dovea confidare se non in me stesso. Ed ora che la legge mi ha già
fatto padrone di me, non ho voluto più tardare a incaricarmi della mia sorte.
Io so che la felicità dell’uomo consiste nell’esser contento, e però più
facilmente potrò esser felice mendicando, che in mezzo a quanti agi corporali
possa godere in questo luogo. Odio la vile prudenza che ci agghiaccia e lega e
rende incapaci d’ogni grande azione, inducendoci come animali che attendono
tranquillamente alla conservazione di questa infelice vita senz’altro pensiero[141].
Queste lucide considerazioni non solo anticipano il germe di
una filosofia eudemonistica che verrà sviluppata nel tempo, ma dimostrano
quanto sia facile per certi uomini retrocedere allo stadio biologico di fortunate belve nel momento in cui le sfortunate contingenze bloccano la loro
smania di compiere azioni grandi. Ma
le belve (che per natura trascorrono la loro quieta esistenza noncuranti della
morte impreveduta) non nutrono, a differenza degli uomini, alcun desiderio di
darsi la morte: «Di colpa ignare e de’ lor proprii danni / Le fortunate belve /
Serena adduce al non previsto passo / La tarda età»[142].
Come nel Bruto minore, infatti, «la
tranquilla ignoranza delle bestie contrasta l’infausta consapevolezza
dell’umano»[143] e Leopardi, in quel
momento, si sentiva poco più che un orso in gabbia.
159 Lettera A Pietro Giordani, Piacenza (Recanati 27
Novembre 1818), in G. Leopardi, La
vita e le lettere, cit., p. 86: «In somma è un pezzo che mi sono avveduto
ch’io sono disgraziatissimo in tutto e per tutto, e non c’è cosa che mi prema e
non mi vada a rovescio».
Rigettato dalla molla che (almeno
idealmente) lo spingeva a proiettarsi oltre il confine di casa Antici, Giacomo
è prigioniero nella sua stessa dimora, di nuovo piegato all’autorità del
tiranno Monaldo: «chiudendo la lettera, s’immolava davanti al padre, come un
capo sacrificale»[144]. Ma non fu solo una
prigione fisica ad ottenebrare Leopardi: era, ancor di più, una prigione
psichica quella in cui si rifugiò, chiuso nelle sue riservate inquietudini. E
proprio «dalla mitizzazione di questo periodo di sconfitte, di prostrazioni fisiche,
di “mortifere malinconie”, nasce la prima grande crisi pessimistica, in cui il
suo pensiero, senza alcuna distrazione, è sollecitato ad oggettivare una
inaudita antropologia negativa»[145]. I fermi propositi mutano
in chimere, e sembra che tutto finisca: la crisi del ’19 «trasformò il giovane
Leopardi da poeta in filosofo, facendolo inorridire davanti al vero che distrugge ogni cara
immaginazione»[146]:
Tutti i piaceri sono illusioni o
consistono nell’illusione, e di queste illusioni si forma e si compone la
nostra vita. Ora se io non posso averne, che piacere mi resta? e perché vivo?
Nella stessa maniera io dico delle antiche istituzioni ec. tendenti a fomentare
l’entusiasmo, le illusioni, il coraggio, l’attività, il movimento, la vita.
Erano illusioni, ma toglietele, come son tolte. Che piacere rimane? e la vita
cosa diventa? Nella stessa maniera dico: la virtù, la generosità, la
sensibilità, la corrispondenza vera in amore, la fedeltà, la costanza, la
giustizia, la magnanimità ec. umanamente parlando sono enti immaginari[147].
Accanto all’educazione letteraria e
filologica che era andato conseguendo negli anni dell’adolescenza, «lo
psicodramma della fuga»[148] inaugurava per lui un
nuovo campo di ricerca, ora strettamente personale, volto a scrutare ed
analizzare i flussi dell’interiorità,
(l’eredità di Caino nell’Inno ai Patriarchi). Nel Bruto
minore gli uomini trasgressori dei precetti naturali vivono “fra sciagure e
colpe”, mentre gli animali sono “di colpa ignari”».
insomma «gli si apriva precocemente
l’adito ai labirinti della coscienza, all’esplorazione tormentata
dell’interiorità individuale»[149].
A rendere un’idea ancora più chiara di ciò che sentiva,
tornano utili alcune parole di Croce (che per Leopardi, però, non ha speso se
non parole di sdegno all’interno di una visuale pressoché limitata):
La materia che, in quei brevi
intervalli, gli si porgeva alla contemplazione e meditazione non poteva che
essere la sua stessa immutabile condizione travagliata, divenuta per lui la
prigione nella quale era rinserrato e donde non sperava più di venir fuori. E
dal petto gli usciva il rimpianto per ciò che sarebbe potuto essere e non era,
per la promessa che la natura non gli aveva attenuta; – e nell’intelletto gli
si formava un giudizio, che poco a poco prese veste di teoria filosofica, sul
male, sul dolore, sulla vanità e nullità dell’esistenza, e che intrinsecamente
[…] era esso stesso un rimpianto, un’amarezza, un sentimento larvato,
proiezione raziocinante del proprio stato infelice[150].
È la stessa, irrisolvibile contingenza che ospita il suicida
di Filippi rifranto sulla soglia ultima dell’età delle illusioni che, giunta
alla fine del suo naturale decorso, tramonta con lui. Ma diversamente da Bruto
(anche se «sapeva di cercare la morte»)[151],
quello di Leopardi è piuttosto, nel ’19, una specie di suicidio dell’animo, una
sorta di morte simulata da cui pochi anni più tardi rinascerà il suo spirito
ardente[152]. Tuttavia, così com’era,
perdutamente immerso nel suo sconforto abissale, scriveva:
Io fuggiva di qua per sempre, e
m’hanno scoperto. Non è piaciuto a Dio
che usassero la forza: hanno usato le preghiere e il dolore. Non ispero più
niente, benché m’abbiano promesso molto: ma io confidava in me solo, e ora che son tolto a me stesso non
confido in veruno173.
All’indomani della mancata fuga, questa lettera a Giordani,
voce di un Leopardi che «nel 1819 [immagina] di esser già morto e dimenticato
da tutti»[153], suona come una protesta
silenziosa: e forse è quella stessa protesta che induce Bruto a spegnersi
sommessamente
– tolta ogni speranza, ogni briciolo di compassione, è
inutile vivere – benché consapevole che «Spiace agli Dei chi violento irrompe /
Nel Tartaro»175.
Nonostante l’aria
cupa di cui ora si nutriva passivamente, Leopardi «reagiva alla sua forzata
solitudine e alla frustrazione pratica dei suoi intensi desideri di vita con
questi “piaceri dell’immaginazione”, con questa ricca e acutissima vita della
sensibilità»176, e pur nella crisi risorge la sua frenesia
letteraria: nel ’19 scrive L’Infinito[154], mentre riprendeva
assiduamente anche la stesura dello Zibaldone
in maniera sempre più sistematica. Come spiega Citati, «tutto viene capovolto.
Dopo i mesi del tentativo di fuga, con le collere, le maledizioni, le violenze,
le rappresentazioni eroiche di sé stesso, appare una divinità nuova: la
pazienza (o la sopportazione)»[155].
Giunto a una saggezza maturata da quell’intima
metamorfosi, «aveva compreso che non aveva più nulla in comune con gli eroi
antichi, che lo visitavano ancora nel pensiero. Era diventato un moderno: un
moderno piegato, tranquillo, rassegnato, come tutti i moderni»[156]. Se nella sconfitta
Leopardi è il gemello del suo Bruto, nella rinascita invece si distingue: dove
Bruto, suicidandosi, afferma la sua cieca volontà di vivere, Leopardi sceglie
di patire e sopportare, di avere, appunto, “pazienza”[157].
È però una
175
G. Leopardi, Bruto
minore, v.v. 46-47, in G. Leopardi, Canti,
introduzione e commento di M. Fubini, cit., p. 76. Si noti, nella sopracitata
lettera, la somiglianza nell’utilizzo del verbo dispiacere per esprimere il disappunto degli dèi (o di Dio), come
se fosse malcelato da una leggera espressione del viso che denota, appunto, una
specie di rammarico.
176
W Binni, La
protesta di Leopardi, cit. p. 38: «Reagiva alla sua forzata solitudine […]
con questa ricca e acutissima vita della sensibilità, proiezione concreta della
sua maturante idea del valore delle illusioni riportate nell’ambito eroico e
pubblico entro una più privata forma di compenso della sensibilità “poetica” e
cioè etimologicamente creatrice di sensibili piaceri del cuore e della mente,
coinvolti in una prospettiva di alto edonismo e basati su di una sottile ed
acutissima esplorazione della realtà e dei suoi riverberi e sviluppi fantastici
e sentimentali. Questa onda di sensazioni e impressioni-espressioni dell’animo
sensibile […] costituisce la base della svolta poetica del ’19, in quegli
“idilli” […] che coprono momentaneamente la lacerazione della delusione storica
e personale, il trauma del fallito tentativo di fuga nell’agosto di quell’anno,
per intrecciarsi […] con riprese della prospettiva pubblica, con nuovi sgorghi
più complicati della stessa tensione idillica e idillico-elegiaca fra ’20 e
’21, e con l’imponente elaborazione del sistema della natura e delle illusioni,
risposta alla sua crisi di valori positivi reali e di possibilità di
coincidenza del “vero” con la vita sentimentale, attiva, eroica e poetica».
pazienza che sapientemente copre un impeto di ribellione
rimasto in soggiacenza, specie nei continui scontri ideologici col padre.
Dunque, la ribellione c’è, e persiste specialmente nei mesi subito successivi
alla fuga, da cui Leopardi «ricava, invece del cambiamento romantico della sua
esistenza, il vanto di un pensiero sovversivo rispetto al proprio retaggio»[158], al punto che Monaldo e
Adelaide accusarono di negativa influenza i letterati con cui il figlio
intratteneva solidi rapporti, specie Giordani.
Eppure, Giacomo seppe mostrarsi ormai
spogliato della giovanile renitenza, e «il rifiuto della casa e del paese di
nascita era invece maturato in un’esperienza virtuosa, ubbediente ai genitori,
trascorsa sui libri paterni»[159]. Si apre allora un nuovo
periodo di relativa calma (o meglio, appunto, di pazienza) in cui il recanatese
rielabora in maniera assidua il suo pensiero non ancora pienamente maturo.
Scrive così a Giordani nel dicembre ’19:
Era un tempo che la malvagità umana
e le sciagure della virtù mi muovevano a sdegno, e il mio dolore nasceva dalla
considerazione della scelleraggine. Ma ora io piango l’infelicità degli schiavi
e de’ tiranni, degli oppressi e degli oppressori, de’ buoni e de’ cattivi, e
nella mia tristezza non è più scintilla d’ira, e questa vita non mi par più
degna d’esser contesa[160].
Il periodo che va dal ’19 al ’21 fu
forse il più prolifico per la formazione della poetica e – soprattutto – della
nascente filosofia leopardiana, quasi come fosse stato un’incubatrice che diede
alla luce un’antropologia in costante divenire, nel suo lento incanalarsi verso
una direzione progressivamente vitalistica, fino a giungere, dopo frustranti
patimenti e passando per un «disgusto pessimistico più profondo [e] una
concezione dell’esistenza più disperatamente negativa»[161],
allo stadio finale dell’atarassia.
Se non altro, è pur vero che «il
pensiero del Leopardi, a datare quel fatale 1819 e anche più addietro, aveva
lavorato in senso negativo assai più di quanto non confessi la poesia», per cui
già nell’Epistolario «il cedimento
prodottosi nell’anima e nella mente si
traduce con più cruda immediatezza»[162],
e si evince che «Bruto era vivo nella sensibilità, prima ancora che nella
fantasia del Leopardi»[163].
A rendere ancora più copiosa la
riconsiderazione delle sue vecchie credenze in questo periodo di forzata
clausura è la questione attorno alla religione, in particolar modo il
cristianesimo: non ci soffermeremo più di tanto su questo punto; tuttavia, proporre
un accenno alla questione può certamente rendere il quadro biografico un po’
più completo. Dal biennio della conversione emerge – oltre al rammarico
sopraggiunto alla fallace manovra di evasione dalla gabbia natia e alla
conversione al vero – il ripensamento della liceità della morale cristiana (la
quale, per dirla con Biral, «ha un mostruoso potere deformante»)[164], che sin dal primo momento
gli era stata inculcata dalla madre Adelaide, fervida credente al limite del
fanatismo[165].
Nonostante risalgano proprio al ’19 gli
abbozzi degli Inni cristiani, nel
giro di due anni Leopardi cambia completamente il suo assetto ideologico,
allontanandosi faticosamente dai precetti appresi da bambino, poiché «le
speranze cristiane, anche se incredibili alla ragione, erano tuttavia un’antica
favola dalla quale si distaccava a malincuore»[166].
Nel marzo 1821, in un noto passo dello Zibaldone, il neo-filosofo afferma addirittura
che
Se la religione non è vera, s’ella
non è se non un’idea concepita dalla nostra misera ragione, quest’idea è la più
barbara cosa che possa esser nata nella mente dell’uomo; è il parto mostruoso
della ragione il più spietato; è il massimo dei danni di questa nostra capitale
nemica, dico la ragione, la quale avendo scancellato dalla mente dall’immaginativa
e dal cuor nostro tutte le illusioni che ci avrebbero fatti e ci faceano beati,
questa sola ne conserva, questa sola non potrà mai cancellare se non con un intiero
dubbio (che è tutt’uno e ragionevolmente deve produrre in tutta la vita umana
gli stessi effetti né più né meno che la certezza), questa sola che mette il
colmo alla disperata disperazione dell’infelice. […] così possiamo dire che
oggi, in ultima analisi, la cagione dell’infelicità dell’uomo misero ma non
istupido né codardo è l’idea della religione, e che questa, se non è vera, è
finalmente il più gran male dell’uomo e il sommo danno che gli abbiano fatto le
sue disgraziate ricerche e ragionamenti e meditazioni o i suoi pregiudizi[167].
Il progressivo distacco dalla religione si farà sempre più
evidente, fino a raggiungere il suo apice, ancora una volta, in quella lettera
a De Sinner spietata e provocatoria, in cui la ferma difesa di Leopardi parte
proprio con l’asserire «ch’egli è assurdo l’attribuire ai [suoi] scritti una
tendenza religiosa»[168].
Tutto il discorso portato avanti finora
sulla centralità che i concetti di virtù e gloria occuparono nella sua
tormentata giovinezza non starebbe in piedi se non fosse che «già nel settembre
del 1820 il cristianesimo viene giudicato, sul piano storico, come nemico delle
virtù che sono necessarie alla vita civile, alla difesa della libertà»[169]. A questo punto si
allaccia il delicato tema della legittimità del suicidio, impedito
categoricamente dalla morale cattolica eppure, all’altezza del Bruto minore, da Leopardi giustificato
in qualità di manifestazione eroica a difesa della virtù e dell’amor di patria.
Ma su questo si ritornerà in seguito.
La fuga da Recanati non si sarebbe
limitata al mero abbandono della casa paterna in quanto casa, ma al rovesciamento di quella limitatezza di pensiero che
adombrava la famiglia Leopardi, conservatrice dei precetti controrivoluzionari.
Scappando di casa, Leopardi avrebbe cioè compiuto l’atto rivoluzionario in nome
della sua libertà; ma «per Monaldo la
felicità [era] chiusura nella norma, accettazione dei limiti e rifiuto della particolarità
dell’esperienza», quando «per Giacomo esplicitare la propria idea di felicità significa[va]
anche dichiarare il bisogno della propria affermazione, l’uscita dalla famiglia
e da Recanati, l’adesione completa a un modello misto di eroismo e di commozione,
di partecipazione diretta e di espansione della propria sensibilità e dei
sentimenti»[170]. Di fatto, la partenza non
fu annullata, ma solo rimandata.
In questo contesto, ciò che preme
sottolineare è che «nell’immobile silenzio della biblioteca paterna l’animo del
Leopardi si è inasprito battendo contro il muro delle vecchie credenze che
sempre più contrastavano con il suo profondo sentimento»194.
Tuttavia, nonostante le molteplici negazioni delle antiche
norme che era andato distruggendo in quel cruciale biennio, permane ancora –
per il momento – la concezione di una natura provvida, come si evince dalle
canzoni del ’21 e soprattutto dall’Ultimo
canto di Saffo, composta l’anno successivo.
Quella del ’19 fu una vera e propria rottura,
poiché «dalle certezze maturate alla fine dell’anno di malattia e di crisi,
della lettera al padre e dell’Infinito,
Leopardi non si staccherà più e tutto il suo sistema filosofico vi ruoterà
intorno, come fosse il commento a una conoscenza originaria» [171] . Analogamente,
anche il Bruto minore, in cui i “sentimenti
verso il destino” espressi dal suo autore rimangono tali anche a distanza di anni,
rappresenta una cesura inequivocabile, sia dal punto di vista poetico che
contenutistico, tanto che «fu Leopardi stesso a riconoscere in questa sua
canzone il primo punto fermo della sua generale concezione del mondo»196.
E infatti, non a caso, la canzone si colloca esattamente alla fine dell’anno
1821 come momento culminante e conclusivo della meditazione praticata in quel
biennio[172].
La condizione di Leopardi, nonché il suo
particolare temperamento, sono termini imprescindibili per la piena
intelligenza delle sue opere. Nel caso dei Canti,
un’acuta osservazione è quella di Marcazzan, quando enuncia che
più che determinare quanto la
genesi del Bruto debba a un momento
patologico della sua psicologia turbata, preme determinare come lo spunto che
ad essa rimane legato dalla persistenza non solo di concetti, ma di immagini e
di parole approfonditesi col tempo, si sia svolto sull’assimilazione di un’importante
materia passata attraverso le sue riflessioni e le sue meditazioni, e in
assidua polemica con altri temi e altri motivi che non solo ebbero parte viva
nella travagliata vicenda del suo pensiero, ma appassionatamente occuparono
anche i tempi della poesia198.
Lo spiraglio sulla crisi del ’19-’21 è propedeutico, se non
altro, a scandire quel travagliato momento divisorio fra due epoche distinte
nella vita e nel pensiero di Leopardi, e ad introdurre quelle somiglianze di famiglia tra l’autore e
il suo alter ego cui si accennava a inizio paragrafo. In particolar modo nel
1821, spiega Citati, Leopardi passava repentinamente da un sentimento
all’altro:
ora combatteva la necessità, ora
chinava il capo sotto il giogo della fortuna. Per esprimere qualsiasi
condizione psicologica, aveva dunque bisogno di attraversare sia quella
condizione, sia quella contraria. Non poteva dire nulla senza conoscere il contrasto
e la contraddizione. Solo così, impersonando le due parti opposte, essendo ora
il ribelle ora la vittima, poté comporre la più grandiosa ribellione e condanna
del fato e degli dèi che egli abbia mai immaginato: il Bruto minore, steso nel dicembre 1821, in venti giorni[173].
2.2. L’AVO E IL NIPOTE.
SOMIGLIANZE DI FAMIGLIA TRA LEOPARDI
E BRUTO
Non
scompiglia forse i tuoi capelli
un poco
dello stesso vento che spirava a Babilonia che soffiava su altre vite e
carovane già passate Sulla via prima di noi?
Non c’è forse dentro la tua voce l’eco di un amore atroce l’ombra di una
connessione
tra i
cantanti micidiali della tua generazione e Nabucodonosor?[174]
La predilezione che il recanatese ha riservato alla figura
di Bruto non è stata certo casuale, e finora se n’è dato già qualche riscontro[175]. Prima ancora di
anatomizzare il personaggio del componimento – e dunque risolvere «la peculiare
autoidentificazione di Leopardi con lui»[176]
– bisogna rilevare come Leopardi vantasse di un’ingente cultura attorno a Marco
Giunio Bruto («Aveva letto la Vita di
Cesare e la Vita di Bruto di
Plutarco, l’Epitome da Tito Livio di
Floro, la Storia romana di Cassio
Dione, e forse il Giulio Cesare di
Shakespeare e il Bruto secondo dell’Alfieri»)[177], anche se rispetto alle
fonti il personaggio storico viene trasfigurato nel suicida protagonista di un
soliloquio notturno intitolato Bruto
minore. Presa e messa da parte l’ampissima conoscenza che Leopardi si era
conquistato durante anni di letture, emerge la necessità personale di dare un
nuovo volto
al suo eroe prediletto, e «in una specie di rogo
sacrificale, […] brucia i suoi modelli, dai quali trae soltanto qualche
particolare»[178]. Ciò non toglie, comunque,
che Leopardi abbia mantenuto per il suo paladino della virtù una giusta
«circostanziatezza storica» [179] , fondamentale
prerogativa per lo scenario tragico. Se Bruto aveva sempre rappresentato la personificazione
della virtù romana per eccellenza, l’aspetto che invece interessa a Giacomo è
l’interiorità trafitta dell’uomo Bruto vinto dalla calamità in una contingenza
imprevista.
Un primo segnale biografico che avvicina
il giovane poeta alla figura dell’eroe irato verso le divinità è dato proprio
dalla sopracitata crisi religiosa cominciata nel ’19, poiché se in un primo
momento aveva addirittura abbozzato gli Inni
cristiani, ora si trova alleato con il suo Bruto nella battaglia contro
l’entità sovrannaturale, ritenuta iniqua e improvvida: «con l’imprecazione di
Bruto contro gli dei crudeli […], il Leopardi ha sgombrato il terreno dalle
residue tenaci esitazioni: ha ben superata la fase del dubbio»[180]. Leopardi, insomma, non
nutre più nemmeno un briciolo di incertezza: cadute le illusioni che tengono
l’uomo unito nel suo legame con l’età delle “favole antiche”, si dissipa il velo
protettivo degli (ex) eterni concetti di virtù, gloria, amor di patria,
eccetera, su cui si basava la morale pre-moderna. E tuttavia Leopardi è così
affascinato dagli eroi antichi (epici o storici che fossero) da scegliere
quello che più sente affine alla sua situazione storica ed emotiva: il Bruto
suicida di Filippi, iconico protagonista di quello che Ugo Dotti definisce «uno
dei momenti più alti di tutta la poesia del recanatese»[181].
Anche se il Bruto minore si colloca al termine del periodo di crisi, non per
questo la risolve, poiché «la risoluzione insomma non nasce dalla ribellione di
un momento: è la conclusione di un processo di pensieri e di esperienze ed
esige il coraggio e la calma della forza interiore». Se da una parte Leopardi
ha in qualche modo sciolto la sua crisi dopo lunghi mesi di riabilitazione in
cui rinnova il suo pensiero arrivando a uno stato di maggior tranquillità
(nonostante, si è detto, nel sostrato della pazienza si annidi comunque
uno spirito impetuoso e capace di
forti passioni), dall’altra Bruto, violentemente “eroico”, estingue, in un
certo senso, il suo turbamento nell’ira feroce del suicidio. Ma si proceda con
ordine.
Negli anni trascorsi a Recanati emergono dalle
letture giovanili (tantissime, ma relativamente limitate ai volumi posseduti
nella biblioteca paterna) dei chiari modelli culturali ai quali Giacomo
vorrebbe avvicinarsi. Ne deriva dunque che anche la mira poetica verso un
personaggio eroico scaturisce da un interesse privato, dal momento che «il
valore storico, il nesso diretto tra esperienza individuale e assimilazione dei
modelli culturali»[182] instillano nella psiche di
Leopardi l’aspirazione alla gloria e l’esigenza, come si diceva sopra, di
compiere azioni grandi: scrive
infatti nello Zibaldone che «per li
fatti magnanimi è necessaria una persuasione che abbia la natura di passione, e
una passione che abbia l’aspetto di persuasione appresso quello che la prova»[183].
L’identificazione con
l’eroe antico, maledetto dalla fortuna
e pentito della virtù, è palese già dal 1820 in una delle tante confessioni a
Giordani:
Se noi fossimo antichi, tu avresti
spavento di me, vedendomi così perpetuamente
maledetto dalla fortuna, e mi crederesti il più scellerato uomo del mondo. Io mi getto e mi ravvolgo per
terra, domandando quanto mi resta da vivere. La mia disgrazia è assicurata per sempre: quanto mi resterà da
portarla? quanto? Poco manca ch’io non
bestemmi il cielo e la natura che par che m’abbiano messo in questa vita a
bella posta perch’io soffrissi. […] Dov’è l’uomo più disperato di me? che
piacere ho goduto in questo mondo? che speranza rimane?
che cosa è
la virtù? non capisco più niente. Addio[184].
Quella che dall’esterno poteva apparire come una
disposizione malinconica era in realtà una fervente attività mentale di
Leopardi, che specialmente in quegli anni aspirava alla
libertà, al risorgimento
delle menti assopite e al conseguimento della sua indipendenza fuori dal tetto
famigliare: una condizione, dunque, che avvicina parecchio il giovane agli eroi
letti nei tomi dei grandi autori. Del significato che assunse il tentativo di
fuga si è già parlato; e del suo acerbo eroismo Leopardi diede una prova nella
sopracitata lettera al padre, documento non solo di uno sfogo solipsistico, ma
soprattutto di una rivendicazione dei valori di libertà, autoaffermazione,
gloria. Ma, come accuratamente espone Ricciardi,
il modello eroico, il
raggiungimento della felicità, la tensione alla grandezza si fondono qui con
l’ansia, il turbamento ma anche con la decisione, ormai presa, di andare nel mondo,
di rompere, di negare quei vincoli, quelle convinzioni e quegli affetti che, in
ultima analisi, significano ricaduta nel quotidiano. Non c’è grandezza senza
sofferenza, non c’è possibilità di grandezza senza scontro coi limiti, le
ostilità; le ottusità del mondo. L’eroe per l’azione come modello è già
incrinato; lo sforzo terribile, la tensione individuale, personale prevalgono a
tal punto da considerare sensibilità, autoanalisi, sentimento quali valori, dei
fini, dei passaggi obbligati e necessari per essere grandi, per abbandonare
finalmente la mediocrità di un destino prefissato tra Monaldo e Recanati[185].
Di fronte all’implacabilità del rigore paterno, Leopardi non
può che arrendersi, e cade: è la caduta di Bruto, che ponendosi «profeticamente
nel decorso della storia» [186] simboleggia quell’arido
passaggio della sua coscienza disingannata e tuttavia consapevole. Ed è proprio
il sigillo a chiusura di questo periodo di «baldanzosità giovanile»[187] a determinare una sempre
più inquietante somiglianza tra Giacomo e l’eroe Bruto: entrambi, infatti, si
scoprono disillusi al termine della loro cieca battaglia in nome della virtù e
della rivalsa personale, inginocchiati davanti alla crudele potenza che il fato avverso ha posto davanti ai loro
occhi. Prosciugati delle loro forze, non possono che accettare l’amarezza di un
futuro che si prepara ad aprirsi sfavorevole alle aspettative:
Preme il
destino invitto e la ferrata
Necessità gl’infermi
Schiavi di
morte: e se a cessar non vale Gli
oltraggi lor, de’ necessarii danni Si
consola il plebeo[188].
Dunque, nel Bruto sconfitto a
Filippi, «il poeta vede sì un’immagine di sé, ma un’immagine inedita, che
oggettivamente si concreta su un piano esterno e drammatico» (la clausura a
palazzo Leopardi), insomma, continua Marcazzan, «un’immagine ch’egli può
contemplare, e nella quale può contemplarsi, con un senso di muto orrore, o d’impassibile
comprensione, o di umana pietà, come storia o come mito, ma che impiega soltanto
se stessa ed è coerente soltanto con se stessa»215.
Ma il dramma non è
solo personale, bensì anche storico, ed è «in quel giocare tra Bruto e
Leopardi, tra un pretesto autobiografico e un pretesto storico-filosofico, in quell’alterno
associarsi e dissociarsi dell’uno e dell’altro pretesto, per cui sentiamo che Bruto
non è soltanto Bruto, e Leopardi non è soltanto Leopardi»[189]
(rimane sottinteso che nonostante i loro profili storici percorrano due linee
rette convergenti a un punto non coincidono del tutto l’una con l’altra). Se
Bruto insomma rappresenta, per così dire, l’ultimo uomo della Repubblica, e
vede corrodersi davanti a sé il nobile piano di riportare in auge gli antichi
valori politici, Leopardi si ritrova al centro di un’ulteriore sconfitta
storica: il fallimento dei moti risorgimentali del ’20-’21. Assieme alla sua
generazione di intellettuali abbandona disegni sovversivi e progetti
riformistici, «nell’atmosfera rassegnata e diseroicizzata che segue alla
tensione estrema, alla protesta rivoluzionaria»[190],
poiché la situazione politica e storica appare indegna di un giusto futuro, che
abdica e si piega al dominio di vecchie menti corrotte.
A giustificare tale accostamento Ugo
Dotti chiarisce che «nel Bruto c’era
un eroe che, con la morte della virtù, predice la catastrofe di Roma, del mondo
e, leopardianamente, della Storia», ovvero vi si trova «artisticamente
tradotta, l’esposizione di un blocco di idee convergenti nella denuncia
dell’ipocrisia del mondo contemporaneo conseguita al crollo degli antichi
valori»[191].
seguenti e il L. giungerà a raccomandare come
filosofiche la pazienza e la rassegnazione […] ma sarà sempre quella per lui
una rinuncia, mai del tutto accettata e sentita come una sorta di abdicazione».
215 Entrambe le citazioni sono prese da M. Marcazzan, op. cit., p. 197.
Fermo restando, dunque, che Leopardi stava
scrivendo il Bruto minore nell’«esistere pavido ed
egoistico dell’epoca della Restaurazione»[192]
– e nel mezzo di un tumulto che risultò poi fallimentare – appare quanto più chiaro
che l’esaltazione dell’eroismo e della virtù si lega a un sentimento collettivo
di amor di patria, allo spirito nazionale che mosse le rivolte di quel periodo.
Ora, dopo l’insuccesso di quei moti, Leopardi matura il senso di una delusione
storica che fungerà da miccia per quello che viene comunemente definito
“pessimismo storico” (quale emerge anche dal Bruto minore). E, per di più, «questa delusione non spiega solo il
pessimismo storico di Leopardi, ma il suo successivo e rapido svolgersi in
pessimismo totale, in quello che è stato chiamato “pessimismo cosmico”», e a
prescindere dalla mera distinzione terminologica è fondamentale sottolineare
che entrambi i “pessimismi” nascono «da un unico germe, appartengono a un unico
processo di pensiero»[193].
Nonostante possa
apparire paradossale, l’ampio intervallo cronologico che separa Leopardi e il
suo eroe genera invece una sorprendente vicinanza, proprio perché tra i due
aleggia il medesimo spirito di cupa rassegnazione di chi vede inesorabilmente
spegnersi ogni lucida fiamma di speranza, e il Bruto minore può essere considerato come «la punta estrema del
tentativo leopardiano di avvicinarsi alla propria epoca» [194]
. Il Bruto di Leopardi è come un classico, perché riesce a valicare ogni
ostacolo temporale pompeggiandosi «indomito», e superando orgogliosamente «una
distanza storica grande per avvicinarsi
a noi (e alla filosofia di Leopardi e, forse,
alla sua esperienza esistenziale)»[195].
Se è vero che in
questo momento Leopardi accusa l’eccesso di ragione storica «artificiosa e
depauperante»[196] quale causa del crollo
delle illusioni e della capacità immaginativa, ne deriva che l’unico sentimento
che l’uomo può provare è l’indifferenza:
infatti, secondo lo stesso Leopardi, «l’uomo disingannato non ha più cuore»[197], dal
momento che «l’uomo, ch’è divenuto per forza indifferente
verso se stesso, è indifferente verso tutto, e ridotto all’inazione fisica e
morale»[198]. Ma Bruto, uomo sì antico
e tuttavia non ancora moderno, può al contempo esser capace e d’indifferenza e
di azione scellerata: il suo suicidio, per quanto scaturisca da un subbuglio
interiore di enorme rabbia, è, in un certo senso, anche indifferente (perché «non importava un fico la patria, la
gloria, il vantaggio degli altri, dei posteri»!)[199],
e nella sua indifferenza è pure follia. Sia esaustivo questo passo dello Zibaldone datato 29 novembre 1820:
Senza illusioni, di cui l’uomo sia
persuaso, non c’è vita né azione, giacché l’uomo non opera senza persuasione, e
se la persuasione non è illusoria, ma viene dalla ragione, l’uomo non opera,
perché la ragione non lo persuade ad operare, anzi ne lo distoglie e lo getta
nell’indifferenza[200].
A pochi mesi prima risale un altro passo zibaldoniano
(sempre riguardo al dissidio passioni-ragione) in cui Leopardi spiega che le
grandi azioni sono «una specie di pazzia»:
La speranza non abbandona mai
l’uomo in quanto alla natura. Bensì in quanto alla ragione. Perciò parlano
stoltamente quelli che dicono […] che il suicidio non possa seguire senza una
specie di pazzia, essendo impossibile senza questa il rinunziare alla speranza
ec. Anzi tolti i sentimenti religiosi, è una felice e naturale, ma vera e
continua pazzia, il seguitar sempre a sperare, e a vivere, ed è contrarissimo
alla ragione, la quale ci mostra troppo chiaro che non v’è speranza nessuna per
noi[201].
Eppure – commenta Luporini – «quella
“pazzia” ha un’origine umanistica ed è in sostanza identica alla virtù […]. Il
dramma romantico sorgerà all’interno di questa posizione, come fallire della
virtù, e sarà il dramma di Bruto minore»[202],
in cui a cadere è la virtus per
antonomasia: quella romana.
Ma la virtù di Bruto è ormai «stolta», non
serve più a niente: lui è l’ultimo uomo della Repubblica, e per lui «l’appello
eroico consiste nell’invito a combattere il “corrotto costume”, il quale,
sappiamo, è l’egoismo individuale che mina la società»230. Quel
corrotto costume è, come chiarisce Luporini, proprio la circostanza storica, la
quale sia
per Leopardi che per Bruto contribuisce ad alimentare il
senso di aspra delusione che accompagna le ultime forze dell’eroe[203]. Entrambi vivono in prima
persona la fine di un’epoca e l’inizio di un’altra: sul piano familiare,
estetico e religioso Leopardi sperimenta una crisi delle illusioni analoga a
quella vissuta sul piano storico e intimistico da un Bruto unico testimone
della crisi della Repubblica romana, «mutazione per eccellenza, un displuvio ideale
fra due epoche e due civiltà, tra gli antichi e i moderni, tra paganesimo e
cristianesimo»[204]. Proprio in risposta a
questa affinità biografica, Leopardi sceglie di mettere da parte il
tradizionale Bruto uccisore di Cesare rischiarando il lato nascosto di
quell’eroe che preferiva uccidersi di propria mano piuttosto che sapersi
oppresso da un tiranno (anche perché «il Bruto tirannicida diceva ancora
qualcosa ai congiurati delle sette di tipo carbonaro, per esempio ai
rivoluzionari borghesi-aristocratici del 1820-21 […] che il recluso di Recanati
giudicava a distanza», dal momento che in quegli anni «Leopardi è tutto pervaso
di un evidente radicalismo politico, che gli fa giudicare insufficiente
l’ideale monarchico-costituzionalistico») [205]
. Così facendo, Leopardi metteva in luce non l’aspetto storico, ma quello
sensibile ed esistenziale di una delle figure più controverse ed affascinanti
dell’intera romanità.
Accogliendo la linea interpretativa
proposta da Lorenzo Braccesi, si può dire che Bruto è il principale spettatore
di quella che viene definita inclinatio
imperii, ovvero il declino dell’impero romano[206]:
Roma non è più la regina del mondo,
né il padre romano tiene più le redini dell’imperio, né il pontefice ascende
più al Campidoglio colla vestale, e questo da lunghissimo tempo; e tuttavia si
leggono ancora i versi di Virgilio, e Niso ed Eurialo non son caduti dalla
memoria degli uomini, e dura la
fama di Orazio. La fortuna giuoca nel mondo, e certo questi poeti non
s’immaginavano che il tempo dovesse penar più a distruggere i versi loro che
l’immenso e saldissimo imperio romano, opera di tanti secoli. Ma quelle carte
sono sopravvissute a quella gran mole che per mero giuoco della fortuna, la
quale ha distrutte infinite altre opere degli antichi ingegni, e conservate
queste oltre allo spazio segnato dalla stessa speranza, dallo stesso amor
proprio, dalla stessa forza immaginativa de’ loro autori[207].
Certo in questo pensiero dello Zibaldone del 1820 (e in quegli anni Leopardi cambiava spesso
opinione!) i classici latini sono esaltati in quanto probabile unica
testimonianza di lontani tempi gloriosi. Mantenendo sempre un fitto legame con
gli antichi, Leopardi si trasferisce spiritualmente indietro nel tempo per
documentare insieme a Bruto la terribile caduta di un’epoca storico-politica
che non risorgerà mai più: e se a cadere è anche il suo portavoce, si può
dedurre che l’«inclinato capite spira
tanto la Roma repubblicana quanto il suo ultimo eroe: Bruto. Quest’ultimo è un
personaggio unico […], uno spirito storico, ma non conoscendo il conforto di
alcuna fede, tradito dalla virtù, ostenta l’abito di un disilluso cinismo»[208].
Naturalmente, come si è già più volte
enunciato, la fine di un certo periodo storico non si esaurisce nel mero
passaggio di testimone da un secolo all’altro, anzi assume significato non
tanto di per sé quanto nel momento in cui scandisce insieme con essa un momento
di svolta ben più drastico, che sul piano ideale coincide con l’ineluttabile
crollo della virtù e della gloria, rappresentanti degli antichi valori.
Di fatto, col Bruto minore siamo di fronte a una
frattura assoluta, poiché per Leopardi «la romanità muore a Filippi, con il
suicidio disperato di Bruto, con il suo riconoscimento della mutevolezza e
dell’inutilità della virtù» e dunque «totale è la dissolvenza della storia
imperiale di Roma e impossibile è qualsivoglia sua continuità o rigenerazione
in età più recenti»[209].
Bruto è l’unico
astante di uno spettacolo osceno, e anzi l’osceno è incarnato proprio da lui
appunto perché è da solo e «già votato al suicidio, […] consapevole che la
virtù, da lui religiosamente sempre praticata, l’ha tradito prostituendosi alla
fortuna»[210].
Nella circostanza vissuta da Bruto, Leopardi rivede sé
stesso: immerso nell’atmosfera dei moti risorgimentali, si riappropria della
storia di Roma come «sprone per riacquistare una virtus latina che deve risorgere in funzione del riscatto
nazionale. Non più, dunque, nuovi Cesari, o Napoleoni; ma nuovi Bruti la cui
virtù sia però posta al riparo dal tradimento della fortuna»[211]. Se la virtus romana – ora fatua illusione – è
morta a Filippi dopo aver tradito il suo ultimo prode sostenitore, la stessa virtù quale facoltà immaginativa è
spirata con Leopardi all’«apparir del vero» in quel fatale 1819[212].
Come a Bruto non
importa più il solo futuro di Roma, ma l’ingiustizia subita dal destino che gli
si è riversato addosso noncurante del suo disegno politico e dei suoi
sentimenti, allo stesso modo a Leopardi interessa «non più Recanati,
l’incomprensione paterna o la dolorosa vicenda dei crucci giovanili, ma la vita
dell’uomo, la storia, il dramma della civiltà, la natura, il fato indegno e la
fraudolenta legge degli dei»[213]. Quella che in un primo
momento era (sia per Giacomo che per Bruto) una delusione conseguente a un’intensa
avventura privata, si trasforma in ribellione e prende la forma dilatata di un titanismo
che guarda con occhio severo il disordine cosmico. Il legame atavico che unisce
il nipote recanatese al suo progenitore romano è, in un senso quasi astratto,
«quell’ergersi di Bruto, anima in questo solo veramente gemella al Leopardi,
tra l’età della poesia e l’età della prosa, tra la stagione delle illusioni e
la stagione dell’arido vero»[214].
Ma laddove la protesta di Bruto si fa
violenta, e si attorciglia su sé stessa riversandosi nel più infausto e
sanguinario maltrattamento corporale, ciò che Leopardi
sventura in qualunque caso, ma molto più la sventura
congiunta colla virtù, produce un interesse vivissimo, durevole e velocissimo».
Datato 5-11 Agosto 1823.
compie, rispetto al cesaricida, è un passo in più verso la
filosofia, che Bruto non avrebbe mai potuto nemmeno sfiorare a causa della sua
eccessiva passione (nonostante che «secondo la tradizione storica Caio Giunio
Bruto è […] un intellettuale, nutrito di filosofia, e così l’aveva presentato
anche Plutarco: con i suoi dubbi morali, incertezze e indecisioni», e di fatto
«che egli ragioni, esplichi, dia fondamento universalistico al proprio gesto
finale, rientra nella sua natura ‘psicologica’»)[215].
Ad ogni modo, al termine dell’agognato
periodo di crisi la coscienza di Leopardi si risveglia, e poco a poco comprende
che solo la filosofia – e dunque la prosa – può dare forma a quell’arido vero che ora lui si sentiva
chiamato a sviscerare da una mente per troppo tempo cullata dalle favole
antiche:
Quella disperazione placida,
tranquilla, rassegnata, colla quale l’uomo, perduta ogni speranza di felicità,
o in genere per la condizione umana, o in particolare per le circostanze sue;
tuttavolta si piega, e si adatta a vivere e a tollerare il tempo e gli anni;
cedendo alla necessità riconosciuta; questa disperazione […] non è quasi
propria se non della ragione e della filosofia, e quindi specialmente e
singolarmente propria de’ tempi moderni[216].
Rifiutando la poesia così come Bruto aveva spento in sé lo
spettro della virtù, Leopardi si addentrava nella nuova stagione della prosa,
ovverosia: nel moderno. E pur di liberarsi del fantasma di Bruto suicida, anima
dannata che da anni gli gravava pesante sulle spalle, fa compiere a lui l’orrendo
atto (quel meditato suicidio liberatorio!) trasferendo nella poesia i suoi
impulsi più reconditi. In questo modo, «nel Bruto
il personaggio eccede il poeta»[217], cioè si fa espressione di
una malsana tentazione interiore che Leopardi non avrebbe mai avuto il coraggio
di assecondare, come si evince da questi due passi dello Zibaldone:
Io mi trovava orribilmente annoiato
dalla vita e in grandissimo desiderio di uccidermi, e sentii non so quale
indizio di male che mi fece temere in quel momento in cui io desiderava di
morire: e immediatamente mi posi in apprensione e ansietà per quel timore[218].
E, poco più avanti:
Io era oltremodo annoiato dalla
vita, sull’orlo della vasca del mio giardino, e guardando l’acqua e
curvandomici sopra con un certo fremito, pensava: s’io mi gittassi qui dentro,
immediatamente venuto a galla, mi arrampicherei sopra quest’orlo, e sforzatomi
di uscir fuori dopo aver temuto assai di perdere questa vita, ritornato illeso,
proverei qualche istante di contento per essermi salvato, e di affetto a questa
vita che ora tanto disprezzo, e che allora mi parrebbe più pregevole[219].
Giacomo si è dimostrato, se così si può dire, un poco più
saggio del suo avo, poiché fu in grado di gestire con fermezza una pressoché
naturale coazione a ripetere (quasi inevitabile nel subbuglio di sentimenti in
cui era immerso) che, a parità di condizioni con Bruto, gli si sarebbe
presentata con estrema facilità. Tuttavia, come sostiene Marcazzan, nel
comporre il Bruto minore «Leopardi
scivola nel falso poetico», proprio «per non essersi rassegnato ad apparire più
umano di Bruto, per aver trattato come cosa salda un’illusione di forza e una
larva di verità, per aver sacrificato alla solitudine superba la coscienza
della propria fragilità e la suggestione del mistero»[220].
Eppure, nonostante si
tratti di poesia, ciò che il recanatese fa dire al suo eroe rappresenta per
lui, in quel momento della sua vita,
il vero[221]: «perché quel Bruto è un personaggio
[…] che vive anche di vita propria, e va oltre ciò che da Leopardi e di
Leopardi è chiamato ad attestare». Anzi, non solo l’ultimo uomo di Filippi è
autentica voce di verità, ma addirittura risulta, «per così dire,
ultraleopardiano»[222].
Ciò che Leopardi ha
voluto fissare, col Bruto minore, è
stato non solo quello che lui considerava (all’epoca) il suo pensiero
definitivo in quanto alla necessità,
al fato, alla natura; ma anche la sua personale esaltazione storico-filosofica
di due grandi eventi che hanno divelto
un ordine solo apparentemente intoccabile: il tracollo della Repubblica romana
e il fallimento dei moti risorgimentali del ’20-’21.
II – I
SENTIMENTI DI BRUTO
Chi di noi
il governato e chi il governatore
Son fatti
che attengono alla storia
Chi fosse
la provincia e chi l'impero
Non è il
punto
Il punto
era l'incendio[223]
Una volta tracciate le principali somiglianze di famiglia tra Bruto e il suo autore, l’intento di
questa analisi è ora di cogliere le tematiche salienti del Bruto minore, che possono essere delineate seguendo i più intensi
sentimenti del suo iconico protagonista. Sentimenti che, in accordo con la
sempre mutevole filosofia di Leopardi, scaturiscono da un eccesso di passioni
non controllate quando giungono al culmine della loro intensità, mostrando il
loro lato negativo. Bruto è infatti travolto da una moltitudine di «disperati
affetti»[224] – quali il disinganno, la
delusione, l’ira contro gli dèi e il destino, l’odio verso sé stesso – che
inevitabilmente sfociano nell’oscura faccia dell’amor proprio, ovvero:
l’egoismo. E la manifestazione (la più terribile, la più spietata) del suo
fervido egoismo è il suicidio, unico atto di protesta che la sua mente turbata
dalla disfatta storico-personale potesse contemplare, lì, nell’arido campo
della battaglia di Filippi, deserto abitato solamente da selve ignude e cognati petti
distrattamente calpestati dall’indenne vincitore.
Così come Leopardi
nel periodo critico del ’19-’21 aveva riconsiderato la sua educazione cristiana
pervenendo a una definitiva e fredda condanna della religione (dal momento che,
prima ancora di incolpare la natura come causa delle sciagure umane, «riferisce
lo stato di corruzione e infelicità dell’uomo, non a una condizione naturale originaria,
ma al peccato, inteso come forma di ubris
razionale»)[225], anche Bruto, nella sua
apostasia, bestemmia l’Olimpo e rinnega la sua fiducia negli dèi (ora colpevoli
della sua acre disfatta) affermando la sua pervicace voluntas nell’atto di darsi la morte e divenendo così non un eroe –
non un alfieriano eroe della libertà [226]
– ma una larva, un uomo
depotenziato della virtù e richiuso nella sua meschinità. Di
fatto, solo chi è rassegnato e rinuncia alla sua volontà di vivere desidera veramente morire: cedendo alla «ferrata necessità» – che è, in
fondo, la voluntas, ossia la volontà
di vivere schopenhaueriana – il suicida rinuncia alla libertà – la noluntas – e congiuntamente anche alla
sua dignità, poiché «chi cede alla guerra, cede all’uomo»[227].
Ma il caso di Bruto è complesso, perché dalle sue possibilità non può essere esclusa «quella inversione del rapporto normale tra volontà e conoscenza,
determinata in modo inconscio dalla stessa volontà», nel momento in cui «essa
si ridesta alla subitanea rivelazione del vero
“carattere intelligibile” dell’individuo, santo od eroe»[228].
Dall’altra parte, l’equilibrio
dell’uomo-Bruto fermo nella sua
vendetta contro il fato avverso nasce da una forza motrice che lo porta a una
piena realizzazione di sé stesso (o almeno: così è nella sua idea di prode valoroso), proprio perché prima di
morire si isola da quella «prole infelice» consapevole che non ci sarà
soluzione favorevole al suo disegno politico, e che la battaglia eterna contro
l’amara sorte andrà persa. E uccidendosi, si erge solipsisticamente a vincitore
indiscusso della lotta contro il fato. Solo così, allora, può proclamarsi
vincitore: se non nella battaglia contro i cesariani, almeno in quella contro
il destino, poiché togliendosi la vita crede (ingenuamente) di ingannarlo a sua
volta. Ma si proceda per gradi.
1. LA
SVENTURA ATAVICA DEGLI EROI
1.1. BRUTO NON È UN EROE «AMABILE»
Prima ancora di eviscerare Bruto dei suoi sentimenti per
studiarli in rapporto alla filosofia leopardiana esposta nello Zibaldone, si ritiene utile illustrare
per quali motivi (oltre a un infervorato egoismo) Bruto non possa essere
considerato un eroe in senso canonico, ma piuttosto il simbolo di una colossale
sconfitta – e certo un “eroe” a suo modo –, oltre che punto di congiunzione tra
due età storiche e due distinti momenti estetici nella vita e nella poetica di
Leopardi.
Si è già accennato,
nel precedente capitolo, che la vicinanza del recanatese agli eroi classici si
manifesta sin dagli anni dell’infanzia[229],
e non a caso il fascino subito dall’eroe vinto trova la sua prima
manifestazione poetica nel componimento puerile La morte di Ettore (1810)[230],
in cui Leopardi illustra la disfatta del combattente troiano «con parole che
indicano la partecipazione dell’universo all’orrore della fine tragica dell’eroe»[231]:
Fermati, duce, non ti basta? ah mira Come a te s’avvicina
Achille il forte, Che gran furore, e insiem vendetta spira, E inferocito anela
alla tua morte. Ettor non m’ode, e alla battaglia aspira; Ah che quivi
l’attende iniqua sorte! Ei vibra il ferro: quegli si raggira, E schiva il colpo
colle braccia accorte. Drizza poi l’asta sfolgorante luce; Fermano il corso per
mestizia i fiumi; Già vola il crudo acciar… fermati, o truce.
Torcon lo sguardo innorridito i
Numi; Il colpo arrivò già; cadde il gran duce,
Cadde l’Eroe di Troja, e chiuse i
lumi[232].
In primis, è da
notare che l’espressione la morte di
Ettore non compare solo in qualità di titolo del sonetto puerile, ma
ritorna, nell’estate-autunno 1823, in una lunga digressione dello Zibaldone (3095,2-3166) i cui singoli
testi compongono un micro-trattato sull’epica, appositamente rievocata poiché
«una delle più grandi forze illusorie nasce dalla poesia e per Leopardi
l’essenza della poesia risiede in Omero»11. In queste pagine, il
recanatese
espone in maniera minuziosa e approfondita le sue
considerazioni riguardo agli eroi epico-classici e le loro qualità (anche
rispetto ai moderni):
Alle quali cose mirando il nostro
Cesarotti, e giudicando che Ettore fosse il principal soggetto dell’interesse
nella Iliade, e la sua sventura per se medesima il principale scopo ed assunto
del poema, prosuntuosamente ne volle cangiare il titolo e intitolarlo la morte d’Ettore, stimando che Omero
non avesse bene inteso se stesso e la sua propria intenzione quando ne’ primi
versi della Iliade annunziò espressamente un altro assunto[233].
Nel suo micro-trattato sulla poesia omerica, Leopardi non si
limita alla mera disamina delle regole del poema epico, ma studia le passioni
umane (dalla compassione, alla pietà, all’egoismo) attingendo non solo alle
gesta degli eroi ma anche alla sua inquietudine interiore13:
Ora dunque i poemi il cui soggetto
non è che qualche felicità e gloria nazionale, poco possono oggidì interessare,
o certo assai meno che a’ tempi di Omero. Ma
la sventura, e massime degl’immeritevoli, è sempre dell’interesse privato di ciascheduno uomo. Niuno è che
non si stimi infelice e conseguentem. nol sia, e niuno è parimente che non si
reputi immeritevole della infelicità ch’ei sostiene. Queste disposizioni benchè comuni a tutti i tempi, sono massimamente
sensibili oggidì, poiché per le circostanze politiche la vita non ha più
come vivamente occuparsi e distrarsi, e d’altronde il lume della filosofia
dissipa ben tosto, o soffoca nel nascere, o impedisce del tutto qualunque
illusione di felicità. Quindi eziandio
indipendentemente dalla compassione, egli era tanto più conveniente oggidì che
a’ tempi d’Omero il far molto giuocare ne’ poemi epici le sventure degli uomini,
quanto che oggi il sentimento della infelicità nelle nazioni civili è più vivo
che fosse mai nel genere umano, ed è il sentimento e il pensiero per così dire
dominante, da cui niuno oramai trova più come distrarsi. E la infelicità degli
uomini è, per così dire, il carattere, il segno di questo secolo[234].
Queste passioni si riflettono, in gran misura, nei due eroi
omerici per eccellenza – ossia Ettore e Achille – che nella loro singolarità
vanno ad unirsi nella figura di un «doppio eroe: da un lato l’eroe virtuoso e
fortunato (e questo non poteva che essere nazionale e dunque greco: Achille);
dall’altro» – spiega D’Intino – «un eroe altrettanto e forse ancor più
virtuoso, che fosse però infelice e sfortunato (e questo non poteva che essere
il troiano Ettore)»[235]. Attraverso questo filo
conduttore del trattatello, Leopardi vuole giustificare quell’interesse verso
l’Iliade che perdura fino all’età
moderna, poiché «in Omero è palese l’attenzione a sentimenti, come appunto la
compassione, che caratterizzano le forme del sentire a lui contemporaneo»[236]:
L’altro interesse, cioè quello
della compassione, non poteva Omero introdurlo nel suo poema in modo ch’ei si
riferisse ad Achille o ai greci; […] Solamente poteva fare che la compassione
si riferisse pur talvolta ai greci o a qualcuno di loro, come a soggetti
secondarii e accidentalmente (qual è p. e. Patroclo), non come a soggetto
primario della compassione, al qual soggetto tendessero tutte le fila del
poema. Questo soggetto ei lo prese nella parte contraria alla greca, in quella
parte alla quale doveva appartener la sventura, se alla greca doveva appartener
la felicità. Egli scelse o finse tra’ nemici un Eroe per così dir, di sventura,
il quale fosse opposto all’Eroe della fortuna, e l’interesse del quale dovesse
perpetuamente bilanciare e contrastare e accompagnare l’interesse dell’altro
nell’animo de’ lettori, questo Eroe sfortunato ei lo fece inferiore di forze ad
Achille, ed anche ad Aiace e a Diomede, perché la superiorità delle forze
doveva esser l’attributo e la lode principale della parte greca (lode ch’era ai
tempi eroici la più grande); ma oltre che di forze eziandio lo fe’ superiore a
tutti gli altri greci e troiani, di coraggio e magnanimità: lo fece pari allo
stesso Achille, e nel rimanente ornandolo di qualità diverse da quelle di
costui, lo venne però a far tale che tanto pesasse egli quanto questi[237].
Dunque Omero fu in grado di suscitare un forte trasporto
emotivo anche per i moderni: se è vero che la poesia «ha sempre a che fare in
Leopardi con il movimento e con l’energia»[238],
ne deriva che l’impatto poetico che ha dato all’Iliade congiunge passioni derivanti da due caratteri opposti
(quello appassionato di Achille e quello più razionale di Ettore), e nell’unire
l’interesse per la virtù fortunata e felice dell’uno alla virtù sventurata
dell’altro, raggiunge in profondità
l’animo del lettore19. E anzi, precisa D’Intino, «giacché
l’interesse del lettore si stanca ben presto se l’eroe virtuoso è sempre e solo
fortunato, l’affiancargli un eroe virtuoso ma sconfitto movimenta l’azione e
l’animo del lettore»[239].
Dal momento che il coinvolgimento del
recanatese per il tema dell’eroe (e della sua morte, e delle sue passioni),
perdurò negli anni, ecco che già il sonetto puerile La morte di Ettore – o meglio, il suo protagonista – rimanda a una
distinzione ricordata da Umberto Bosco in merito alla coesistenza di figure
antitetiche nella poesia leopardiana matura, alla cui base c’è «il binomio
ammirabile-amabile, cioè Achille-Ettore, DanteTasso, che è poi il binomio
Bruto-Silvia (o Leopardi giovane stesso)», e così il critico spiega che «non si
tratta d’un passaggio dall’uno all’altro termine di esso, ma di una perenne
compresenza dei due termini, anche se in questa o in quella poesia prevalga
l’uno o l’altro di essi»[240]. Secondo Bosco, Leopardi
insiste a lungo su questa contrapposizione terminologico-tematica e su quanto
la sventura contribuisca a rendere l’eroe degno di compassione. A tal
proposito, Leopardi scrive così in un noto passo zibaldoniano:
Insomma com’egli [Omero] aveva
fatto in Achille un uomo sommamente
ammirabile, così fece e volle fare in Ettore un eroe sommamente amabile. E come la vittoria riportata da Achille
sopra l’invincibile Ettore, porta al colmo l’ammirazione per colui, colla
sventura di Ettore mette il colmo alla sua amabilità e volge l’amore in
compassione, la quale cadendo sopra un oggetto amabile è il colmo per così dire
del sentimento amoroso. Molte sventure e di greci e di troiani si narrano o
fingono nella Iliade, ma quella di Ettore è lo scopo del poema, ad essa tendono
tutte le fila del medesimo niente meno e del paro
19 Cfr. F.
Cacciapuoti, op. cit., p. 118: «Nello
stesso tempo, questo effetto poetico può coincidere con un effetto morale, nel
momento in cui il lettore trasporta su se stesso l’esigenza di cambiare le
sorti dei malvagi o dei virtuosi attraverso il proprio atteggiamento: di odio
verso i primi e di affetto, amore, compassione verso i secondi […]. Il lettore
attraverso la poesia – che muove le passioni umane, penetra nelle emozioni,
provoca il turbamento che fa presagire nuove azioni e scelte – può raggiungere
la virtù».
che alla vittoria di Achille, e
sempre unitamente: in essa il poema si chiude. […] Ma come nell’intenzione di
Omero l’unico interesse non dovette essere quello di Achille, né l’unico soggetto
e scopo la sua vittoria per se medesima, altrimenti egli non gli avrebbe posto incontro
un tal Eroe qual fa Ettore; così neanche l’interesse d’Ettore dovette esser
l’unico, né la sua sventura per se medesima l’unico soggetto e scopo del poema.
Doppio dovette essere secondo l’intenzione di Omero, e doppio infatti riuscì a’
lettori o uditori greci l’interesse, lo scopo, e l’Eroe del poema[241].
L’Ettore di Leopardi si prefigura proprio come «amabile», poiché
vinto dalla sventura e caduto per mano altrui, risultando tanto più
compassionevole di quanto non lo siano altri eroi epici (come Achille) o
storico-classici (come Bruto), e configurandosi con ciò l’esatto opposto del
suicida romano:
Notate come ci muova a compassione
e c’intenerisca il veder qualunque persona che nell’atto di provare un
dispiacere, una sventura, un dolore ec. dà segno della propria debolezza, e
impotenza di liberarsene. Come anche il veder maltrattare anche leggermente una
persona che non possa resistere[242].
Nonostante l’intero poema narri di
imprese eroiche virtuose, «Leopardi nota che la virtù e la fortuna producono
nel lettore o nello spettatore semplicemente l’ammirazione: è la sventura unita
alla virtù che solo può far nascere in chi assiste o legge un “interesse vivissimo”,
durevole e dolcissimo”»24 proprio perché l’uomo si nutre e si
compiace del sentimento della compassione. Ecco perché Ettore è prediletto da
Leopardi come eroe
amabile, «miserando / esemplo di sciagura»25 al
pari di un Tasso per cui versò lacrime di compianto[243].
Tralasciando ora qualsivoglia commento
sullo stile del sonetto (inevitabilmente ancora acerbo e influenzato dagli
stilemi tragici alfieriani), si preferisce incentrare il focus sulla repentina
sconfitta di Ettore, eroe positivo per eccellenza nonché esponente degli ideali
di giustizia, onore e amor di patria che invece nel successivo Bruto minore stentano a riconoscersi,
proprio perché impugnando «l’amaro ferro» il suicida di Filippi non si
sacrifica per la patria, ma si infligge una silenziosa e titanica morte per
suggellare una rivalsa personale[244].
In questo modo, il cesaricida non si pone affatto come eroe amabile, (alla
stregua di Ettore), tutt’altro: Bruto sorride
maligno alle ombre che lo accolgono, poiché già maliziosamente deciso a
fare un torto al «destino invitto». Sa benissimo a cosa va incontro: il suo è
un atto di vendetta, e un simile “eroico” atto non rende Bruto un martire degno
di pietà o compassione, eppure lo rende ammirabile,
quasi coraggioso nella sua perfidia. E pertanto, «consolare non si può chi sia
ben conscio del suo destino, che quindi non ha bisogno d’esser consolato»[245]: Bruto sceglie di
isolarsi, non pretende di essere compianto ma si persuade di risolvere la sua
disfatta in un unico, cruento gesto volutamente autoriferito:
Guerra mortale, eterna, o fato indegno, teco il prode
guerreggia, di cedere inesperto[246]; e la
tiranna tua destra, allor che vincitrice il grava,
25 G.
Leopardi, Ad Angelo Mai, vv. 136-141:
«Torna torna fra noi, sorgi dal muto / E sconsolato avello, / Se d’angoscia sei
vago, o miserando / Esemplo di sciagura. Assai da quello / Che ti parve sì
mesto e sì nefando, / È peggiorato il viver nostro», in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di M.
Fubini, cit., p. 59.
indomito scrollando si pompeggia,
quando
nell’alto lato l’amaro ferro intride, e maligno alle nere ombre sorride[247].
Nella perenne battaglia contro il
destino, Leopardi ritrae Bruto come “incapace di cedere”, di dimostrarsi cioè
domato dalla sorte e sottoposto alle sue leggi: e attingendo alla sua memoria
classica, ritrova in Orazio l’espressione precisa per modellare l’inettitudine
e l’inesperienza del suo Bruto: «Pelidae… cedere nescii» (Carm., I, 6, 6)[248].
E Bruto, infatti, nel suo pompeggiarsi si comporta «come un
vincitore, non come un vinto»32, e cioè come un eroe – o meglio:
rispecchiando la sua idea di eroe,
perché dentro di sé, negli angoli scoperti della sua coscienza, lui ha già
vinto la «guerra mortale, eterna» contro il fato, e questa vittoria quasi lo
porta a soverchiare l’autorità degli avversi Numi, che, sconfitti e
depotenziati, potrebbero idealmente gridargli: «O Bruto!... il Dio tu sei di
Roma»[249], fino a incoronarlo
signore indiscusso della Città Eterna.
L’atteggiamento di Bruto si riflette
anche sul piano stilistico, dal momento che «il soliloquio del protagonista si
sposta contro il destino della natura umana, con un rilevante passaggio dal
quadro storico all’orizzonte filosofico»[250]:
la sua protesta non è contro un tiranno, né gli importa di scoprire perché lui
e Cassio siano stati battuti. Il suo rivale non è più Antonio, non Ottaviano:
l’acerrimo nemico contro cui ha concluso baldanzoso la sua rivalsa è solo e
unicamente quell’empio destino che pare inaccettabile, il «tragico inganno
della vita»[251]. Ma per un prode come lui,
che dapprima armatosi di nobile vendetta finisce col far pompa di sé stesso,
posando trionfante, l’abito dell’eroe non si addice. Per Bruto, la medaglia al
valore non ci sarà: la gloria postuma non è contemplata.
Nonostante le differenti accezioni che
gli eroi protagonisti del sonetto puerile e del canto presentano, si può
affermare che il motivo unificatore che attraversa gli scritti
puerili fino a quelli del Leopardi maturo è il motivo della
morte dell’eroe, formatosi all’interno di quella che Bonifazi definisce «camera
oscura» in quanto «luogo che racchiude il corpo del soggetto poetico»36,
ovvero una sorta di immaginario fanciullesco e primordiale che ha raccolto le
impressioni più significative per il Leopardi, le quali hanno contribuito al
formarsi della sua coscienza poetica. Dal mirino caleidoscopico della sua
«camera oscura», Leopardi osserva e registra ogni episodio degno di sentimento,
e scegliendo dalla sua memoria letteraria i modelli poetici che più vi si
addicono, «piange ogni morte»[252]: che sia quella di Ettore,
e poi di Bruto, di Saffo. Di Silvia. Ogni momento iconico si registra nella sua
mente e si collega all’immaginario poetico coltivato dopo anni di letture.
Quello dell’eroe è un tema classico e
insieme risorgimentale dal momento che, come spiega Stelio Cro, «per Leopardi
il valore risorgimentale corrisponde al termine “classico”»; e allora il tema
dell’eroe, in origine «prevalentemente letterario e filologico, si inserisce in
questa “conversione” acquistando significato autobiografico e risorgimentale»[253]. Dunque per il poeta
giovane l’eroe è emblema di eredità nazionale, di rigenerazione morale e
intellettuale, adatto a risvegliare la coscienza civile nell’Italia del Risorgimento.
Ma dopo il ’19 le idee di Leopardi cambiano: ed è evidente, già da questa prima
premessa, che Bruto non può in alcun
modo incarnare quell’ideale di eroe che avrebbe risvegliato le menti assopite,
e forse anche un poco scosso quella «povera patria»[254]
che Leopardi avrebbe desiderato veder rifiorire. Se in un primo momento,
36 N.
Bonifazi, op. cit., p. 107: «Il
movimento della poesia leopardiana è nello spostarsi immaginario tra il dentro
e il fuori e viceversa, tra una camera e la sua finestra e un’altra camera e
altra finestra, come perdute, proibite, viste di riflesso da fuori o da
lontano, udite negli echi, nei canti, nei rumori. La camera oscura […] è il
bulbo che genera per sovrapposizione, dall’oscurità e dal silenzio del
sottoterra profondo, il fiore della poesia […]. In questa stanza nasce il
personaggio poetico di Leopardi».
quindi, il modello eroico instillava nel giovane Giacomo una
spinta propulsiva volta alla rincorsa dei più puri ideali, dopo il fallimento
della fuga era come se fosse avvenuto «un antico misfatto, che continua[va] a
ripetersi ogni giorno in forma di violenza
subìta»[255] – la stessa, atroce
violenza che Bruto, violentandosi lui stesso, si è trovato inerme a
testimoniare. Se da una parte Ettore si avvicina «al soggetto moderno,
abbandonato dagli dei, sventurato ma virtuoso» e diventa una sorta di
eroe-guida, rappresentante valoroso dell’altruistico onor del popolo, proprio
perché «la virtù lo salva dall’esser individuato come colpevole»[256], Bruto è invece colui che,
egoisticamente respingendo il gusto amaro del disincanto, non solo si
avvicina al soggetto moderno, ma lo incarna in tutto e per tutto, poiché
segna quel trapasso di coscienza dall’ingenuità giovanile alla severità adulta conseguente
alla discoperta del vero accompagnata e «a suo modo testimoniata da malinconia
e ironia, da un habitus di maggiore
compostezza e da una capacità ferma e lucidissima di giudicare e tirare innanzi
la vita»[257].
E per meglio spiegare la predilezione di
Leopardi per l’eroe Bruto – l’unico veramente
moderno – tornano utili le parole con cui Bonifazi dipinge l’atmosfera
recanatese, che dal punto di vista di Leopardi quasi somiglia a quella della
desolata piana di Filippi:
Realtà frustrante, solitudine e
malinconia, entrano ora in scena con abiti di lutto, come per una morte, e il poeta piange, infatti, per la morte
di tutti e di tutto, e il piangere lo conforta, e se ritorna indietro col
ricordo immaginario all’infanzia, ritrova sì speranze e illusioni, ma insieme
alle delusioni, e se vi riflette nelle lettere e nel diario filosofico, ritrova
ancora paura e solitudine, fin da allora, e pianto, fin dalla nascita. Questa è
la necessità della poesia leopardiana, il prezzo che deve pagare il suo canto
se vuole ovviare
dell’eloquenza e dell’immaginazione nella lirica e in
quelle prose letterarie ch’io potrò scrivere; le armi della ragione, della
logica, della filosofia ne’ trattati filosofici ch’io dispongo; e le armi del
ridicolo ne’ dialoghi e novelle lucianee ch’io vo preparando (27 luglio 1821)».
alla noia e alla tetra malinconia: un piangere o
rimpiangere ciò che non ha avuto, ciò che ha perduto senza ottenere[258].
A partire da quel travagliato periodo ’19-’21 Leopardi
comincia a percepire la sua stessa vita come una lotta eroica contro il destino
avverso, e deve dunque necessariamente
abbandonare il modello epico di Ettore (esaltato da bambino) per innescare una
vera e propria evoluzione psicologica (e filosofica) che lo porterà ad
abbracciare con sentita partecipazione emotiva l’antieroe Bruto. E come lui,
«si canterà da solo un funebre canto, un pianto non di richiesta, ma di
disperazione, e tuttavia canto che allontana gli spettri», ricostituendo un
nuovo ideale di «solitudine-punizione ingiusta, incoscienza e assoluzione» [259] – ma che, nel caso di
Bruto, non arriverà a conoscere la funzione memoriale di un foscoliano
sepolcro:
E tu onore
di pianti, Ettore, avrai Ove fia santo e lagrimato il sangue
Per la patria versato, e finché il
Sole Risplenderà su le sciagure umane[260].
Se da una parte a Ettore è riconosciuta una degna fama, lo
stesso non avviene per Bruto, poiché solo «a’ generosi / giusta di glorie
dispensiera è morte»46. E questo non solo per una questione di
causalità delle loro morti (l’una procurata da arma nemica e l’altra autoinflitta),
bensì in rigore del rifiuto personale di Bruto per una commemorazione eterna
che non vuole gli sia riconosciuta, e che quindi si presenta come una risposta
in polemica con il classicismo dei Sepolcri,
i quali, muovendo da un iniziale dubbio circa la funzione consolatrice del
sepolcro («All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne / Confortate di pianto è
forse il sonno / Della morte men duro?», vv. 1-3), arrivano, nello sviluppo del
carme, a riconoscerne la validità,
fino ad esaltarne il valore memoriale e glorificante:
Testimonianza
a’ fasti eran le tombe,
Ed are a’
figli; e uscian quindi i responsi De’
domestici Lari, e fu temuto Su la polve
degli avi il giuramento:
[…]
Ma cipressi e cedri
Di puri effluvj i zefiri
impregnando
Perenne
verde protendean su l’urne Per memoria perenne, e prezïosi Vasi raccogliean le lagrime votive[261].
Ma la funzione eternatrice del sepolcro è riservata
esclusivamente a coloro che hanno meritato
una degna fama a seguito delle azioni
grandi compiute in vita, e anzi le urne degli spiriti magnanimi
contribuiscono ad accrescere la speranza, ad alimentare l’ispirazione e la
creazione di forme d’arte a chi si reca a visitarli («A egregie cose il forte
animo accendono / l’urne de’ forti», vv. 151-152). Ma a chi, come Bruto, non
lascia alcuna «eredità d’affetti», non è riservato alcun conforto:
Sol chi non
lascia eredità d’affetti
Poca gioia ha dell’urna; e se pur
mira
Dopo l’esequie, errar vede il suo
spirto
Fra ’l compianto de’ templi
Acherontei,
O ricovrarsi sotto le grandi ale
Del perdono d’Iddio: ma la sua
polve
Lascia alle ortiche di deserta
gleba
Ove nè donna innamorata preghi, Nè
passegger solingo oda il sospiro
Che dal tumulo a noi manda Natura48.
Come notato anche da Barberi Squarotti, «ciò che chiede
Bruto in punto di morte è proprio ciò che depreca il Foscolo per il Parini: che
il corpo del poeta giaccia confuso con quello di infiniti altri morti, senza un
segno o un cippo che lo ricordi»49, circonfuso nell’oscurità
dominata da uccelli notturni e dalla «derelitta cagna»:
Sdegnoso avello
Placar singulti, ornar parole e
doni
Di vil caterva? In peggio
Precipitano i tempi; e mal s’affida
A putridi nepoti
L’onor d’egregie menti e la suprema
De’ miseri vendetta. A me dintorno
Le penne il bruno augello avido
roti;
Prema la fera, e il nembo
Tratti l’ignota spoglia;
E l’aura il nome e la memoria
accoglia[262].
Con l’ultima, brutale strofa del componimento Leopardi non
si esime dall’esternare un’aspra smentita della funzione consolatrice del
sepolcro, così come disdegna la fiducia nei posteri e il valore glorificante
della memoria[263]. Infatti, come evidenziato
da Roberto Rea, «l’ultimo verso del Bruto
richiama ancora una volta, sempre a mo’ di negazione, i Sepolcri»[264], in cui le grandi gesta e
la memoria sono proprio quei valori che, grazie alle urne votive, non possono
esser obliati:
Ma più beata chè in un tempio
accolte
Serbi l’Itale glorie, uniche forse
Da che le mal vietate Alpi e
l’alterna
Onnipotenza delle umane sorti
Armi e sostanze t’invadeano ed are
E patria e, tranne la memoria,
tutto[265].
E a riprova di quell’accostamento peculiare tra il
recanatese e il tirannicida di Filippi, ecco che «il rifiuto del canto
eternatore, che Bruto proclama, coinvolge anche strutture linguistiche e
ideologiche che Leopardi aveva fatte proprie, e quindi assume una valenza
autoreferenziale»[266]. Poiché riflettono gli
echi filosofici propri di Leopardi, le parole che Bruto bestemmiatore pronuncia
durante la sua abiura anticipano il fondamento della sua
ancora acerba filosofia spesso definita “pessimista”, che
punta il dito contro l’indifferente quanto crudele natura: «Forse i travagli
nostri, e forse il cielo / i casi acerbi e gl’infelici affetti / giocondo agli
ozi suoi spettacol pose?» (vv. 49-51). Di nuovo, tornano utili le parole di
Barberi Squarotti in proposito all’accostamento Giacomo-Bruto e al loro ripudio del valore commemorativo di
un sepolcro glorificante:
L’identificazione del giovane
Leopardi con Bruto nel momento della condanna della virtù come vana parola,
della coscienza della vanità dell’azione, della visione di un futuro “putrido”,
della scelta conseguente della morte e del rifiuto della memoria presso i
posteri e del valore d’esempio del tirannicidio, una volta che se ne è
verificata l’inutilità effettiva a far risorgere i valori ormai abbandonati
perché visti come illusioni e vanità dallo spirito razionalistico, filosofico,
geometrizzante dei contemporanei, può, allora, essere anche un discorso intorno
a una situazione storica omologa, e anche come una presentazione del
particolare rapporto che, a proposito di Bruto, e con il classicismo
contemporaneo Leopardi instaura con il mondo classico[267].
Sovvertendo l’ideologia foscoliana neoclassica dei Sepolcri, Leopardi esprime quel nascente
sentimento di disprezzo nei confronti dei tempi moderni di cui Bruto sconfitto
a Filippi si fa portavoce, mentre si rende conto dell’inutilità del ruolo
rievocativo di una tomba indegna di accogliere l’alma di un suicida, ben
conscio che vani sarebbero i pianti consolatori di una «prole infelice». Gli
ultimi versi del Bruto minore,
infatti, nel riprendere alcuni stessi termini presenti nei Sepolcri sconvolgono in maniera spietata l’augurio che Foscolo
predice per sé stesso e per l’amico Pindemonte:
A noi
Morte apparecchi riposato albergo
Ove una volta la fortuna cessi
Dalle
vendette, e l’amistà raccolga Non di tesori eredità, ma caldi Sensi e di
liberal carme l’esempio.
A egregie cose il forte animo accendono
L’urne dei
forti, o Pindemonte; e bella E santa fanno al peregrin la terra Che le ricetta[268].
In maniera diametralmente opposta al Foscolo, Leopardi non
ripone la benché minima fiducia nelle future generazioni, così che la sua fede
nei confronti dell’umana prole vien meno. E se non è ai posteri che vuole
affidare la sua memoria di eroe-suicida, Bruto
preferisce che il suo nome venga disperso nel vento e
completamente dimenticato, a costo di non lasciare alcuna immagine di sé che
valga a commemorarlo. Come rilevato da Roberto Rea[269],
i «putridi nepoti» a cui Bruto non intende affidare la sua eredità sarebbero un’eco
dei «nepoti» guidati da Cassandra ai vv. 261-262 dei Sepolcri: «E guidava i nepoti, e l’amoroso / apprendeva lamento a’
giovinetti».
E tuttavia, la scelta
di Leopardi, volta a scuotere gli animi spenti dei contemporanei, ricade su
Bruto perché diviene per lui un esempio di azione contro il governo dispotico:
ecco quindi che «la risposta dei fatti al classicistico culto dell’antico eroe
della rivolta contro la tirannia è quella che il Leopardi verifica ora, a
restaurazione compiuta»[270], e non gli resta allora
che riproporre la figura emblematica di Bruto, «simbolo classicistico di una
rivoluzione che si era fondata su una mitologia, su un’iconografia, su una recitazione
di modelli classici: ma con l’esperienza storica del dopo»[271],
con la presa di consapevolezza maturata dalla coscienza filosofica del
disinganno.
Ad ogni modo, si può concludere
affermando che dall’osservazione particolare della morte dell’eroe, Leopardi
deduce un senso che racchiude per lui un valore universale, tanto da esser
trasposto in poesia in quanto voce di una verità estetica (come avviene,
secondo Stelio Cro, nella maggior parte dei suoi componimenti, tra cui L’Infinito, poiché le sue congetture
assumono «quella dimensione indefinita che è propria dell’arte del Leopardi») e
si capisce allora come «un’intuizione fanciullesca […] possa gradualmente
acquistare il sapore epico delle canzoni patriottiche, il tono lirico dell’Infinito e il senso tragico del Bruto minore»[272].
Sin dall’infanzia,
insomma, si profila in Giacomo un vivissimo interesse per la figura dell’eroe
vinto da sventura: e proprio perché «la morte dell’eroe è un avvenimento di
importanza universale»[273], essa costituirà un
modello letterario che andrà evolvendosi per raggiungere l’acme stilistico nel Bruto minore, fino a costituire
l’oggetto di quella lunga digressione sull’opera omerica nello Zibaldone del ’23:
Or dunque oggidì le sventure
cantate da’ poeti, non possono non interessar grandemente, e più che in ogni
altro tempo, e tutti; essendo il
sentimento della propria sventura l’universale e più continuo sentimento degli
uomini d’oggidì, ed amando naturalmente gli uomini di parlare e udir
parlare delle cose proprie, e riguardando ciascheduno la infelicità come
propria sua cosa, e dilettandosi gli uomini singolarmente di quelli che loro
più si assomigliano, né potendosi trovar
somiglianza più universale che quella della infelicità, e compiacendosi ciascheduno di vedere in
altrui o di legger ne’ poeti i suoi propri sentimenti, e contrando per
somma ventura ogni volta ch’egli incontra o nella vita o ne’ libri qualche
notabile conformità o di casi o di circostanze o di opinioni o di carattere o di
pensieri o d’inclinazioni o di modi o di vita e abitudini, colle sue proprie; e
consolandosi ciascheduno delle sue sventure coll’esempio vivamente
rappresentato, e più col vederle quasi celebrate e piante in altrui (e ciò soggetto
e circostanze e persone e avvenimenti illustri, come son quelli cantati ne’
poemi epici), innalzando il concetto di se stesso quasi il canto del poeta
avesse per soggetto la di lui stessa infelicità, ed intenerendosi nella lettura
quasi sui proprii mali[274].
Avvicinandosi all’età adulta,
Leopardi inizia ad avvertire l’eroismo come condizione distintiva di chi va
alla ricerca di una verità assoluta, quasi al di là dello scibile e, se si può
dire, forse anche un poco “ultrasensibile”: e quella verità è anche l’illusione per
che culminerà nella poesia dell’“idillio”, primo fra
tutti l’Infinito, momento meditativo
di raccoglimento interiore del poeta che interroga se stesso e trova nel
contrappunto poetico-filosofico-metafisico la formula del ricordo musicale
ormai trasformato in arte ritmica e spaziale. L’Infinito è quindi un punto di arrivo e un punto di partenza. È il
punto di arrivo della fase eroica che aveva dato le poesie e tragedie
adolescenti e che continuerà in versi e in prosa fino alla morte sviluppandosi
in motivi collaterali, moralistici, pedagogici e patriottici, ed è il punto di
partenza per la nuova e più grande poesia leopardiana».
antonomasia che dall’Infinito
rimane il perno attorno a cui ruota la singolare speculazione del filosofo di
Recanati.
A questo punto è doveroso precisare che
non solo Bruto, ma in generale il «classicismo eroico fu sentito
dall’adolescente poeta come “alter-ego”»[275],
da cui il recanatese, attraverso la sua peculiare sensibilità, ha colto
l’aspetto tragico della morte e della sventura. Ma se la morte di Ettore
avviene per mano del nemico, e dunque non per sua colpa, nel caso di Bruto essa
è conseguenza del suo atto egoistico: in entrambi i casi, «l’ineluttabile
sconfitta da parte di forze avverse, ostili e invincibili, siano esse o si chiamino
la fortuna o il destino, la natura o gli dei»[276]
è un punto di partenza da cui germoglia la sempre più complessa Weltanschauung leopardiana – che dal Bruto arriva alla Ginestra – mostrando infine che «il ritratto dell’eroe si è
trasformato nell’autoritratto del filosofo»[277].
1.2. L’ECO
EROICA DI ALFIERI
O salvar
Roma io voglio, o perir seco[278].
Quello dell’eroe colpito da sventura è uno stilema tragico
che Leopardi riprende in parte anche da un autore che, rispetto al lontanissimo
Omero, gli fu quasi contemporaneo: si tratta di Alfieri, di cui nutriva una
rispettosa stima sin dal 1817: «Vedrò, dissi, il tuo marmo, Alfieri mio, /
Vedrò la parte aprica e il dolce tetto / onde dicesti a questa terra addio /
[…] A piangere i’ verrò su la tua tomba»[279].
Più di una volta Leopardi si riferisce a lui con il possessivo “mio”, come nei
seguenti versi dell’Angelo Mai,
proprio per esasperare la vicinanza emotiva che lo legava al tragediografo di
Asti, quasi come fosse stato un combattivo eroe moderno:
Allobrogo feroce68, a
cui dal polo
Maschia virtù, non già da questa
mia
Stanca ed arida terra,
Venne nel petto; onde privato,
inerme,
(Memorando ardimento) in su la scena
Mosse
guerra a’ tiranni: almen si dia
Questa misera guerra
E questo vano campo all’ire inferme
Del mondo. Ei primo e sol dentro
all’arena
Scese, e nullo il seguì, che l’ozio
e il brutto Silenzio or preme ai nostri innanzi a tutto.
Disdegnando e fremendo,
immacolata
Trasse la vita intera,
E morte lo
scampò dal veder peggio. Vittorio mio, questa per te non era Età né suolo[280].
Il ritratto di un Alfieri ardimentoso che si erge
ideologicamente contro i tiranni è presente anche nei già citati Sepolcri, nei quali perfino dopo la
morte il piemontese non tace il suo amor di patria:
E a questi marmi
Venne spesso Vittorio ad ispirarsi.
Irato a’
patrii Numi, errava muto
Ove Arno è
più deserto, i campi e il cielo
Desïoso mirando; e poi che nullo
Vivente
aspetto gli molcea la cura,
68 Precisa
Fubini in nota: «“Allobrogo si chiama esso Alfieri nella sua Vita […]” (nota marginale del L.)» in G.
Leopardi, Canti, a cura di M. Fubini,
cit., p. 59. Si veda dunque, di rimando, V. Alfieri, Vita, cit., p. 93: «E mi ricordo, tra l’altre, che nella Biblioteca
Ambrosiana, datomi in mano dal bibliotecario non so più quale manoscritto
autografo del Petrarca, da vero barbaro Allobrogo, lo buttai là, dicendo che
non me n’importava nulla». In nota (ivi,
p. 328), è ancor meglio spiegato da Dossena: «“Gli Allobrogi erano i Galli abitanti
Savoia e Delfinato. “Fero Allobrogo” aveva chiamato l’A. il Parini nell’ode Il dono, pubblicata nel 1791, ed è
probabile che questo sia un preciso ricordo del Parini, perché nella stesura
del 1790 l’A. aveva scritto solo “come barbaro ch’io era”».
Qui posava
l’austero; e avea sul volto Il pallor
della morte e la speranza. Con questi grandi abita eterno: e l’ossa Fremono
amor di patria[281].
Da questi versi emerge una somiglianza tra l’immagine che
Foscolo ha dato di Alfieri e il Bruto di Leopardi: entrambi sono irati contro le divinità, entrambi sono
vagabondi in una piana deserta, e nessuno dei due è capace di empatia verso
alcun essere vivente. Due soli aspetti discostano apparentemente i due “eroi”:
se Vittorio serba in sé sentimenti alti come la speranza e l’amor di patria, e
crede fermamente nel valore commemorativo del sepolcro (da cui trae
ispirazione), dall’altra parte Bruto non prova passioni al di fuori di un
glaciale egoismo e di una malcelata misantropia, che lo portano a ripudiare il
valore della lapide ad memoriam.
Dal momento che nello
Zibaldone è lo stesso Leopardi a
considerarli autori degni di un pur minimo sentimento, l’accostamento finora
proposto tra il recanatese, Foscolo e Alfieri non è casuale, poiché entrambi
sono contemplati «alla luce della sua poetica, che oppone gli antichi ai
moderni: a questi ultimi è concesso solo il canto nostalgico per i miti e le
illusioni che la ragione ha distrutto, costringendo l’uomo negli angusti
perimetri del reale»[282]:
Quei pochissimi poeti italiani che
in questo o nel passato secolo hanno avuto qualche barlume di genio e natura
poetica, qualche poco di forza nell’animo o nel sentimento, qualche poco di
passione, sono stati tutti malinconici nelle loro poesie. (Alfieri, Foscolo
ec.)[283]
Indubbiamente, Alfieri fu per il giovane Leopardi un
importante modello, non solo letterario ma, per certi aspetti, anche
propedeutico all’insorgere di un «carattere per natura
appassionatissimo»73, ma in aspetti diversi. Se
Leopardi dal canto suo ricalca l’immagine del giovane sensibile e riflessivo,
attento nell’analizzare a fondo il vero delle
cose, Alfieri si contraddistingue invece per un’acuta nota di vivissimo ardore –
per cui bruciano incessantemente, anche di fronte alle delusioni politiche (che
anzi, paiono quasi alimentarli), nazionalismo e amor di patria – che ben si
armonizza col suo lato impetuoso quanto istintivo[284].
Insomma, come indica Bruno Maier la personalità di Alfieri si riassume in un
«eroico e pessimistico individualismo», che significa «senso altero e profondo dell’“io”,
aspirazione ad affermare decisamente se stesso e, quindi, lotta contro il mondo
esterno, contro il “limite” costituito dalla medesima realtà»75. La
forza di Leopardi si identifica, in qualche modo, a quella del suo maestro «in
un impeto eroico-
individualistico il cui accento più profondo non si perderà
mai pur rafforzandosi più tardi nella figura più moderna dell’intellettuale
“progressivo”»[285].
Di certo, come già accennato in
precedenza, la predilezione per la figura di Bruto arrivò, almeno in parte, dall’autore
piemontese («Che Bruti, che Bruti di un Voltaire? io ne farò dei Bruti, e li
farò tutt’a due: […] d’un lampo ideai ad un parto i due Bruti, quali poi li ho eseguiti»)[286],
che proprio come Leopardi rimane impressionato dalle letture
73 V.
Alfieri, Vita, cit., p. 116. Di
fatto, l’animo «ardentissimo e disperato» di Leopardi sembra quasi una eco del
«carattere per natura appassionatissimo» di Alfieri (certamente molto più estroverso rispetto al
recanatese), che, forse un po’ come Leopardi, rimane affascinato dalla lettura
delle Vite parallele di Plutarco e si
rammarica di esser nato in un luogo e in un tempo che non lasciano spazio a
nuovi eroi: «Ed alcune di quelle, come Timoleone, Cesare, Bruto, Pelopida,
Catone, ed altre, sino a quattro e cinque volte le rilessi con un tale
trasporto di grida, di pianti, e di furori pur anche, che chi fosse stato a
sentirmi nella camera vicina mi avrebbe certamente tenuto per impazzato.
All’udire certi gran tratti di quei sommi uomini, spessissimo io balzava in
piedi agitatissimo, e fuori di me, e lagrime di dolore e di rabbia mi
scaturivano dal vedermi nato in Piemonte ed in tempi e governi ove niuna alta
cosa non si poteva né fare né dire, ed inutilmente appena forse ella si poteva
sentire e pensare», in ibidem. Anche,
a p. 231: «Ma io frattanto, menomate o sopite in me le mie intellettuali
facoltà, altra occupazione, altro pensiero non ammetteva, che lo scrivere
lettere; […] io sfogava il dolore, l’amicizia, l’amore, l’ira e tutti in somma
i cotanti, e sì diversi, e sì indomiti affetti d’un cuor traboccante, e d’un
animo mortalmente piagato. Ogni cosa letteraria mi si andava ad un tempo stesso
estinguendo nella mente, e nel cuore».
condotte in gioventù e precisamente «dalle maniere
arcaizzanti dell’Ossian, dallo stile
ruvido ed energico di Dante e da quello fastoso e visionario della Bibbia»[287].
Partendo dal presupposto che anche l’eroe
biblico alfieriano instaura un rapporto sinergico col ferreo pugnale, Francesco
Spera propone un raffronto proprio con il finale del Saul, quando l’anziano re, ormai sconfitto e rimasto solo, si
rivolge prontamente all’arma prescelta per darsi la morte, e come accade al
Bruto leopardiano «anche nel momento del fallimento soltanto la spada, che è la
più fedele compagna, può garantire l’unica via d’uscita onorevole e coerente
col suicidio»[288]:
Ma tu mi resti, o brando: all’ultim’uopo, fido ministro, or vieni. – Ecco già gli urli dell’insolente
vincitor: sul ciglio già lor fiaccole ardenti balenarmi veggo, e le spade a
mille… – Empia Filiste, me troverai, ma
almen da re, qui… morto[289]. –
Così come Bruto si presenta «per l’atra notte in erma sede /
fermo già di morir» (vv. 1112), anche Saul preferisce allontanarsi da tutto e
tutti prima ancora di arrivare all’ora estrema: «Sol, con me stesso, io sto. –
Di me soltanto, / (Misero re!) di me solo io non tremo»[290].
La morte di Saul, ponendosi come «un’estrema manifestazione di eroismo e di grandezza
e una sorta di vittoria morale sui nemici filistei e su se stesso»[291], quasi chiama da lontano
il Bruto di Leopardi, che si suicida cavalcando questa idea a suo modo “eroica”.
E anzi ciò che potrebbe avvicinare in maniera peculiare le personalità
disturbanti di Saul e Bruto è la compresenza di pulsioni assieme eroiche e
tiranniche: commentando il Saul,
Bruno Maier spiega che il sovrano è «insieme eroe e tiranno di se medesimo o unisce
e fonde nella sua complessa interiorità slanci ed entusiasmi eroici […] e
ombrosità
secondo (il cui
protagonista è concepito addirittura come “un ente possibile fra l’uomo e il
Dio”) e per i quali si impone uno stile adeguato». Di rimando, si veda
l’introduzione dello stesso Alfieri al Bruto
secondo: «Da voi, o generosi e liberi Italiani, spero che mi verrà
perdonato l’oltraggio che io stava innocentemente facendo ai vostri avi, o
bisavi, nell’attentarmi di presentar loro due Bruti; […] così pure ho certezza, che se dai vostri bisavi mi
veniva di ciò dato biasimo, non potea egli però essere scevro del tutto di
stima: perché tutti non poteano mai odiare o sprezzare colui, che nessuno
individuo odiava; e che manifestamente sforzavasi (per quanto era in lui) di
giovare a tutti, od ai più», in V. Alfieri, Tragedie,
cit., pp. 537-538.
e malvagità tiranniche»[292].
Ciò potrebbe valere per il Bruto leopardiano nel momento in cui, non pienamente
consapevole di essere in parte un tiranno, si punisce esattamente come aveva
punito Cesare.
Ad ogni modo, l’isolamento dell’eroe in
punto di morte riflette in ambo i casi la decisione irremovibile di prendere le
distanze da un popolo che si affida inerme alle modifiche della storia,
incapace di comprendere l’emotività del singolo lacerata da una sciagura
personale prima ancora che politica, e che, nel caso degli eroi alfieriani,
incarna il loro ideale di libertà, proprio perché «tale morte è l’unica maniera
di sottrarsi all’avversità degli uomini e delle circostanze o alla cieca
sopraffazione del destino, di risolvere il conflitto con gli antagonisti e di
riasserire – implicitamente – il principio della libertà o la sua
irrinunciabile istanza ideale»[293].
Un altro aspetto che avvicina il
recanatese ad Alfieri è la delusione di quest’ultimo «per l’imperfezione della
storia», che «si trasforma concretamente in delusione di Foscolo per la
politica di Napoleone, per la sconfitta di un’ideologia» [294]
– che è la stessa sperimentata in prima persona da Leopardi al fallire dei moti
del ’20-’21. Per tutti e tre, «a questa crisi si sposa la delusione
esistenziale per una felicità umanamente impossibile»[295];
e dunque, costretti a vivere nel loro vile
secolo, nutrono un sentimento di disprezzo per il presente riconoscendo
invece il fascino della bellezza primitiva – quella dei miti, delle favole e
degli eroi – vissuta dai soggetti decantati (sia in positivo che in negativo)
nei loro componimenti, dai quali trapela la magnanimità degli eroi greci e
romani che supera l’inettitudine dei moderni[296].
Tuttavia, tra i caratteri che allontanano il Bruto di Leopardi dagli eroi
alfieriani vi è l’esaltazione in quest’ultimi di un tirannicidio tanto
funzionale quanto sublime – e dunque eroico –, che viene giustificato proprio
in
virtù di una rivendicazione storico-politica: infatti, come
si è già accennato, un’eco alfieriana non secondaria (e, forse, tra le più
immediate), è proprio quella che si cela nel Bruto secondo. Si cela, appunto: nonostante l’identicità della
figura storica, il cesaricida alfieriano è solo un lontano parente dell’alter
ego di Leopardi, proprio perché «la voce antica della natura che parla ancora
al Bruto di Alfieri, ispirandogli la sublimità del tirannicidio, tace invece
per il leopardiano Bruto minore» – spiega Angiola Ferraris, nel momento in cui «l’epilogo
della sua storia (quella di Roma repubblicana) non ammette né interlocutori né
spettatori: è oggetto di un canto che sia esso stesso mortale»[297] che scaturisce dalla
scoperta del nuovo ordine delle cose.
Inoltre, i due Bruti sono dipinti
rispettivamente in un pre e in un post cesaricidio:
e dunque, laddove per il primo si preannuncia un’aspettativa
fiorente che apre le porte a un rinnovato regime di libertà («A morte, / a
morte andiam, o a libertade»)[298], per il secondo passato e
presente si coprono di un’ombra che non lascia spazio all’avvenire (a meno che
questo non sia, secondo necessità, infausto). E proprio quella «ferrata
necessità» risuona già, ma in misura minore, nel Bruto secondo nelle parole di Cesare:
…Il cor mi squarci… Oh
dura Necessità!... Seguir del core i moti Soli non posso. – Odiami, amato Bruto. – Troppo il servir di Roma è ormai maturo: con
più alto danno per essa, e men virtude,
altri terralla, ove tenerla
nieghi Bruto di man di Cesare…[299]
Il sentimento dell’odio – di cui si nutre il Bruto
leopardiano – sembra essere instillato già in questa sede proprio dall’invito
di Cesare all’«amato» figlio. Certo l’odio non è l’unica passione presente
nella versione alfieriana: ma in questo caso, Bruto è nobilmente virtuoso,
amante della gloria, e ancora freme amor di patria («Bruto ama Roma; ed ama la
gloria, e il retto»)91; non si pompeggia, ma è rappresentato,
insomma, in veste di combattente ardimentoso (e quasi umile!) che incita i suoi
compagni ad agire uniti:
In
reputarmi
piú forte e grande ch’io nol son,
me grande e forte fai, piú ch’io per me nol fora. —
Cassio, ecco
omai rasciutto ho il ciglio appieno. — Giá si appressan le tenebre: il gran
giorno doman sará. Tutto di nuovo io giuro, quanto è fra noi giá risoluto. Io
poso del tutto in voi; posate in me: null’altro chieggo da voi, fuor che
aspettiate il cenno da me soltanto[300].
Tuttavia, nonostante l’audacia di Bruto si mantenga sempre viva
dal primo all’ultimo atto, ciò che in coda comincia a emergere è una sorta di
previsione collettiva della morte di Bruto, nel momento in cui confessa di aver
riservato al padre quella spietata, cruenta fine che, com’è noto, si riverserà inesorabile
su lui stesso:
BRUTO. Sì; nel
proprio sangue immerso
Cesare
giace: ed io, benché non tinto di sangue in man voi mi vediate il ferro, io pur cogli altri, io pur, Cesare
uccisi… POPOLO. Ah traditor! tu pur morrai…
BRUTO. Già volta Sta
dell’acciaro al petto mio la punta: morire io vo’: ma, mi ascoltate pria[301].
Si intravede già, dunque, il motivo del suicidio, che
Alfieri non avrebbe potuto qui rappresentare, o avrebbe peccato di eccessività
di osceno tragico. Ma, soprattutto, non era quello il suo intento: e nel
passaggio di testimone a Leopardi, rimane accesa la protesta di Bruto, poiché
«Fiamma è il tuo dire, o Bruto…»[302].
E ancora, si potrebbe cogliere
un’affinità tra il Filippo
alfieriano, che è «la prima, grande individuazione del personaggio del tiranno»95
(ma si può prendere questo esempio come uno fra i tanti presenti nelle sue
tragedie) e il Bruto minore nel
momento in cui il re accusa il figlio Carlo di tentato parricidio (e già questo
motivo può ben sovrapporsi alla vicenda storica dell’uccisione di Cesare da
parte del figlio adottivo). Nella scena quinta
dell’atto III del Filippo, i versi che tratteggiano la
simulata uccisione del padre da parte di Carlo sembrano un’eco anticipatrice
del suicidio di Bruto:
Appena l’astro apportator del giorno, lucido testimon d’ogni
opra mia, gli altri miei regni a rischiarar sen giva, che giá coll’ombre della notte, amiche ai traditor,
sorgea nel cor di Carlo altro orribil pensiero. A far vendetta dei perdonati
falli ei muove il piede ver le mie stanze tacito. La destra d’un parricida acciaro armarsi egli osa. A me da tergo ei
giá si appressa. Il ferro giá
innalza; entro al paterno inerme fianco giá
quasi il vibra...[303]
L’atmosfera e i termini utilizzati
(«destra», «ferro», «inerme fianco», che nel Bruto minore è reso con «alto lato») segnano una parziale
coincidenza con l’atto gravoso di Bruto, «quando nell’alto lato / l’amaro ferro
intride, / e maligno alle nere ombre sorride» (vv. 43-45) nella sua maliziosa
sfida alla tiranna destra del fato.
Ciò che fa di Carlo un anticipatore di Bruto è che in ambo i casi «l’ombra […] non
appartiene al nemico, ma è proiettata da colui che insegue se stesso. Chi
aspira a trascendere l’umano non danneggia che la propria umanità […] non fa
che condannarsi a un eterno viaggio di ricerca e di espiazione»[304]. E tuttavia entrambi,
inconsapevoli di questa cruda quanto sottile verità, sono mossi dal medesimo
sentimento: quello della vendetta. Con simile – ma più sottile – accortezza
rispetto all’Alfieri, Leopardi fu in grado, nel Bruto minore, di allontanare dalla scena l’atto veramente osceno (ossia il momento in
cui l’eroe cade trafitto sulla propria spada)[305]
affidando a una solenne seppur minima descrizione il gesto di chi si prepara ad
infliggersi l’ultimo, spietato colpo: «Quando nell’alto lato / l’amaro ferro intride»
(vv. 43-44)[306].
Al di là delle riprese
tematico-stilistiche proprie delle tragedie alfieriane, il Bruto minore costituisce un punto di svolta anche nella misura in
cui capovolge appieno lo statuto dell’eroe classico, così che «il tragico del Bruto minore leopardiano inaugura la
negazione assoluta»[307]. Ciò significa che l’estrema
sentenza del suo protagonista non risuona nelle ultime parole degli eroi
alfieriani, e il suo gridare (rassegnata disperazione di un vinto che non
accetta la sua sopraggiunta inettitudine) «assume forme ben più inusitate
rispetto al tradizionale ultimo monologo di chi, sacrificando la propria vita,
confermava il valore degli ideali per cui aveva combattuto e incitava gli altri
a praticarli»[308]. Ciò che, in sostanza,
allontana Leopardi da Alfieri e Foscolo sta nel motivo intrinseco della
protesta dell’eroe tragico Bruto, che «rifiuta non un evento o una situazione
della storia o un istituzione o il “tiranno” come simbolo di ciò che la storia
ha di negativo», bensì la «continuità stessa della storia, il futuro, in quanto
degradazione sempre più grave senza rimedio» [309]
. Avvolto dalla disgrazia occorsa in sua vece, malfidente e certo di un
futuro inospitale, non fa più battaglia mosso da amor di patria, né gli importa
se dopo di lui l’onore delle egregie
menti si affiderà alla noncuranza dei disonesti, stolti discendenti
«imputriditi nell’ozio»[310]. E tuttavia, proprio questo motivo della non-memoria
potrebbe ricercarsi anch’esso in Alfieri, nel già citato dialogo La virtù sconosciuta:
VITTORIO. Morto
sei; né di te traccia alcuna in questo cieco mondo tu mi lasci, nol niego, per
cui abbiano i presenti e futuri uomini a sapere con loro espresso vantaggio,
che la rara tua luce nel mondo già fu[311]. Ignoto ai contemporanei
tuoi tu vivevi, perché degni non
erano di conoscerti forse; e ad un
reo silenzio mal mio grado ostinandoti, d’essere a’ tuoi posteri ignoto
sceglievi, perché forse la presaga tua mente, con vero e troppo dolore
antivedea, che in nulla migliori delle presenti le future generazioni
sarebbero. Ma io, ben rimembrartelo dei, tante volte pur ti diceva, che uffizio
e dovere d’ogni alto ingegno con umano cuore accoppiato si era il tentare
almeno di renderle migliori d’alquanto, tramandando ad esse sublimi verità in
sublime stile notate[312].
Ciò nonostante, in Alfieri permane comunque un disdegno
verso il proprio tempo che supera ampiamente la sfera dell’insoddisfazione individuale:
dopo poche battute, si legge infatti: «Ma in te più lo sdegno dei presenti
tempi potea, che l’amor di te stesso e d’altrui»[313].
E uno sdegno così veracemente sentito nei confronti del vile secolo è dato in gran parte, per il Gori Gandellini
interlocutore del dialogo (come per Bruto) dalla rivelazione del
disinganno:
Venendo io dalla magione del
disinganno, potrei su questo umano delirio, che amor di fama si appella, dirti
e dimostrarti tai cose, che non solo ti consolerebbero di questa tua ideale mia
fama, da me non acquistata, (né acquistabile mai) ma ad un tempo istesso ti trarrebbero
forse del cuore l’ardentissimo desiderio che della tua propria tu nutri nel
petto […] Il forte sentire, credilo a me, egli è una liquida sottile
infiammabile qualità, che per ogni nostra vena e fibra trascorre, ed a tutti i
sensi si affaccia. Or, che saran questi grandi, che in altro nol sono, che
nella potenza degli occhi? Non sono in quella neppure; s’infingono,
s’ingannano, per ingannare[314].
È come se l’amico si ponesse in qualità di voce della
coscienza (una coscienza disingannatrice) volta a illuminare Alfieri del vero essere delle cose, a mostrargli che
l’«umano delirio», così ubriaco di forti passioni (del «forte sentire») ancora
si pasce di un’eterna quanto inutile rincorsa al fantasma della fama, e di
tutti gli altri ideali che ad essa si avvicinano. E anche lui stesso, infatti,
dichiara: «non desiderava altro al mondo che il poter praticar la virtù: di
quella parlo, che sola è la vera […]; quella, che conoscer
Fubini, cit., p. 227. Come Alfieri intende nel suo
dialogo esaltare le qualità e la nobiltà d’animo dell’amico quand’era in vita,
anche il recanatese rievoca, qui, la bellezza (sia fisica che intellettuale) di
una donna di cui ora si conserva mera materia in via di dissolvenza. Cfr.
introduzione di U. Dotti a G. Leopardi, Canti,
a cura di U. Dotti, cit., p. 125: «Se la natura umana – si chiede infatti
Leopardi – è soltanto costituita di miseria e di fango, come sembra attestare
il destino del nostro corpo dopo la morte, come si spiegano i sentimenti
elevati, le nobili e grandi azioni, il sentirsi dominatori dell’universo? Se
invece essa è costituita anche da materia nobile (almeno in parte), capace di
elevarsi al di sopra di quanto è soggetto alla corruzione e alla putrefazione,
come mai sentimenti così alti e magnanimi cadono in potere della materia più
ignobile di cui è composta la fonte della loro ispirazione, la bellezza
muliebre, e, non diversamente da questa materia, tali sentimenti sono
provvisori e destinati a spegnersi?».
si può, ma immedesimarsela non mai, se non col continuo,
pubblico, libero, e laudato esercizio di essa»[315].
Eppure, il mondo è mero inganno.
Ma Alfieri, a
differenza di Leopardi-Bruto, non demorde, anzi spera vivamente che una virtù
quasi più grande ancora di quella antica possa sopravvivere nei tempi moderni,
e intende farne manifesto per i suoi contemporanei e per i posteri, sfoggiando l’esempio
di Gori Gandellini[316]:
Io […] nutriva assai speranza di
poter con evidenza dimostrare, che la virtù vi può essere ancor nei più servili
tempi, e nei più viziosi governi; che tal virtù vi può essere, la quale, anche
nulla operando, a quella che il più operasse giammai, si pareggi; e che in
somma, quando ella nasce e dimora là dove tutto l’impedisce, la distrugge, o la
scaccia, egli è ufficio di retto uomo, non che di verace amico, il manifestarla
a tutti per consolare e incoraggire i pochissimi buoni, e per vie più
confondere e intimorire i moltissimi rei. […] Ed ecco ancora un’altra
particolar tua grandezza. Gli uomini conosci, ed i tempi e sì pure ti ostini a
reputare non rara cosa la virtù, ed il vero[317].
E sembra quasi parlare direttamente al suicida di Filippi,
quando rivolgendosi all’amico gli dice: «ignote eran forse le tue parti sublimi
di verace antica virtù che ti avrebbero fatto di tua propria luce brillare in
mezzo ai più sommi uomini di Roma libera»111.
E però, solo il Bruto di Leopardi ha il
coraggio di scavalcare, nel suo essere presuntuosamente egoista, l’amarezza
occorsa nel contesto storico, di porsi in conflitto con quel violento
disinganno a cui non vuol credere: la virtù, per lui, è «stolta». Come nell’ultimo
atto di una tragedia, il soliloquio di Bruto si tinge di toni altisonanti che costellano
lo scenario greve su cui si spegne «l’ultima età dell’immaginazione», vissuta,
come si è detto, da un Giacomo che in piena crisi esistenziale ha tuttavia
intuito che «contro la degradazione del presente è possibile una battaglia
culturale che utilizzi la letteratura per elevare la protesta contro il male e
testimoniare i valori»[318]. Attraverso il
suo Bruto,
Leopardi ha inteso mostrare quanto il giudizio umano – il giudizio, in questo
caso, di un militante antitirannico – sia spesso soggetto a errore: nel suo
anelito furioso, l’uomo insegue i fantasmi del proprio desiderio, si agita
affannosamente nella rincorsa agli ideali ormai svaniti finendo per mettere in
forse i suoi progetti razionali, poiché preda di quelle passioni irrazionali
che guidano e condizionano il suo agire. Di fatto, le azioni grandi non possono più essere quelle degli eroi (poiché gli
eroi son tutti caduti, hanno ceduto alla necessità), ma diventano quelle «di
chi con la poesia punta a un’operazione intellettuale […] alta e coraggiosa» dal
momento che «la virtù non è soltanto appannaggio dell’eroe per l’azione»[319], ma ha traslato verso la
vocazione poetica e filosofica.
Nel caso di Bruto, che si prepara a
fronteggiare l’opposizione cesariana attraverso una battaglia che è anche – e
soprattutto – una battaglia
ideologica, «l’operazione implica già in partenza l’esito negativo sul piano
della storia, ma questa sconfitta non impedisce la vittoria della parola»[320]. E infatti Bruto non si fa
scrupoli, nel suo monologo funebre, di dequalificare la virtù a cosa di poco
conto, di cantar vittoria bestemmiando gli dèi e ostentare giudizi di scherno
nei confronti dei «marmorei numi», addirittura dubitando, quasi, perfino della
loro esistenza («Se numi avete in
Flegetonte albergo / O su le nubi», vv. 20-21), e alfierianamente mostrandosi
«del giusto cielo / disprezzator sacrilego mendace»[321].
Questo disprezzo, che Bruto manifesta non solo nei riguardi dell’Olimpo ma
anche verso sé stesso, è ravvisabile, ancora una volta, nel ritratto che
Alfieri dipinge per l’amico:
Sprezzator di te stesso io ti
conobbi pur sempre già in vita; ed in ciò altresì, come in ogni altra cosa, del
tutto ti conobbi dissimile, già non dirò dai volgari, ma dai più sommi uomini
ancora: e perciò degno ti credeva, e ti credo (soffri ch’io il dica; adulazion
qui non entra) degno d’esser primo fra i sommi[322].
E nonostante si disprezzasse in prima persona, era proprio
in virtù di quella sua peculiarità che Alfieri lo ammirava, poiché solo così il
suo differenziarsi «dai più sommi uomini» rendeva l’amico degno di lode e
riconoscimento: e si potrebbe allora tracciare un parallelo
tutto, ben so, ti è nausea e noja; nulla t’inalza;
nulla ti punge; nulla ti lusinga; ma, né cangiarlo tu puoi, né in un altro tuo
esistere, se non col pensiero, e coi scritti. Pensa dunque, ancor tel ridico,
pensa, e scrivi, a tuo senno; ma parla, e vivi, ed opera cogli uomini a senno
dei più».
tra Alfieri-Leopardi e Gori Gandellini-Bruto. A tal
proposito, si può affermare, con Angiola Ferraris, che «gli itinerari di
Alfieri e di Leopardi alla ricerca della virtù perduta convergono nell’approdo
finale all’idealizzazione dell’ethos
eroico delle repubbliche antiche» – e, di fatto, tanto l’uno quanto l’altro
sognano che la civiltà moderna rifiorisca proprio grazie all’apprendimento
della morale antica e a un suo rinnovato e giusto uso – «la cui radice di areté/virtus alimentò per secoli la
tradizione culturale del pensiero nobiliare europeo, attivamente operante, con
accentuazioni diverse, nella formazione intellettuale dei due poeti»[323].
Ma per Leopardi, l’antica virtù si spegne con
Bruto: col suo suicidio, l’ultimo eroe sotterra anche l’ultimo, grande valore.
2. LE
PASSIONI DI BRUTO
Io lasciava
te immerso
fra le
tempeste di mille umane passioni[324].
2.1. UN EFFERATO DISPREZZO
Fra i numerosi sentimenti che accendono l’animo impetuoso di
Bruto, primo fra tutti è emerso, in linea con l’alfierismo di Leopardi, un
efferato disprezzo (verso qualcuno o qualcosa, ma anche verso sé stessi) che,
mescolato al titanismo, è una matrice comune nei Canti composti dal ’21 in poi. Questo emerge, ad esempio, dai vv.
53-68 del Pensiero dominante, che sembrano riprendere
proprio il passo de La virtù sconosciuta citato
alla fine del paragrafo precedente:
Sempre i codardi, e l’alme
Ingenerose, abbiette
Ebbi in dispregio. Or punge ogni
atto indegno
Subito i sensi miei;
Move l’alma ogni esempio Dell’umana
viltà subito a sdegno.
Di questa età superba,
Che di vote speranze si nutrica,
Vaga di ciance, e di virtù nemica;
Stolta, che l’util chiede,
E inutile la vita
Quindi più sempre divenir non vede;
Maggior mi sento. A scherno
Ho gli umani giudizi; e il vario
volgo A’ bei pensieri infesto,
E degno tuo disprezzator, calpesto[325].
Nel commentare il punto nevralgico del canto, Antonio Negri
mostra come la riflessione etica del Leopardi maturo allarghi le sue maglie,
nella disamina di temi che spaziano dall’amore alla morte al sogno. Ma «su base
etica il mondo delle illusioni conoscitive viene discriminandosi, esso stesso»,
e allora «il riconoscimento dell’illusione amorosa, creativa, costruisce il
mondo della verità, meglio, lo approssima, lo circonda, lo riorganizza»[326]: anche se tutto è pura
illusione, il sentimento dell’amore riesce, con la sua «potenza etica»[327], a “dominare” una visione
del mondo fino a quel momento troppo arida, così che il significato di quel
«nulla» che è il mondo trova la sua espressione poetica.
Come Alfieri, anche Leopardi, si è
detto, nutre un certo biasimo verso il suo «secol superbo e sciocco» (La ginestra, v. 53), che è nemico della
virtù e si alimenta di vane speranze. E come Bruto, che all’indomani della
disfatta pensa ed elabora il suo grido di protesta, nonostante l’autorità del
fato lo travolga, così per il recanatese «la stessa mente, pur essendo sotto la
dominazione, sembra dotata di una forza e di una risolutezza uguali alla
potenza dominatrice»[328]. E allora giudica le sue
genti (il «vario volgo»), che sono ignobili, capaci solo di sentimenti vili, e
non si accorgono di vivere cercando sì l’utile (in accordo con la cultura
contemporanea)[329], ma disprezzando (poiché
non lo comprendono) il pensiero più
nobile di tutti: l’amore, ai cui bei concetti sembrano estranei. Certo qui il
tema è ben diverso, poiché si tratta della «trascrizione di un grande, adulto
amore»124 –
quell’amore che invadeva l’animo «ardentissimo» di Giacomo e
tuttavia non corrisposto da Fanny. Eppure, proprio per questo «l’adattarsi a
una situazione moralmente e sentimentalmente umiliante sarebbe consentaneo con
lo stato d’animo di rafforzata intransigenza morale, che il Pensiero dominante ci descrive»[330]: e con ciò, Leopardi si
sente un individuo più sensibilmente
maggiore sia rispetto al suo tempo, che alla moltitudine di anime codarde e
vuote, grazie a una «orgogliosa coscienza della propria superiorità, propria di
chi non ha soltanto sentito, ma giudicato secondo un saldo sistema di pensiero
la pochezza altrui»[331].
E come nel Bruto
minore la «prole infelice» era oggetto di «ludibrio e scherno» per gli
immortali abitatori dell’Olimpo, qui, nel Pensiero
dominante, il giudizio si ribalta, perché è Leopardi stesso – mortale
abitatore terreno – ad avere «a scherno» le ferme convinzioni ostentate da una
massa di uomini infelici che credono nel progresso dei lumi127. E a
ragione commenta Bosco quando afferma che tra questi versi e quelli del Bruto «non c’è sostanziale differenza di
timbro, anche in certo gladiatorismo un poco esteriore. Il fatto è che
l’orgoglio titanico è tanto più forte quanto più forte è la facoltà
d’illusione»[332]. E Leopardi, che negli
anni ’30 era immerso nella passione amorosa per Fanny, a differenza del suo
Bruto non giudica l’umanità in virtù di un odio disperato che lo erge
idealmente a incontrastato “signore di Roma”, bensì proprio guidato da quel
sentimento d’amore che lo irradia di nuova e fiera consapevolezza del suo
sentire, che gli fa vedere, per contrasto, la meschinità del sentimento comune.
Un’aura di forte spregio è evidente
anche – e soprattutto – nei versi finali di A
se stesso (in cui il poeta è solo, «disperato e sprezzante e bestemmiante
come Bruto»)129, che costituiscono una delle punte più alte e crude
mai scritte del recanatese:
Ormai disprezza
Te, la natura, il brutto
Poter che, ascoso, a comun danno
impera,
E l’infinita vanità del tutto[333].
Similmente a quanto accade a Bruto, ancora nel 1835 (data di
stesura del componimento), per Leopardi «il sentimento altissimo della propria
personalità […] giunge, per così dire, al massimo della sua eroica tensione,
risolvendosi in un atteggiamento di totale disprezzo verso ogni cosa e creatura
e illusione, e persino verso il proprio “cuore”»131. E se è vero che
«la veemenza dell’ingiuria è pari alla veemenza dell’amore»[334],
si spiega come questo atteggiamento (che è una condanna senza protesta) sia
palpabile già dai primi due versi del componimento («Or poserai per sempre, /
Stanco mio cor. Perì l’inganno estremo», vv. 1-2), in cui, nell’evanescenza
dell’ultimo inganno (che per Giacomo era l’amore, sia quello provato per
Fanny-Aspasia, sia quello stesso «Amor, di nostra vita ultimo inganno» della
canzone Ad Angelo Mai e che ritorna
in forma mitica e larvale nella Storia
del genere umano) si legge il medesimo testamento di Bruto che ripudia l’inganno
della virtù, perito «per sempre», ma che è qui ripetuto «meno
programmaticamente e fuori d’ogni amplificazione storica, […] in chiave
d’angoscia più intensa»[335]. In questi versi, il
recanatese invita il suo cuore stanco a dispregiare ogni nemico: sé stesso, la
natura, la legge arcana e nascosta che governa la natura stessa [336] , e l’«infinita
vanità» (cioè l’«inutile inconsistenza»)[337]
di ogni cosa. Ma, come già si è detto, Leopardi è ormai arrivato, a questo
punto, a uno stadio di maturata saggezza, virtuoso nella “pazienza”: Bruto non
sarebbe stato in grado, al posto suo, di disprezzare la vanità del tutto sostando immobile in una resa silenziosa, ma si è
fatto in un unico momento «accusatore feroce della divinità e del fato, e
l’infelice odiatore di se stesso»136.
2.2. L’ALTO
RISCHIO DELL’AMOR PROPRIO:
L’EGOISMO
Quando non si riesce a discernere il disprezzo della vita
dal disprezzo di sé, si rischia di confondere i due piani, incorrendo in gesti
che possono apparire incauti (come, nel caso più estremo, il suicidio). Ma il
suicidio di Bruto è tutt’altro che incauto, è anzi l’espressione ultima del suo
individualissimo pathos, che, sebbene
tempestoso, è guidato da un unico sentimento, più intenso di tutti: l’egoismo.
Bisogna distinguere tra egoismo e
amor proprio. Il primo non è che una specie del secondo. L’egoismo è quando
l’uomo ripone il suo amor proprio in non pensare che a se stesso, non operare
che per se stesso immediatamente, rigettando l’operare per altrui con
intenzione lontana e non ben distinta dall’operante, ma reale, saldissima e
continua, d’indirizzare quelle medesime operazioni a se stesso come ad ultimo
ed unico vero fine, il che l’amor proprio può ben fare, e fa. Ho detto altrove
che l’amor proprio è tanto maggiore nell’uomo quanto in esso è maggiore la vita
o la vitalità, e questa è tanto maggiore nell’uomo quanto maggiore è la forza e
l’attività dell’animo, e del corpo ancora. Ma questo, che è verissimo dell’amor
proprio, non è né si deve intendere egoismo. […] I fanciulli, i giovani, gli
uomini sensibili sono assai più teneri di se stessi che nol sono i loro
contrarii. Così generalmente furono gli antichi rispetto ai moderni, e i
selvaggi rispetto ai civili, perché più forti di corpo, più forti ed attivi e
vivaci d’animo e d’immaginazione (sì per le circostanze fisiche, sì per le
morali), meno disingannati, e insomma maggiormente e più intensamente viventi[338].
Alla base della sezione Trattato
delle passioni umane, «ricalcata per vie indirette su Rousseau, Leopardi
pone il concetto di amor proprio (forse
non sufficientemente distinto da quello di amore
di sé)»[339]. Il passo riportato,
risalente all’agosto 1823, è uno dei più noti scritti dal recanatese attorno al
tema dell’egoismo e dell’amor proprio, passioni centrali non solo nel
personaggio di Bruto ma soprattutto nella disamina delle passioni umane in
generale (poiché «ogni qualunque operazione dell’animo nostro ha sempre la
sua certa e inevitabile origine nell’egoismo»)[340]. Nel Bruto minore si ravvisa, tra l’altro, anche la differenza
evidenziata da Leopardi, in brani affini al precedente, riguardo la peculiarità
distintiva degli uomini, rispetto agli altri animali, di agire moralmente di
fronte agli eventi e alle sfide della natura, nonché di capacitarsi delle proprie passioni, a differenza di quelle
«fortunate belve» che, mosse dal mero istinto di autoconservazione, trascorrono
ogni giorno più vicine alla «tarda età» senza aver coscienza del naturale
decorso delle cose[341]. Infatti, «il patire, cioè
la capacità di subire una passione, è comune a tutte le creature: vegetali,
animali, uomini»; la discrepanza tra gli uni e gli altri sta appunto nella
consapevolezza (che è più forte negli uomini) «e quindi nella conoscenza del
proprio male o del male nel mondo»[342].
Secondo Leopardi, infatti, l’uomo è destinato a crescere a livello morale, ma
«questa capacità di crescere moralmente più di qualsiasi altro vivente non è un
dono della natura; è puramente un fatto accidentale, né previsto né voluto da
essa»[343]. Naturalmente, all’altezza
del 1821 Leopardi non ha ancora maturato un pensiero definitivo, si porta
dietro gli strascichi della delusione storica; e pertanto, questo primo stadio
della sua filosofia (da cui passa trasversalmente il Bruto minore) è quello in cui la condizione di infelicità e
insoddisfazione dell’uomo è vista come «un portato essenzialmente storico, e
nella quale le nozioni di male agìto e male subìto tendono a sovrapporsi e in
un certo senso a confondersi»: l’esempio di Bruto incarna, da un lato, il
momento leopardiano in cui «il male (allontanamento dalla natura, uso eccessivo
della ragione) è un prodotto dell’agire dell’uomo e di esso l’uomo subisce le conseguenze»[344]. Ma, dall’altro, come si
diceva già in precedenza, essendo il Bruto
un momento di passaggio in toto ecco
che in esso si contendono e la fase del “pessimismo
storico” e la fase del “pessimismo
cosmico”, poiché già Bruto, con la sua bestemmia e desiderio di vendetta
instilla il germe della rivolta contro l’indifferente Natura. A questo
proposito, non si può trascurare un breve ma esemplare passo dello Zibaldone, in cui è illustrato come «il
sentimento della vendetta è così grato che spesso si desidera d’essere ingiuriato
per potersi vendicare, e non dico già solamente da un nemico abituale, ma da un
indifferente, o anche (massime in certi momenti d’umor nero) da un amico»[345]. Così, quell’«indifferente»
verso cui si può nutrire un forte sentimento di vendetta è, nel caso di Bruto,
l’Olimpo (e, leopardianamente, la natura).
Dal Bruto
minore insomma iniziano a concretizzarsi una serie di riflessioni sui
sentimenti umani, sulla natura degli
uomini e delle cose che, partendo proprio dall’analisi delle passioni,
permettono di considerare il pensiero di Leopardi «come una lunga, ininterrotta
meditazione sull’enigma del male, da intendersi sia come male morale, cioè come colpa, peccato e simili, sia, e soprattutto,
come male subìto, ovvero come
sofferenza, infelicità, pena»[346].
Seguendo la terminologia proposta da
Marco Moneta, si potrebbe affermare che Bruto sperimenta sia un male morale, poiché si macchia della
colpa del suicidio, sia un male subìto,
poiché il suo rammarico – e, dunque, la sua infelicità – gli causa una tale
afflizione, un tale disgusto, che quasi pare travolto dalle passioni: cioè, le subisce. Come se il soggetto del
componimento non fosse tanto Bruto in sé, quanto le passioni di Bruto. La sua non è solo una sconfitta politica, ma,
sul piano personale, diventa una felicità negata: come espone Moneta, la
riflessione di Leopardi è sempre più segnata da un «compianto per la felicità negata […] dove con quest’espressione si
deve intendere, in modo assai prossimo all’antico significato di eudaimonìa, non tanto la mancata realizzazione
degli obiettivi dell’agire, quanto» – e ciò vale ugualmente per Bruto – «la non
riuscita della vita, la quale, anche
per Leopardi, non è un obiettivo dell’agire, ma il suo stesso principio o
condizione»[347]. Bruto non riesce a concludere la vita: la
recide troppo in fretta. E la sua diventa «la favola d’un fiore reciso dalla
ragione»[348].
Di fatto, l’egoismo di Bruto s’innerva
conseguentemente al sopraggiungere della ragione – causa per cui l’uomo
sperimenta una irrisolvibile infelicità –, quella ragione disvelatrice
dell’agro inganno della vita, nonché «vocazione che lo umilia e lo condanna nei
confronti d’ogni altro essere e della stessa materia vivente»[349]. Una volta che la ragione
ha provveduto a disingannarlo, mostrando il carattere illusorio degli antichi valori,
ecco che anche l’ideale eroico si trasforma «e si integra in quello dell’eroe
del vero: la verità diventa suprema dignità umana, virtù»[350].
Eppure Bruto è talmente pieno di sé, talmente sprezzante, che perde anche
l’ultima fiamma di dignità, o meglio sceglie
di perderla, e firma il suo testamento invocando una totale cancellazione
del suo ricordo dalla sfera dell’umano, attraverso una auto-umiliazione che
dissolva i suoi resti e il suo nome assieme alla polvere.
Ma come tutti gli uomini, anche Bruto certo
non agisce esclusivamente mosso dalla presenza di idee astratte, bensì, come
abbiamo detto, da passioni: è come una molla che scatta, e questa molla è,
appunto, l’amor proprio, che è «sottilissimo, e s’insinua da per tutto, e si
trova nascosto ne’ luoghi più reconditi del nostro cuore, e che paiono più impenetrabili
a questa passione»[351]:
Ma l’amor di se stesso è l’unica
possibile molla delle azioni e dei sentimenti umani, secondo ch’è applicato a
questo o quello scopo virtuoso o vizioso, grande o basso ec. Diminuita dunque,
e depressa, e ridotta a pochissimo (cioè a quanto meno è possibile mentre
l’uomo vive) l’elasticità e la forza di molla, l’uomo non è più capace né di
azioni, né di sentimenti vivi e forti ec. né verso se stesso, né verso gli
altri, giacché anche verso gli altri, anche ai sacrifizi ec. non lo può
spingere altra forza che l’amor proprio, in quella tal guisa applicato e
diretto. E così l’uomo ch’è divenuto per forza indifferente verso tutto, è
ridotto all’inazione fisica e morale. E l’indebolimento dell’amor proprio, in
quanto amor proprio e radicalmente, […] cioè il vero indebolimento di questo amore, è cagione dell’indebolimento
della virtù, dell’entusiasmo, dell’eroismo, della magnanimità, di tutto quello
che sembra a prima vista il
doloroso moto d’affetti, ma la favola amara d’un fiore
reciso dalla ragione e disseccato e conservato nella mente come un relitto
prezioso e raro, un’immagine di aridità e di morte suggestivamente dilatata dal
piano storico a sfondi cosmici e metafisici».
più nemico dell’amor proprio, il
più bisognoso del suo abbassamento per trionfare e manifestarsi, il più
contrario e danneggiato dalla forza dell’amor individuale151.
L’amor proprio, tuttavia, non è un sentimento fatto e finito
di per sé. A seconda della capacità
di assuefazione di ognuno (che è una sorta di malleabilità, di plasticità
dell’animo umano)152, infatti, esso può portare a due diversi esiti:
il primo è «la trasformazione dell’amor proprio in amor patrio, congiunta al
costituirsi della nazione, fondata sull’uguaglianza-libertà e sull’utilità
comune»[352], ovverosia l’eroismo (l’amor
proprio in quanto tale), che si
verifica quando l’assuefazione abituale si alimenta di verità e illusione, di
forza e passione, e riesce dunque a plasmare la natura trasformandola in
civiltà attraverso la creazione di opere sublimi (sono i valori della società
antica, ad esempio l’amor di patria, l’aspirazione al bello, eccetera). Ma se è
vero che ogni azione dell’uomo «è condizionata da emozioni, molte volte non
risolte, che impediscono di realizzare il consiglio degli antichi: conoscere se
stessi»[353], ecco che l’altro
risultato – il più infido – è, invece, «la trasformazione dell’amor proprio in
egoismo, congiunta alla società individualistica, priva di vero amor patrio, e
quindi di virtù»[354]. E questo risultato non è
altro che il troppo amor di sé, cioè «l’egoismo
imperante e l’odio verso i propri simili, passione nera sulla quale, secondo
Leopardi, è strutturata la società»[355]. Sull’importanza che un comportamento
egoistico assume nella costruzione di una buona società, Leopardi insiste a
lungo (e lo farà in maniera più ampia nel Discorso
sullo
151 Z 958,1,
in ivi, pp. 44-45: «Così il detto
indebolimento secca la vena della poesia, e dell’immaginazione, e l’uomo non
amando, se non poco, se stesso, non ama più la natura; non sentendo il proprio
affetto, non sente più la natura, né l’efficacia della bellezza ec. Una nebbia
grevissima d’indifferenza sorgente immediata d’inazione e insensibilità, si
spande su tutto l’animo suo, e su tutte le sue facoltà, da che egli è divenuto
indifferente, o poco sensibile verso quell’oggetto ch’è il solo capace d’interessarlo e di muoverlo moralmente o
fisicamente verso tutti gli altri oggetti in qualunque modo, dico se stesso
[19. Aprile. 1821]». 152 Secondo quanto scrive Leopardi in Z 208, «L’assuefazione
è una seconda natura, e s’introduce quasi insensibilmente, e porta o distrugge
delle qualità innumerabili, che acquistate o perdute, ci persuadiamo ben presto
di non potere avere, o di non poter non avere, e ascriviamo a leggi eterne e
immutabili, a sistema naturale, a Provvidenza ec. l’opera del caso e delle
circostanze accidentali e arbitrarie», in G. Leopardi, Tutte le opere, con introduzione e a cura di W. Binni, con la
collaborazione di E. Ghidetti, Firenze, Sansoni, 1969, vol. II, p. 95.
stato presente dei
costumi degl’Italiani); in particolare, in Z 669,1 è esposto un
ragionamento che ben può riflettere la scelta di Bruto a fronte di una società
in declino:
Quanto più si trova nell’individuo
il se stesso, tanto meno esiste
veramente la società. Così se l’egoismo è intero, la società non esiste se non
di nome. Perché ciascuno individuo non avendo per fine se non se medesimo, non
curando affatto il ben comune, e nessun pensiero o azione sua essendo diretta
al bene o piacere altrui, ciascuno individuo forma da se solo una società a
parte, ed intera, e perfettamente distinta, giacché è perfettamente distinto il
suo fine; e così il mondo torna qual era da principio, e innanzi all’origine
della società, la quale resta sciolta quanto al fatto e alla sostanza, e quanto
alla ragione ed essenza sua[356].
Tuttavia, la società può funzionare solo grazie a un
atteggiamento scambievole, di cooperazione, in cui ogni uomo fa conto
dell’altro, considerandolo come necessario alla propria felicità: se ognuno
pensasse unicamente a sé stesso, si ricadrebbe in uno stato primordiale. E così
si legge nella Ginestra, «ultima
incarnazione dell’ideale eroico leopardiano, identificato ormai con tutta
l’umanità»[357]:
E
quell'orror che primo Contro l'empia natura
Strinse i mortali in social catena,
Fia ricondotto in parte
Da verace saper, l'onesto e il
retto
Conversar cittadino,
E giustizia e pietade, altra radice
Avranno allor che non superbe fole,
Ove fondata probità del volgo
Così star suole in piede
Quale star può quel ch'ha in error
la sede[358].
L’argomentazione racchiusa in questi versi pare essere una
ripresa del passo zibaldoniano citato sopra: a nulla valgono le «favole
tracotanti (che raccontano cioè di una inesistente superiorità o centralità
dell’uomo)»[359] a reggere una società –
poiché la reggerebbero al pari di una qualsiasi teoria fondata su errore –;
sono invece i giusti e onesti rapporti sociali
ad aver radici ben più salde, atti a
condurre le masse a un educato percorso morale. Come commenta Luporini, in
questo caso «il vero e la ragione non sono più nemici dell’uomo e della sua
felicità, ma hanno nell’umanità funzione liberatrice (nulla al ver detraendo) dalle “superbe fole”» che ingannano l’uomo[360].
Ma l’eroismo era il sentimento tipico
degli antichi, magnanimi e virtuosi. E Bruto, che sta sul limine tra antico e
moderno, si nutre voracemente di questa nera passione dell’egoismo, proprio
perché non è stato in grado di accettare il disincanto e la disillusione, non
ha seguito alcun principio di utilitas
o di altruismo: così operando, «l’Egoismo
diviene la negazione dei fini comuni che connotano il viver civile»[361], e stende il tappeto rosso
all’arrivo della barbarie («A spezzar le romane inclite mura / chiama i gotici
brandi», Bruto minore, vv. 8-9). Non solo: l’egoismo è un vero
e proprio vizio, «la sigla abbietta dell’uomo contemporaneo»[362], che per la troppa ragione
spegne la facoltà immaginativa e trascina l’uomo nella discoperta dell’arido vero, così che arriva a odiare la
vita pubblica, senza pensare ad altro se non al suo tornaconto personale:
La cagione di questo è che l’odio è
passione […]. Sentite i filosofi. Bisogna fare che l’uomo si muova per la
ragione, come, anzi piú assai che per la passione, anzi si muova per la sola
ragione e dovere. Bubbole. La natura degli uomini e delle cose può ben esser
corrotta, ma non corretta. E se lasciassimo fare alla natura, le cose
andrebbero benissimo, non ostante la detta superiorità della passione sulla
ragione. Non bisogna estinguer la passione colla ragione, ma convertir la
ragione in passione; fare che il dovere, la virtú, l’eroismo ec. diventino
passioni. Tali sono per natura. Tali erano presso gli antichi, e le cose
andavano molto meglio. Ma, quando la sola passione del mondo è l’egoismo,
allora si ha ben ragione di gridar contro la passione. Ma come spegner
l’egoismo colla ragione che n’é la nutrice, dissipando le illusioni? E senza
ciò, l’uomo privo di passioni non si muoverebbe per loro, ma neanche per la
ragione, perché le cose son fatte cosí e non si possono cambiare; ché la
ragione non è forza viva né motrice, e l’uomo non farà altro che
divenirne indolente, inattivo,
immobile, indifferente, infingardo, com’é divenuto in grandissima parte[363].
Dal momento che la virtù di Bruto non è più una virtù
pubblica, ma prettamente egocentrata, solipsistica, e «stolta», destinata a
svanire con l’abiura, ne deriva che il più alto rischio derivante dall’egoismo
è questo: che essendo un sentimento «inseparabile dall’uomo», si espanda
universalmente nel cuore corrotto di tutti
gli uomini, portando così a una totale perdita della virtù quale valore a
fondamento della società:
L’egoismo è sempre stata la peste
della società e quanto è stato maggiore, tanto peggiore è stata la condizione
della società; e quindi tanto peggiori essenzialmente quelle istituzioni che
maggiormente lo favoriscono o direttamente o indirettamente, come fa soprattutto
il dispotismo […]. L’egoismo è
inseparabile dall’uomo, cioè l’amor proprio; ma per egoismo s’intende più propriamente un amor proprio mal diretto,
male impiegato, rivolto ai propri vantaggi reali, e non a quelli che derivano
dall’eroismo, dai sacrifizi, dalle virtù, dall’onore, dall’amicizia ec.
Quando dunque questo egoismo è giunto al colmo, per intensità e per
universalità, e quando, a motivo e dell’intensità e massime dell’universalità,
si è levata la maschera […], allora la natura del commercio sociale […] cangia
quasi intieramente. Perché ciascuno
pensando per se (tanto per sua propria inclinazione, quanto perché nessun
altro vi pensa più, e perché il bene di ciascheduno è confidato a lui solo), si
superano tutti i riguardi, l’uno toglie la preda dalla bocca e dalle unghie
dell’altro; gl’individui di quella che si
chiama società sono ciascheduno in guerra più o meno aperta con ciascun altro e
con tutti insieme; il più forte sotto qualunque riguardo, la vince; il
cedere agli altri qualsivoglia cosa o per creanza o per virtù, onore ec., è
inutile, dannoso e pazzo, perché gli altri non ti son grati, non ti rendono
nulla, e di quanto tu cedi loro o di quella minore resistenza che opponi loro,
profittano in loro vantaggio solamente e quindi in danno tuo[364].
Secondo Leopardi, dire che l’egoismo è «inseparabile
dall’uomo» implica che questo coincide con lo stato in assoluto più primordiale
dell’uomo, ovvero lo stato naturale inteso come anteriore alla nascita della
società e che anzi mette in mostra il carattere antisociale degli esseri umani.
Prendendo in prestito le parole di Luporini, si può affermare che «lo stato naturale è qui inteso, alla
maniera di Hobbes, come egoismo assoluto e originario, ma proprio per questo
come stato pre-sociale, come stato che anzi denunzierebbe la
fondamentale asocialità o antisocialità dell’uomo»[365]. Dire che nella società
moderna sia ormai imperante l’egoismo individuale non significa considerarla
come coincidente con lo stato naturale, bensì con uno stato di barbarie poiché in essa vige la
corruzione, ossia il decadimento delle vere
e antiche virtù che stavano alla base della società. È in questo aspetto che
Bruto si avvicina spaventosamente al moderno: perché, rimpiangendo la virtù
caduta e scagliandosi contro una società futura che non vuole veder rifiorire,
si comporta quale barbaro egoista che, togliendosi la vita, mette da parte
qualsiasi pensiero rivolto verso l’altro,
rinnegando le fondamenta del vivere comune.
Volendo riprendere le espressioni dello
stesso Leopardi, l’egoismo è, più che un “risultato”, «una patologia, un indebolimento della vitalità e forza del
carattere»[366] che, nella sua portata
individuale, tende a distruggere la società. Dunque egoismo e altruismo non
sono che due differenti assuefazioni dell’amor
proprio, la prima tipica del vizio, la seconda della virtù, e dipendono dalla capacità
dell’uomo a operare in società sulla base delle proprie inclinazioni emotive e
volitive, poiché è «nell’ambito del processo (non meramente adattivo)
dell’assuefazione, che si svolge la dinamica degli affetti»[367].
A proposito di
eroismo, si è detto già che Bruto non è un eroe nel senso classico e
tradizionale della parola, bensì lo è solo da un particolare punto di vista – il suo –, poiché, come evidenziato
anche da Marcazzan, «l’eroismo del Bruto ha per oggetto se stesso,
un’affermazione che misura la sua altezza non dall’urto con una società inerte
e restia, ma coll’implacabilità di una legge irremovibile e colla marmorea
indifferenza dei
numi»[368]. E assieme ai numi, odia
sé stesso. Bruto, insomma, è il perfetto esempio di colui che, secondo
Leopardi, diventa eroico nel vizio:
Quel giovane che fu d’animo eroico
nella virtù, come sogliono essere tutti quelli che nascono con grande e forte
immaginazione e sentimento, se per forza dell’esperienza, delle sventure, degli
esempi, disingannato dalla virtù arriva a lasciarla, diviene eroico nel vizio e
capace di molto maggiori errori che non sono gli altri ec. Non già per una
continuazione di entusiasmo applicato al male, ma per un eccesso di freddezza
che è sempre compagna della malvagità. Egli diviene un eroe di freddezza tanto
più intrepido, duro, ghiacciato, quanto era stato più fervido […]. In tutte le
cose gli eccessi si toccano assai più fra loro che col loro mezzo, e l’uomo
eccessivo in qualunque cosa è molto più inclinato e proclive all’eccesso
contrario che al mezzo. Ed è molto più facile, conseguente e naturale, per la forza e la qualità di un’indole eccessiva, il saltare dall’uno
all’opposto estremo che il recarsi e fermarsi nel mezzo ec. ec[369].
Bruto infatti rimpiange sì la virtù (e come Aretofilo
Metanoeto del Galantuomo e Mondo è un
vero penitente della virtù), ma in preda a uno stato d’animo atrabiliare
gremito d’odio piomba immancabilmente nel vizio dell’egoismo, e si spinge al
suicidio. Il quale, è un atto di profondo egoismo – anzi l’atto più immorale e
contronatura che possa esser concepito dalla mente umana, secondo quelle che
saranno le successive e maturate idee leopardiane[370]
– perché chi lo compie lo fa per soddisfare il più vile interesse personale,
senza contemplare le conseguenze che la sua
morte porterà alla società. E Bruto, rimuginando esclusivamente sulla
sconfitta, medita il suicidio perché i suoi sentimenti scaturiscono dal suo
animo afflitto (e corrotto dall’antica idea che virtù e amor di patria potessero
risanare le crepe lasciate da un governo dispotico). E a seguito di una tale
confusione emotiva, e di un gesto così gravoso, sembrerebbe quasi che le ultime
parole del suicida di Filippi rispecchino un atteggiamento al limite del
nichilismo[371]. Ma il nichilismo
leopardiano maturo (che non è più ravvisabile nel contesto del Bruto minore), piuttosto, punta il dito
contro una natura indifferente a qualsiasi azione umana e non, e questa
indifferenza, questa ostilità, è un gigantesco niente. La natura, cioè, non ha
riguardi, e non può,
per sua stessa sostanza, provare pietà per le sciagure che naturalmente causano l’infelicità dell’uomo.
Ad ogni modo, come
accennato a inizio capitolo, la condizione spirituale di Bruto è, come quella
di Leopardi nel ‘21, complessa, a metà tra l’eccessivamente sentimentale e il
prematuramente filosofico, e si potrebbe addirittura definirla «un ingorgo
sentimentale, un vano desiderio e una disperazione così condensata e violenta,
così estrema, da riversarsi nella sfera del pensiero e determinarne i concetti
e i giudizi»[372]. E se da una parte
Leopardi giunge alla condanna del cristianesimo, Bruto nella sua personalissima
preghiera infrange le leggi dell’Olimpo, così che «tutto nella cupa canzone,
nel canto dell’eroe solo, suicida e protestatario (e d’altronde alfierianamente
“molle di fraterno sangue”) contribuisce a questa bestemmia indignata e senza
mezzi termini»[373]. Il prode valoroso, nella
sua beffarda rivolta contro gli dèi, oppone a quella spietata legge che
condanna l’uomo all’infelicità il suo maligno sorriso, «la sua voluttà di annientamento
totale (fuori di ogni foscoliana religione del sepolcro e della memoria), la
sua fremente e gridata bestemmia»[374].
2.3. IL
TITANISMO DI BRUTO NEL RINNEGAMENTO DELL’OLIMPO
Dopo aver mostrato la sua
predilezione verso gli eroi, e in particolare verso gli eroi tragici classici,
nel Leopardi del ’21 è presente quello che Bosco definisce il «secondo momento del
titanismo leopardiano»[375], che vede proprio nella
canzone del Bruto il suo punto di massima
espressione, mentre prende le mosse dall’iniziale connotazione alfieriana. Infatti,
il Bruto che replica alla tiranna destra
del fato non è più l’eroe che si trova solo a combattere contro un’umanità che
non vede la via d’uscita dal governo dispotico: ma è «la solitudine interna
dell’uomo che non vede alcuna mèta, e quella già perseguita
riconosce come un’illusione; la solitudine, appunto, di chi
si accorge di aver combattuto per una parola, non per una cosa salda»[376]: «e la tiranna / tua
destra, allor che vincitrice il grava, / indomito scrollando si pompeggia» (vv.
40-41).
Come Leopardi, anche
Bruto, meditando sulla presente sconfitta (che è tanto lontana dal futuro che
avrebbe voluto riservare a Roma) «si pone come accusatore del cielo e del
mondo, cioè della storia: conosce il cammino della storia, ma non ne prende
atto, non l’accetta»[377], e il volto più potente e
intimo del suo titanismo sta nel suo porsi superiore agli dèi, sbeffeggiandoli
e sorridendo malizioso mentre s’infligge il colpo mortale. Nel Bruto coesistono dunque l’accusa alla
virtù e l’accusa agli dèi e al fato: questo fa sì che «la figura storica di
Bruto seguace della dottrina stoica ceda alla presenza dell’io poetico che in
lui si proietta»[378], così che in lui possa
fondersi, in maniera inscindibile, la sensibilità viva di Giacomo: contro ogni
residuo di stoicismo, Bruto diventa a sua volta tiranno dei suoi celesti
padroni, e così colpisce la legge fraudolenta che governa il divenire della storia
accusando gli dèi vili di empietà, nel momento in cui questa nega agli uomini
la liberazione attraverso il suicidio:
A voi,
marmorei numi,
(Se numi avete in Flegetonte
albergo
O su le nubi) a voi ludibrio e
scherno
È la prole infelice
A cui templi chiedeste, e
frodolenta Legge al mortale insulta.
Dunque tanto i celesti odii
commove
La terrena pietà? dunque degli empi
Siedi, Giove, a tutela? e quando
esulta
Per l’aere il nembo, e quando
Il tuon rapido spingi,
Ne’ giusti e pii la sacra fiamma
stringi?[379]
Se, come si è detto, con la sua protesta Bruto decide di
fare del suicidio un atto simbolico, «ergendosi titanicamente contro gli dèi
che hanno oltraggiato la virtus e la pietas, in quanto hanno decretato la
fine di un mondo giovane ed eroico che, nutrito ancora della “immaginazione” (e
quindi della poesia), riponeva fiducia nel divino e lo onorava con i
templi»181, ne deriva che in queste domande
retoriche di Bruto si innerva il germe di una prematura accusa alla natura
matrigna e indifferente, che, agli occhi del recanatese, si prende gioco degli
uomini trasformando le loro sventure in oggetto di sollazzo:
Spiace agli Dei chi violento
irrompe
Nel Tartaro. Non fora
Tanto valor ne’ molli eterni petti.
Forse i travagli nostri, e forse il
cielo
I casi acerbi e gl’infelici affetti
Giocondo agli ozi suoi spettacol
pose?[380]
Il divieto di uccidersi, insito in qualunque religione (a
partire, per Leopardi, da quella cristiana, e per Bruto da quella pagana) era
stato puntualmente riservato da Giove in esclusiva ai figli di Prometeo: ma
Bruto ha deliberato di infrangerlo, e nel suo atteggiamento di titanica
renitenza al fato sfida gli dèi esternando il suo disprezzo anche nei confronti
di eventuali posteri che avrebbero potuto tributargli riconoscimenti di gloria,
così che «l’insulto blasfemo dell’eroe suicida assume nel finale una dimensione
cosmica»[381].
Ciò che invece, nel Bruto, non poteva del tutto delinearsi
(poiché la filosofia di Leopardi era, nel ’21, ancora relativamente acerba) era
un «alto concetto d’uomo»[382] – per usare le parole di
Ghan Singh –, un «uomo che si distingue dagli altri appunto per merito delle
sue qualità morali e personali nonché in virtù di una maggior consapevolezza e
più intima cognizione del mal di vivere che “ci fu dato in sorte”»185.
Certo dal Bruto
181 L. Felici,
L’Olimpo abbandonato. Leopardi tra
«favole antiche» e «disperati affetti», Venezia, Marsilio, 2005, p. 28.
minore trapela un
greve senso di oppressione che il cesaricida sperimenta di fronte all’inesorabilità
degli eventi (nel suo caso, storici), il che lo porta ad assumere un
atteggiamento di altissimo titanismo. Ma, superata questa fase di renitenza al
fato, in cui il suicidio è giustificato se questo significa rifiuto di vivere
secondo inganno – ciecamente prostrandosi all’autorità del Wille che causa dolore e insoddisfazione permanenti186 –
Leopardi maturo arriverà a comprendere che «più l’uomo si sente schiacciato o
minacciato, dalla natura o dal “brutto poter ascoso”, più egli si dimostra
capace decisamente di sopportare l’insopportabile», e, spiega Singh, «quasi di
diventare superiore a se stesso nonché a chi lo minaccia e lo sfida»187.
per così dire il tipo della verità, è indifferente per
l’uomo. la sua felicità può consistere nella cognizione e giudizio vero o
falso. Il necessario è che questo giudizio,
convenga veramente alla sua natura”
(Z 381)». 186 Cfr. commento introduttivo di A. Campana per A se stesso, in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di A.
Campana, p. 401: «A partire da ASS si
svolge perciò, nei canti finali del liber,
un’ulteriore tranche del pensiero
leopardiano, che apparenta in modo a dir poco sorprendente […] L. ad Arthur
Schopenhauer, il quale, nella sua opera, fa riferimento all’italiano […]. In
maniera non dissimile da L., Schopenhauer, nel Mondo come volontà e rappresentazione (Iª ed. dic. 1818), afferma
che il solo modo per l’uomo di affrancarsi dal Wille (Volontà), ossia dalla incausata azione di controllo della
Natura sui viventi, creati e fatti accoppiare tramite l’amore (un sentimento
che, legato ai sensi, non è che una manifestazione particolare e strumentale di
tale Wille) allo scopo di far
continuare l’esistenza della macchina universale, è autoimporsi la Noluntas, il rifiuto, il ribaltamento di
tutto ciò verso cui la Natura sprona col Wille:
dunque a) l’abbandono dell’inganno
fenomenico, per quanto “dolce”, e la presa di coscienza assoluta del Wille, ossia della cosa-in-sé, della
verità noumenica del naturale (nell’ultimo L.: ASS, le due sepolcrali, Pal,
TDL, G); b) il rifiuto del
suicidio (che L. ha già affermato nel Plotino-Porfirio),
c) l’ascesi, ossia l’estirpazione del
proprio desiderio di esistere, di godere, di volere (cfr. a tal proposito gli
interi ASS e Asp); d) l’etica della
pietà universale, esito di un amore disinteressato, puro, perciò svincolato
dalla Natura (chiaramente, in L., nella “tappa” della G). Vi è quindi una coerenza filosofica molto profonda nei Canti che vanno dal XXVIII al XXXIV, i quali
cercano risposte operative alla bassezza della condizione umana, cercano vie di
liberazione per l’uomo dalla tirannia della natura, insomma un autenticamente
fondato illuminismo». 187 Entrambe le citazioni sono prese da G.
Singh, op. cit., p. 73.
2.4. LA
FINE DEGLI EROI: UN SUICIDIO ANTICO
Di te, in
te stessa, l'attività assoluta
Era una
lotta contro la natura
Che è
dimessa al vento
Succube
alla furia
Ma tu non
soccombevi
Eri
impennata
Sulla tua
forma finita e creata[383]
Quando Bruto scopre che la sconfitta di Filippi comporta la
perdita della virtù, è la sua stessa vita a non avere senso, perché l’illusione
perduta (la virtù eroica) era la più importante nell’immaginario classico.
L’odio di Bruto è riversato su molteplici cause che lo infiammano: la
sconfitta, il cielo, gli uomini, ma soprattutto: sé stesso – e l’odio verso se
stesso diviene allora la causa della violenza che si scatena in una forma
autodistruttiva che dall’abiura giunge fino al suicidio (atto nemmeno troppo
estremo nella concezione di Bruto, dal momento che «anticamente gli uomini si
uccidevano per eroismo per illusioni per passioni violente ec. e le loro morti
erano illustri»)[384]. E Leopardi, in quel
periodo, ha una precisa opinione attorno al suicidio: laddove i moderni si
violentano per puro tedio e astio verso la vita, per gli antichi «il loro
stesso suicidio era a suo modo una manifestazione dell’amor vitae»[385]. Nel momento in cui
Leopardi tende a trasporre in poesia ciò che il suo pensiero filosofico andava
man mano costruendo, per esprimere la sua idea riguardo a un tema così delicato
dovette prendere in prestito la figura di Bruto per poter trasporre la sua voce
presente in un corpo antico. Tornano utili le parole di De Sanctis:
Giunge a Bruto a traverso le sue
idee fisse e se le tira appresso anche nel mondo di concepirle e di svolgerle.
La vanità della vita, ch’è la sua idea fissa, non balza innanzi a Bruto, come
una rivelazione, una verità immediata e in quel modo concitato che sogliono tenere
gl’infelici, no. Vuol ragionare e dimostrare. Ragionando a quel modo, l’uomo dimostra
la legittimità del suicidio, ma non si uccide più. Bruto è così disposto a
ragionare, che può sino distinguere
varie specie della natura, le stelle, gli uccelli, le fiere e riassumere
ordinatamente il discorso[386].
Nel momento in cui Bruto arriva a dispregiarsi
completamente, in questo disprezzo fa in modo di accelerare la sua corsa alla
fine (non) naturale delle cose: il suo è un suicidio «non stoico, benvoluto e
quasi protetto dagli dèi, se ispirato da elevati motivi morali e politici, come
quello esemplare di Catone, ma suicidio ostacolato come atto superbo ed empio,
non rispettante il momento assegnato dalla sorte di ciascuno»[387].
Non solo: c’è un
motivo ben più profondo che si staglia nella filosofia del Bruto minore, ed è, se vogliamo, un motivo etico. Come
accuratamente espone Marcazzan,
Riconosciuta l’infelicità non solo
come attributo dell’essere ma come ragione e principio del male, il tema del
suicidio si pone non più come larva vagheggiata da una sensibilità inquieta o
come impegno di coerenza coll’atteggiamento di una mente compenetratasi dalla
vanità e dell’inutilità delle cose, ma come momento di responsabilità morale;
non più tentazione, o rinuncia, o cieca fatalità, ma scelta consapevole e
liberazione dalla schiavitù di una legge che inesorabilmente deteriora ogni
essere e ogni cosa vivente[388].
Dunque, per comprendere l’eticità del gesto di Bruto (relativamente
alla visione soggettiva di Leopardi) è necessario immedesimarsi in quella forte
tentazione che il cesaricida provava nel voler infrangere la legge del cielo e
sovvertire l’ordine morale (e naturale, e storico) delle cose fino a quel
momento conosciuto, che ora gli si riversava addosso come misura della sua
fragilità di essere umano[389].
Prima ancora di
concludere la vita, ormai ritenuta inutile, Bruto opta per un solipsistico
isolamento[390] che lo differenzia dal
comune comportamento di quegli uomini
che, in punto di morte, rivolgono una speranzosa preghiera
ai «sordi Regi» celesti o infernali. Ma quando decide di morire, tutto in lui è
già spento («Ben sento / in noi di cari inganni, / non che la speme, il
desiderio è spento», A se stesso, vv.
5-7), perché il suo suicidio come atto ribelle è compiuto «con accento di
sfida, come volesse dire: – Che potete più farmi? –»196. Nella sua
disperazione, che non è più solo il grido isolato di un penitente della virtù,
ma il coro di voci spezzate dell’intero genere umano in lotta contro il fato,
Leopardi si identifica con lui: e questa identificazione si completa in maniera
ancor più drammatica nell’Ultimo canto di
Saffo[391], «ove la coscienza del
proprio merito e della propria grandezza da parte di Saffo va di pari passo con
la cognizione del proprio dolore e dell’infelicità»[392],
due forme di consapevolezza in cui lo stesso Leopardi si riconosce. C’è un
principale elemento di comunanza col Bruto
che occorre mettere in risalto prima di tutto: posto che il recanatese avesse
tratto l’ispirazione poetica per la Saffo
dalla Corinne di Madame de Staël[393], fa notare Lucio Felici
che l’autrice «ha costruito il suo personaggio sovrapponendo costumi e
filosofia moderni a un carattere vicino a quello degli antichi: e ciò rientra
nel progetto del “parere antichi che pensassero alla moderna”, cui appartengono
sia il Bruto minore che la Saffo»[394].
Quali che siano le fonti, comunque, come per il Bruto minore anche per l’Ultimo
canto di Saffo i veri precedenti tematici sono da ricercare nell’esperienza
personale di Leopardi.
disprezzo assumeva le proporzioni di una catastrofe
cosmica. Si sentiva abietto; e così penetrato di abiezione, da diventare
incapace di amare e di scrivere», in P. Citati, op. cit., p. 44.
196 F. De
Sanctis, op. cit., p. 186: «Il suo
suicidio è un atto di ribellione alla natura, compiuto con coscienza di ribelle
e con accento di sfida, come volesse dire: – Che potete più farmi? – Nel punto
di morire tutto è già morto in lui, ogni credenza alla virtù, alla gloria,
all’umanità, alla divinità, alla natura».
E come lui, il suicida di Filippi, prima
ancora che la poetessa greca, così mosso da una affaticata interiorità degli
affetti tenta di «conciliare in un’immagine esterna di sé le istanze della
passione e i fantasmi della ragione, di dar voce e vita e movimento alla
concentrata fissità della mente e a una sofferenza fattasi via via più
silenziosa e più chiusa»[395]. E silenziosa e chiusa è
appunto la sua iconica morte (non vista né udita da nessuno), proprio per
questo spesso affiancata a quella – ancor più silenziosa – di Saffo, che si
getta dalla rupe di Leucade a seguito della disperazione d’amore[396]:
Sottentra il morbo, e la
vecchiezza, e l’ombra
Della gelida morte. Ecco di tante
Sperate palme e dilettosi errori,
Il Tartaro m’avanza; e il prode
ingegno
Han la tenaria Diva
E l’atra notte, e la silente riva[397].
Diversamente dal Bruto, qui non c’è nemmeno la minima
descrizione del suicidio, ma dai versi riportati emerge subito che «l’atra
notte» evocata nel finale ricalca lo sfondo della canzone gemella («Bruto per
l’atra notte in erma sede», v. 11), e in generale le espressioni più cupe che
suggeriscono oscurità e mistero rendono l’atmosfera densa di solitudine, al pari
della deserta piana di Filippi[398]. Tuttavia, la notte
contemplata da Saffo nell’incipit del
canto è una «placida notte» illuminata dal «verecondo raggio / della cadente
luna»
(vv. 1-2): uno scenario certamente più sereno e
tranquillizzante di quello macabro del Bruto205.
Come osservato dalla critica, «il furore
sacrilego di Bruto diventa elegia accorata, interrogazione sbigottita e
angosciosa, nell’Ultimo canto di Saffo»[399], ma laddove il primo
bestemmia, la seconda si lascia accogliere dalla riva «silente» già conscia di
essere vinta, così che proviamo per lei una pietà
che viceversa non possiamo sentire per Bruto[400]. Una delle
principali differenze tra i due sta nella motivazione che li spinge al
suicidio: se per Bruto è un atto di protesta e di riconquista della propria
dignità (pur nel momento in cui, negandosi la possibilità di vivere, la perde),
per Saffo è invece tutto l’opposto, è una quieta rassegnazione, perché dei
tanti beni non le rimane che il Tartaro – e cioè un male, un errore (e vi è in
questo verso una componente d’ironia)[401].
Valga a confronto questo breve brano dello Zibaldone:
Non vale dire che i piaceri, i
beni, la felicità di questo mondo, sono tutti inganni. Che resta levati via
questi inganni? E chi per le sue sventure manca di questi benché ingannosi
piaceri e beni, che altro gode o spera quaggiù? In somma l’infelice è veramente
e positivamente infelice; quando anche il suo male non consista che in assenza
di beni;
205 Ivi, p. 838: «L’opposizione Bruto-Saffo
si riflette anche sul piano paesistico, nella diversità tra la notte di Bruto,
inquieta di ombre funeste, e la “placida notte” di Saffo, illuminata dal raggio
“verecondo” della luna al tramonto nell’ora trascolorante che precede il
mattino». Cfr. anche note di A. Campana in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di A. Campana, cit., p. 197: «Si
noti come L. costruisca ad arte un paesaggio del tutto indifferente ai mali di
Saffo: la notte è Placida; il raggio
della luna verecondo (bianco, ma
anche – come accennato – “incolpevole”, “puro”, rispetto al fallo, al nefando eccesso di cui è macchiata Saffo anzi il natale); la selva
è tacita».
laddove è pur troppo vero che non
si dà vera né soda felicità, e che l’uomo felice, non è veramente tale[402].
Inutile, a questo punto, ribadire la comunanza della Saffo col Bruto minore, specialmente nella misura in cui i protagonisti delle
due canzoni si pongono come alter ego
del poeta: l’uno poiché penitente della virtù, l’altra poiché sensibilissima ma
non conforme agli ideali estetici del suo tempo[403].
Il primo accenno alla dissociazione tra bellezza e virtù si trova, nel
Leopardi, nella già citata lettera al Giordani del 26 aprile 1819[404], in cui «la constatazione
di un divorzio tra bellezza e virtù si accompagna a un tentativo di abiura
della stessa virtù» (e con un Leopardi che bestemmia come Bruto moribondo!),
«fondendo così in un solo nodo di disinganno esistenziale i due temi (dissociazione
fortuna/virtù, dissociazione bellezza/virtù)»[405]
che formano il dittico di canzoni intitolate a due iconiche personalità
antiche.
Le due figure dunque non intendono
evocare un mito, ma «incarnano invece due celebri suicidi dell’antichità – fra
storia e leggenda – a diretto e drammatico confronto con le divinità supreme,
ritenute responsabili delle loro disgrazie»213, ponendosi, a loro
modo, come “eroi”, entrambi tagliati fuori dal sistema della natura. Come
osservato da Blasucci, le voci di Bruto e Saffo, nel loro essere complementari,
non definiscono solo una parabola unitaria attorno al delicato tema del
suicidio nella compagine dei Canti,
ma sono soprattutto lo spettro ancestrale della viva personalità leopardiana,
sia sul piano storico sia su quello speculativo-sensitivo: dunque, se «la
denuncia di Bruto si svolge in un ambito essenzialmente etico-storico […]; la
denuncia di Saffo si svolge in un ambito atemporale ed esistenziale»214,
poiché il suo dramma, ancorché antico, parte dalla sua situazione particolare
per poi riflettere la condizione umana in generale. E, in questo senso, il suo
suicidio è significativo, esemplare e allegorico tanto quanto quello di Bruto,
nella misura in cui la loro
prospettiva di infelicità si allarga all’universalità di tutti gli uomini, antichi o moderni che siano.
Perciò, se l’abiura di Bruto riflette la
delusione storica di Leopardi giovane, «il lamento di Saffo corrisponde alle
domande che Leopardi si pone su un piano gnoseologico ed etico»215,
e la sua sensazione di esclusione dal sistema della natura, dell’ordine e della
bellezza è la trasposizione poetica non solo del suo pensiero nel periodo ’21-’22,
ma del suo stesso patire, poiché, come già notava il De Sanctis, «nella favola
della Saffo dovette sentire tutto se stesso»[406].
E non a caso la lirica leopardiana degli anni ’20-’22 è «il movimento di uno
spiazzamento globale» che rispecchia tutta la sua crisi interiore, una crisi però che «non è drammatica, è bonaccia.
Umida, pesante, avvolgente, paralizzante»[407],
come una lenta e logorante attesa (sono quelli, infatti, gli anni in cui si
acuisce la deformazione fisica di Leopardi – tanto che, a quanto riporta
Citati, già nel 1819 è lo stesso Giacomo a definirsi «deforme» – causata dal
progredire delle malattie che innescano in lui un sempre più riprovevole
disgusto della sua figura. Ed è questo, allora, il suo elemento di vicinanza
alla poetessa greca: la bruttezza della forma, ossia l’estetica esteriore
ingiustamente sproporzionata a quella interiore, mista agli amori assaporati da
lontano)[408]. Infatti,
come espone Leopardi stesso, il canto «intende di rappresentare la infelicità
di un animo delicato, tenero, sensitivo, nobile e caldo, posto in
215 F.
Cacciapuoti, op. cit., p. 123:
«Difatti, se nel pensiero leopardiano permane la visione di un sistema naturale
equilibrato e volto essenzialmente al bene di tutte le parti che lo compongono,
uomo compreso, il primo elemento che caratterizza il dolore di Saffo è appunto
l’essere considerata fuori da questo sistema».
un corpo brutto e giovane»[409].
Un ritratto infelice, miserevole (eppure perfetto) del «giovane favoloso»[410], che si completa con le
eleganti parole di Ranieri:
Questi fu di statura mediocre,
chinata ed esile, di colore bianco che volgeva al pallido, di testa grossa, di
fronte quadra e larga, d’occhi cilestri e languidi, di naso proffilato, di
lineamenti delicatissimi, di pronunziazione modesta e alquanto fioca, e d’un
sorriso ineffabile e quasi celeste[411].
Dunque, quale doppio di Leopardi, anche Saffo avverte un
senso di emarginazione, «si vede come alterità rispetto a un mondo naturale»[412], e in questa esclusione ha
origine la causa prima di un dolore (sia fisico che morale) che la induce col
suo auto-compianto ad abbandonarsi al molle spettacolo suicida, dopo aver a
lungo meditato su una probabile colpa e rimpianto un fato meno ingiusto,
esprimendo in questo modo la violenza di una tale afflizione[413]. Come per Bruto, anche per
la poetessa greca Leopardi ha saputo cogliere il personaggio «a catastrofe
compiuta, nell’atto che l’amore non è in naufragio, ma è naufragato e da un
pezzo»[414], e assieme all’amore/virtù
si assottiglia, fino a venir meno, ogni illusione dell’età giovane, ogni
minuscolo barlume di desiderio e ogni ormai vago accenno di fiducia nella
natura.
Nonostante Leopardi abbia preso spunto,
anche in questo caso, da una fonte classica, il dramma della sua Saffo non è
tanto la sofferenza provocata da una passione erotica mai corrisposta da Faone;
non c’è, nel componimento, alcun delirio di amorosi
sensi (almeno, non in forma accentuata come nell’epistola ovidiana) bensì
emergono «il
dramma dell’esclusione della bellezza»225 – che
instaura un amaro contrasto tra un animo estremamente sensibile dotato
d’intelligenza e un corpo brutto benché giovane – e la sua antichità, che,
assieme all’alone di vaghezza che la circonda, le conferisce lo statuto di soggetto
poetico. Ma la canzone non tratta il tema della bellezza/bruttezza in sé quale causa di infelicità: Saffo,
riflettendo sul suo caso singolo, «che è una specola privilegiata di
osservazione, riesce ad intuire meccanismi negativi più generali del vivere e
della natura, così come è in grado di fare il pensatore L., minato nel fisico
da molti mali»[415]. Come ha osservato De
Sanctis, «che la Saffo suicida, l’amante non amata di Faone, sia altra da
quella, poco monta: il poeta ne ha fatta una sola»[416]:
ciò vuol dire che in questa situazione estetica il personaggio leopardiano non
mostra lo stesso afflato erotico di quello ovidiano; piuttosto, con il suo
soliloquio volto alla ricerca di una colpa causante un’insanabile infelicità,
«il tema dell’Ultimo canto di Saffo
suppone una sensibilità squisitamente moderna»[417].
Nel suo non ostentato eroismo, Saffo
potrebbe porsi al pari di un Ettore: ma se la virtù sventurata di Ettore è
funzionale alla vittoria di Achille affinché a questi venga conferita gloria
eterna, la Saffo leopardiana è invece già debole in partenza (e come lei,
«anche Leopardi sarebbe morto giovane, superando e spezzando ogni limite, disprezzando
la realtà, giungendo oltre l’estremo»)229, poiché la natura non le
ha donato bellezza muliebre: «Si mihi difficilis formam natura negavit, /
Ingenio formae damna
225 L. Felici,
op. cit., p. 30: «Per Leopardi (e per
il personaggio da lui poeticamente ricercato con evidenti risonanze
autobiografiche) armonia del corpo significa partecipazione all’armonia della
natura; chi, dotato di particolare sensibilità, è privo della bellezza del
corpo si trova al cospetto della natura nella stessa condizione disperata di un
amante non corrisposto». Cfr. Z 722, 1 in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova edizione tematica condotta sugli Indici
leopardiani, cit., p. 43: «Lo sventurato non bello, e maggiormente se
vecchio, potrà esser compatito, ma difficilmente pianto. Così nelle tragedie,
ne’ poemi, ne’ romanzi ec. come nella vita. (6. Marzo. 1821)».
repende meo» 230 . Così, il sentimento della
poetessa «si assolutizza nella coscienza cosmica di un’esclusione, di una
corrispondenza negata fra individuo e natura»[418]:
Ahi di cotesta
Infinita beltà parte nessuna
Alla misera Saffo i numi e l’empia
Sorte non fenno. A’ tuoi superbi
regni
Vile, o
natura, e grave ospite addetta, E dispregiata amante, alle vezzose Tue forme il
core e le pupille invano Supplichevole
intendo232.
Nel monologo funebre della poetessa l’invocazione all’amato
appare soltanto nel finale, ed è piuttosto la natura a riempire il ruolo che
lui avrebbe rivestito, indossando l’abito di un amante irraggiungibile. E, come
Leopardi, Saffo «è fuori da ogni schema, […] volta a un destino di esclusione
proprio per la sua diversità»[419], ma soprattutto nutre un
dolore intenso amplificato da una sensibilità acuta, che la porta a chiedersi
quale sia stato il suo errore, dove risieda, insomma, la sua immedicabile
colpa:
Qual fallo
mai, qual sì nefando eccesso Macchiommi anzi il natale, onde sì torvo Il ciel
mi fosse e di fortuna il volto?
In che peccai bambina, allor che
ignara
Di misfatto è la vita, onde poi
scemo
Di giovanezza, e disfiorato, al
fuso
Dell’indomita Parca si
volvesse
230 P. O.
Nasone, Sappho Phaoni, vv. 31-32, in
P.O. Nasone, op. cit., p. 282. Cfr. Premessa all’Ultimo canto di Saffo, in
G. Leopardi, Poesie e prose vol. I,
cit., p. 681: «Il fondamento di questa Canzone sono i versi che Ovidio scrive
in persona di Saffo, epist. 15 v. 31 segg. Si
mihi difficilis formam natura negavit etc. La cosa più difficile del mondo,
e quasi impossibile, si è d’interessare per una persona brutta; e io non avrei
preso mai quest’assunto di commuovere i Lettori sopra la sventura della
bruttezza, se in questo particolar caso, che ho scelto a bella posta, non
avessi trovato molte circostanze che sono di grandissimo aiuto, cioè 1. la
gioventù di Saffo, e il suo esser di donna. Noi scriviamo principalmente agli
uomini. Ora ni moza fea, ni vieja ermosa,
dicono gli spagnuoli. 2. il suo grandissimo spirito, ingegno, sensibilità,
fama, anzi gloria immortale, e le sue note disavventure, le quali circostanze
pare che la debbano fare amabile e graziosa, ancorché non bella: o se non lei,
almeno la sua memoria. 3. e soprattutto, la sua antichità. Il grande spazio
frapposto fra Saffo e noi, confonde le immagini, e dà luogo a quel vago ed
incerto che favorisce sommamente la poesia. Per bruttissima che Saffo potesse
essere, che certo non fu, l’antichità, l’oscurità de’ tempi, l’incertezza ec.
introducono quelle illusioni che suppliscono ad ogni difetto».
Il ferrigno mio stame?234
Anche se Saffo ignora l’origine del suo errore, osa lo
stesso esclamare parole di sdegno verso la natura vile e verso gli dèi. Ma la
sua non è «l’ira di Bruto minore, non è la pietosa favola della Primavera»[420]: è la sua stessa coscienza
che, dal fondo del suo animo lacerato, emerge per diventare un canto corale
intonato dalla pluralità delle voci degli umani che sbagliano, un requiem in onore della «negletta prole»
che nasce «al pianto», poiché insudiciata dall’onta di un destino infelice («Per
Dio! perché dunque nasce l’uomo? e perché genera? per poi racconsolar quelli
che ha generati del medesimo esser stati generati?»)[421].
Si noti, oltre al
tema di un errore originario che macchia di peccato chi lo commette, e
all’evidente inimicizia del cielo nei confronti della poetessa, il ritornare
dell’elemento del ferro («ferrigno stame»), di cui si è già parlato, a
proposito del suicidio degli eroi tragici, nel paragrafo dedicato ad Alfieri[422].
Ciò che però emerge in primo piano è
che, a differenza di Bruto, Saffo non si oppone al «destino invitto» attraverso
una feroce ribellione, ma con un delicato lamento che interroga la natura del
proprio errore: benché si tratti di un suicidio antico, Leopardi «ha messo in
lei qualcosa in più: il senso di una protesta dell’individuo contro una
stortura
234 G.
Leopardi, Ultimo canto di Saffo, vv.
38-44, in G. Leopardi, Canti,
introduzione e commento di M. Fubini, cit., pp. 99-100. Saffo cerca una colpa
che possa giustificare la sua condizione infelice. Cfr. Bruto minore, v. 61: «di colpa ignare e de’ lor proprii danni».
Cfr. anche note di A. Campana in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di A. Campana, cit., p. 201: «Nei
versi è chiara la riflessione sul peccato originale della teologia cattolica».
del fato»[423]. E nel suo canto desolato
si legano la malinconia lasciata da un vuoto d’amore e un inguaribile senso di
colpa. Tuttavia, anche per Leopardi – similmente a Saffo, se questa è per lui
la «corda femminile» complementare[424]
– nella prospettiva di un’infelicità comune anche il dolore è avvertito come
«un piacere sottile, che pervade chi lo prova, [e] diventa parte di un certo
godimento, quando la sofferenza viene trasformata in un principio vitale, quale
è appunto il piacere»[425]. E ciò fa capire quanto
Leopardi avesse saputo vedere in profondità (ma quella profondità comune a
tutto il genere umano), cogliendo i segreti essenziali dell’animo, poiché
lui
Vedeva e non vedeva. Egli era un
gigante, ma era l’uomo. Soffriva come un dio tutto ciò di cui noi non
conosciamo se non un riflesso; accoglieva per gli spazi della sua anima,
tremendamente e dolcemente ingrandite, tutte le nostre voci di dolore, di
meraviglia, d’affetto, e se ne spandevano echi sublimi. Il sentimento della
vita sì bella e fugace lo dominava come un prodigio. Sentì e rese come nessuno
ancora il soprannaturale di certe cose come la Bellezza, l’Amore, la Speranza.
Ebbe e ci diede il senso dello spazio, del tempo, e, con esso, lo sgomento
della nostra piccolezza, l’affannato interrogare, il ripiegarsi muto[426].
In questa prospettiva di dolore, ecco che in entrambi i casi
– tanto nel Bruto quanto nella Saffo – il suicidio è ancora del tutto
lecito: e specialmente nel Bruto,
nella svolta giustificativa del suicidio, viene chiamata in causa la natura,
«reina un tempo e diva» (v. 55), che aveva prescritto all’uomo una vita libera
da sventure e colpe, «proprie del vivere civilizzato […]; ma dal momento che un
costume empio (le istituzioni civili, la ragione), ha distrutto quei “regni
beati”, come può la natura lamentarsi di una morte non procurata da lei?»242.
Ecco allora che il suicidio diventa un atto “contro-natura” (non nel
significato che Leopardi intenderà qualche anno dopo, nel Frammento sul suicidio, di atto estremamente immorale quanto
eticamente inconcepibile), poiché, nel momento in cui le si staglia contro con la sua egoistica forza
autodistruttrice, va a infrangere la legge di natura da lei stessa stabilita,
dimostrandosi quindi come gesto eroico poiché
accompagnato, anche per Saffo, da un’insoddisfazione, da
un’inquietudine dello spirito che avrebbe impedito per sempre di vivere
“secondo natura”. Questa l’idea di Leopardi all’altezza del 1821 (che ancora
giustificava il suicidio nella misura in cui, se è vero che l’uomo vive secondo
ragione e non secondo natura, allora è legittimato a morire prematuramente, e
per sua stessa mano, per scelta ragionata e non a causa del decorso suo
naturale):
Il suicidio è contro natura. Ma
viviamo noi secondo natura? Non l’abbiamo al tutto abbandonata per seguir la
ragione? Non siamo animali ragionevoli, cioè diversissimi dai naturali? La
ragione non ci mostra ad evidenza l’utilità di morire? Desideremmo noi di
ucciderci, se non conoscessimo altro movente altro maestro della vita che la
natura, e se fossimo ancora, come già fummo, nello stato naturale? Perché
dunque, dovendo vivere contro natura, non possiamo morire contro natura?
perché, se quello è ragionevole, questo non lo è? perché, se la ragione ci ha
da esser maestra nella vita, l’ha da determinare, regolare, predominare, non
l’ha da essere, non può far altrettanto della morte? Misuriamo noi il bene o il
male delle nostre azioni dalla natura? no, ma dalla ragione. Perché tutte le
altre dalla ragione e questa dalla natura? Non c’è che dire. La presente
condizione dell’uomo obbligandolo a vivere e pensare ed operare secondo
ragione, e vietandogli di uccidersi, è contraddittoria. O il suicidio non è
contro la morale sebben contro natura, o la nostra vita, essendo contro natura,
è contro la morale. Questo no, dunque neppur quello[427].
In ogni caso, e al di là di quella che era la motivazione
che li spingeva a voler compiere un atto oltremodo violento, sia Bruto che
Saffo incontrano nella loro sventura quella «ferrata necessità», ma non sono in
grado, nella loro sensibilità ancora in parte antica, di riconoscerlo come male
necessario, e faticano a comprenderlo. Così che «quello che a Bruto è empietà,
a lei è mistero»[428].
Nel suo essere
antica, Saffo si avvicina, come Bruto, a Niobe, che si professa «vinta, ma non
credente», e per questo «non maledice la vita, ma parte da essa sconsolata di
lasciarla senza averla goduta»245:
In luogo che un’anima grande ceda
alla necessità, non è forse cosa che tanto la conduca all’odio atroce,
dichiarato e selvaggio contro se stessa e la vita, quanto la considerazione
della
necessità e irreparabilità de’ suoi mali, infelicità, disgrazie ec.
Soltanto l’uomo vile o debole, o non costante o senza forza di passioni, sia
per natura, sia per abito, sia per lungo uso ed esercizio di sventure e
patimenti ed esperienza delle cose e della natura del mondo, che l’abbia domato
e mansuefatto; soltanto costoro cedono alla necessità e se ne fanno anzi un
conforto nelle sventure, dicendo che sarebbe da pazzo il ripugnare e
combatterla ec. Ma gli antichi sempre piú
grandi, magnanimi e forti di noi, nell’eccesso delle sventure e nella
considerazione della necessità di esse, e della forza invincibile che li
rendeva infelici e gli stringeva e legava alla loro miseria senza che potessero
rimediarvi e sottrarsene, concepivano
odio e furore contro il fato e bestemmiavano gli Dei, dichiarandosi in certo
modo nemici del cielo, impotenti bensí e incapaci di vittoria o di vendetta, ma
non perciò domati, né ammansati, né meno, anzi tanto piú desiderosi di
vendicarsi, quanto la miseria e la necessità era maggiore. Di ciò si hanno
molti esempi nelle storie. […] Di Niobe,
dopo la sua sventura, si racconta, se non fallo, come bestemmiava gli Dei e si
professava vinta, ma non cedente.
In questo passo dello
Zibaldone (che verrà riportato in maniera quasi completa più sotto), in cui
il nome di Niobe e quello di Giobbe caratterizzano la diversità del dolore e
della sventura negli antichi rispetto ai moderni[429],
Leopardi condensa: liceità del suicidio; concetto di “necessità”; sentimento di
odio verso sé stessi (provato e dagli antichi, tanto nobilmente più grandi dei
moderni, e da lui medesimo); invettiva contro la religione. Per Bruto, più che
per Saffo, l’odio verso sé stesso diventa talmente accecante da cancellare ogni
residuo di timore verso gli dèi, così che l’unico soggetto protagonista della
battaglia contro la vita finisce per essere unicamente l’aspirante suicida,
similmente a quanto era accaduto a Leopardi stesso in quel periodo di crisi:
Noi che non riconosciamo né fortuna
né destino né forza alcuna di necessità personificata che ci costringa, non
abbiamo altra persona da rivolger l’odio e il furore (se siamo magnanimi e
costanti e incapaci di cedere) fuori di noi stessi; e quindi concepiamo contro
la nostra persona un odio veramente micidiale, come del piú feroce e capitale
nemico e ci compiaciamo nell’idea della
morte volontaria, dello strazio di noi stessi, della medesima infelicità che ci
opprime e che arriviamo a desiderarci anche maggiore, come nell’idea della
vendetta contro un oggetto di odio e di rabbia somma. Io, ogni volta che mi persuadeva della necessità e perpetuità del mio
stato infelice e che, volgendomi disperatamente e freneticamente per ogni dove,
non trovava rimedio possibile, né speranza nessuna; in luogo di cedere o di
consolarmi colla considerazione
dell’impossibile
e della necessità indipendente da me, concepiva un odio furioso di me stesso,
giacché l’infelicità ch’io odiava non risiedeva se non in me stesso; io dunque
era il solo soggetto possibile dell’odio, non avendo né riconoscendo
esternamente altra persona colla quale potessi irritarmi de’ miei mali, e
quindi altro soggetto capace di essere odiato per questo motivo. Concepiva un desiderio ardente di vendicarmi
sopra me stesso e colla mia vita della mia, necessaria infelicità inseparabile
dall’esistenza mia e provava una gioia feroce ma somma nell’idea del suicidio.
L’immobilità delle cose contrastando colla immobilità mia: nell’urto, non
essendo io capace di cedere, ammollirmi e piegare; molto meno le cose; la vittima di questa battaglia non poteva
essere se non io.
Se gli antichi erano magnanimi, e conservavano un certo
rispetto per le entità considerate superiori, per i moderni «la rassegnazione
alla “necessità” del destino è da Leopardi stigmatizzata come espressione di
viltà e pusillanimità»[430]. D’altro canto, «nel
pensiero arcaico il fato […] corrispondeva a una visione dell’universo come
ordine, dominato dalla Necessità assoluta di tipo matematico»[431]. E per gli antichi, il
rimedio dal dolore non era la conoscenza della verità (come per Bruto), bensì
proprio il rifugiarsi nelle illusioni, perché «gli antichi, come gli ignoranti
e i fanciulli, considerano l’immaginario come verità e quindi, quando si
sollevano alla riflessione filosofica, devono porre la verità come rimedio
all’angoscia e al dolore»[432]. Ma Bruto non è antico, e
tuttavia non ancora moderno: egli sta sulla soglia. Il suo rimedio al dolore è
una verità diversa da quella degli antichi, perché le illusioni non esistono
più. E allora, in questo caso, ecco che il suo
suicidio può (e deve) essere ancora giustificato non solo per i motivi che
abbiamo finora esaminato, ma anche perché per lui «la trasformazione dell’odio
contro se stesso in pietà verso se stesso, che consente al disperato di
resistere alla tentazione della vendetta “contro natura” del suicidio»250
non avviene: nel suo afflato nervoso, una rivalutazione dei propri sentimenti
meschini non è minimamente contemplabile.
Ecco spiegato allora
che la sua è esattamente la stessa rivolta morale di Niobe e di Giobbe, che,
assorbiti dalla sciagura, si mettono a inveire contro la giustizia divina e
giungono al limite della bestemmia maledicendo la loro condizione di
sventurati:
Oggidí (eccetto nei mali derivati
dagli uomini) non si riconosce persona colpevole delle nostre miserie o tale
che la Religione c’impedisce in tutti i modi di creder colpevole e quindi degna
di odio. Tuttavia, anche nella religione di oggidí, l’eccesso dell’infelicità
indipendente dagli uomini e dalle persone visibili spinge talvolta all’odio e
alle bestemmie degli enti invisibili e superiori: e questo, tanto piú quanto
piú l’uomo (per altra parte costante e magnanimo) è credente e religioso.
Giobbe si rivolse a lagnarsi e quasi bestemmiare tanto Dio, quanto se stesso,
la sua vita, la sua nascita ec.[433].
Così per loro, quanto per Bruto, «il rifiuto di ogni
teodicea razionale»[434] diventa, assieme con l’incresciosa
violenza suicida, l’affermazione cieca della volontà, del proprio statuto eroico, nonché il rifiuto di sottomettersi
a un’autorità più grande, reclamando, con la propria pretesa, la nefandezza del
«giusto cielo». Inoltre, Leopardi in questo passo «respinge la visione
provvidenzialistica della storia, che assegna al Cristianesimo, in quanto
religione “vera”, la salvezza del mondo antico dalla decadenza morale» [435] , riaffermando
così la superiorità e nobiltà d’animo degli antichi.
2.5. BRUTO
CONTRO LA «FERRATA NECESSITÀ»
Era il male oscuro di cui le storie e le leggi e le universe
discipline delle gran cattedre persistono a dover ignorare la causa; i modi: e
lo si porta dentro di sé per tutto
il
fulgurato scoscendere d’una vita, più greve ogni giorno, immedicato[436].
Volendo prendere in prestito una semplice ma efficacissima
espressione di Umberto Bosco, «con Bruto
minore siamo a un passo dal più leopardiano Leopardi»[437]:
quella «ferrata necessità»[438] che sta al centro del
componimento è l’intuizione della futura natura matrigna, ovverosia una causa
cosmica del male a cui l’uomo può solo soccombere inerme. Quel giovane che nel
1819 soccombeva alla forzata prigionia in casa Antici, svuotato della libertà
poiché vinto dalla “necessità” del rigore paterno, e pensava ad uccidersi, già
combatteva prorompente nel suo intimo una disperata battaglia contro un destino
che pareva già scritto, e che non smise di portare avanti sino agli anni più
vicini alla sua morte. Questa la testimonianza di Ranieri, che con una
delicatezza sottilissima lo definisce «un immortale uomo, ma un mortale malato»[439]:
Cessa, egli mi disse, allora, dalla
vana impresa di consolare un disperato.
Io, appunto da quella disperata parola,
tolsi il destro di non me ne disperare. E tanto feci e tanto dissi, che,
finalmente, il suo cuore ne intenerì, e proruppe, quasi lacrimando, nelle
seguenti parole: Recanati e morte sono per me tutt’uno: e fra qualche dì io
andrò a morire in Recanati. Tutti i miei lunghi sforzi si rompono alla fine
incontro al Fato, che mi conduce a quel mio odiato sepolcro[440].
Sembra di leggere il medesimo testamento di Bruto. E Giacomo
non è altro che lo stesso Bruto, nel momento in cui realizza che «quando il
dolore, e la rovina stessa di Roma, non sono più effetto del malvolere degli
uomini, ma della necessità, […] può ancora maledire e vincere la necessità
uccidendosi»[441]. E Bruto con la sua abiura
non solo si pente di aver creduto nella virtù, ma esprime tutta la sua feroce
riluttanza al fato: come spiega Cacciapuoti, «il concetto di renitenza al fato,
[…] è qui reso nella rappresentazione di un duello tra l’individuo che soffre e
il fato, che vince: ma l’azione è rappresentata in una scena antica, secondo i
modi di un ideale classico tipico della poesia alfieriana»[442].
E questa renitenza sta tutta nel mantenere un carattere fermo, freddo,
implacabile nella mira a un ideale, nonostante l’opposizione dei necessari eventi – in questo caso: la
disfatta dei cesaricidi – che possono scuotere l’ordine prestabilito. Nello
scenario storico-tragico della battaglia di Filippi, la necessità è anche la rovina di Roma, che «muore
perché tutto nel mondo è “schiavo di morte”»[443]
e la natura non vede né la gloria né la sventura: la morte di Roma è «ferrata necessità», e combatterla è
vano e illusorio. Lo scenario di disfatta storica della lontana Repubblica si
ripresenta, come detto, nell’Italia del 1821, e allora Leopardi si rende conto
che «la storia, il progresso, i Lumi hanno svuotato la storia di virtù», e i
suoi toni, come quelli di Bruto, esprimono la loro collera per «un secolo
borioso che non sa costruire ma sa solo parlare, in cui la mancanza di realismo
si coniuga a sdolcinate utopie»[444]. Né Bruto, né tantomeno
Leopardi, erano in grado di accettare la sventura, ma piuttosto vi si
stagliavano contro rivolgendo al cielo pesanti parole: «Leopardi infatti già in
quest’epoca mancava della fondamentale sottomissione e accettazione delle
sventure come Heimsuchung, come
visita provvidenziale e salvatrice, come “provvida sventura”»263.
Nella misura in cui Bruto sa di nutrire dentro di sé un turbine di
sentimenti – che, accompagnati dalla delusione storica e personale, lo spingono
a un definitivo, angoscioso atto –, nella sua irruenza, cede. E sbaglia: lui
non è capace di assuefazione, non ha
cioè,
ciò che era
il Padre. Il figlio doveva rimanere a Recanati, nella biblioteca, che
era la sua casa, la sua passione, il suo tempio. “Assicuratevi che la felicità
di Giacomo è tutta nello studio, e qui può attendervi meglio che altrove”».
in sé, quella capacità di modellare le sue azioni, le sue
idee, le sue aspettative a seconda della situazione che gli si presenta innanzi[445]. Ciò accade perché, tutto
focalizzato nella sua amarezza, Bruto rimane bloccato, e «nel fallire del
tentativo di giustificare la sua epoca, di vedere in essa un principio di vita
nuova» (che sarebbe idealmente accorsa all’indomani del cesaricidio), «resta fuori,
insoddisfatta, e come sospesa nel vuoto, la
volontà di superamento»[446], esattamente come rimaneva
sospeso nel vuoto, agli occhi di Leopardi, lo sforzo dei moti rivoluzionari. E
dunque, di fronte alla «ferrata necessità», il nostro suicida non è in grado di
piegarsi, di modificarsi: ma solo di gridare, di rinnegare il cielo e tagliare
in un secondo la vita che gli si prospettava futura, in un immutato
atteggiamento di scherno e di rivolta contro l’infame destino:
Preme il destino invitto e la ferrata necessità gl’infermi
schiavi di morte: e se a cessar non vale gli oltraggi lor, de’ necessari danni
si consola il plebeo266.
Certo da questi versi emerge un concetto tanto lontano
dall’idea di un male storico, di una colpa dell’uomo causatrice di danni;
sembrerebbe piuttosto che le sciagure accadano a prescindere anche a un prode
valoroso come Bruto, che, per conto suo, ha agito nel giusto. Ma è un “giusto”,
appunto, egoista e, almeno in teoria, inusitato, poiché l’umanità è composta
soprattutto da individui più savi «che agli oltraggi del destino non oppongono
la fiera resistenza di Bruto, ma la consolatoria consapevolezza della loro
inevitabilità»[447].
Sebbene Bruto si proponga come un alter
ego di Leopardi, ciò che al cesaricida manca è, di fronte all’invettiva contro
il fato, la virtù della pazienza (che anzi è «la più eroica delle virtù perché
non ha nessuna apparenza d’eroico»!)[448],
sostituita invece da un’acrimonia che investe e guida ogni sua azione, perché,
sentendosi superiore, si ribella agli eventi, si uccide «e con ciò diventa
vincitore nell’atto stesso d’esser vinto»[449].
Ma per Leopardi, anche colui che dispera deve tentare comunque di vivere. Di
fatto, come espone Vigorelli,
La protesta, che rimane costante
contro il destino e il proprio fato personale, si coniuga tuttavia con una
riscoperta della virtù della pazienza, come habitus
sociale e come via praticabile di salvezza nel
mondo, anziché fuori dal mondo.
L’ideale di saggezza inseguito da Leopardi non è quello del dio stoico, ma del tantalico eroe
dell’antica tragedia, consapevole del fato ma ad esso renitente, fedele alla terra, anche quando essa si riveli un inferno dei viventi[450].
E Bruto, oltre a non avere “pazienza”, per di più non si
pente del suo gesto, poiché ciò implicherebbe il riconoscere, da parte sua, di
aver commesso una colpa: ma dal suo
punto di vista, la colpa è della storia, degli dèi, del cielo, e questa visione
relativamente ristretta non gli consente nemmeno di provare un dolore, per così
dire, completo, ma solo a metà – la metà dell’ego[451].
Quella a cui perviene Bruto – e assieme
a lui, su un piano filosofico-esistenziale, Leopardi – di fronte
all’irreparabilità della sconfitta, non è solo la compresenza di un male storico
e cosmico al tempo stesso, ma comincia ad essere una vera e propria cognizione del dolore, l’intuizione di
un «principio gnoseologico del male inerente all’esistenza stessa, che non è per l’esistente»272, insomma una sorta di male costitutivo non
tanto
dell’uomo quanto della natura del tempo e della storia,
funesto, insopportabile; ma alla vita consustanziale e necessario.
Come spiega Marco Moneta,
Sia come sia, certo è che alla
giustificazione del male come mera accidentalità, Leopardi, con la nuova
strategia difensiva, fa subentrare una sua giustificazione quale elemento che
svolge una funzione (positiva) all’interno della totalità. A venir messa in
risalto, di conseguenza, è la capacità che tutti gli elementi, anche quelli più
negativi, hanno di contribuire all’armonia del tutto. In tal modo, rispetto al
“sistema della natura”, il male finisce col perdere il carattere
dell’accidentalità per assumere il marchio della provvidenziale necessità,
dell’armoniosa positività del negativo[452].
Insomma, col Bruto
minore la lirica leopardiana comincia progressivamente ad impregnarsi «di
quel pessimismo morale e stoico che si farà sentire sempre di più nel decidere
e nel plasmare la sostanza e la struttura nonché l’ethos dell’arte e del
pensiero di Leopardi»[453], fino a raggiungere l’acme
stilistico, esistenziale e filosofico del Canto
notturno e della Ginestra.
Nel Bruto minore vi è quindi una compresenza
dei due momenti leopardiani – quello dell’ostilità nei confronti del progresso
e della storia e quello dell’astio nei confronti della natura – espressa
proprio nell’immagine del fato contro cui si erge l’ideale eroico incarnato dal
cesaricida, e del «destino invitto» che schiaccia i mortali figli di
Prometeo: dunque, ecco che nella canzone
«dèi, fato, necessità ormai si identificano, sono soltanto nomi diversi di un
potere occulto e malvagio che infierisce sull’umanità indifesa, schiava di
morte»[454]. Il prode valoroso
dovrebbe essere colui che accetta di essere sopraffatto dalla necessità; ma per
Leopardi quel prode è Bruto: e questi può solo ribellarsi, e così facendo,
quello che era il suo valore di un tempo scema verso l’inettitudine, verso la
miseria, scivolando nell’indifferenza e nell’egoismo. E «via via che il fato da “storia” si trasforma, o meglio
si allarga, in “natura”, l’eroe diventa sempre meno l’individuo singolo,
eccezionale, soggetto romantico di poesia […] per farsi generale ideale umano»[455]: di fatto, Bruto non è un
soggetto poetico idealizzato, non è un eroe come quelli di Omero, ma
rappresenta quell’ideale di lotta contro il destino avverso che
accompagnerà Giacomo fino al 1832, per sostenerlo nella sua
acre risposta alla lettera a De Sinner.
Ciò che inizia a emergere, insomma, nel Bruto minore – proprio perché è la poesia che segna un passaggio necessario nella filosofia di Leopardi –
è che l’«ethos leopardiano […] non è
legato a, né ispirato dagli ideali di altissimo valore morale raggiungibili
solo da poche persone eccezionalmente dotate o fornite di esperienze
privilegiate» (quale poteva essere, appunto, la figura di Bruto), ma è
«radicato nella consapevolezza di un destino e di un’esperienza comuni a tutti
gli uomini»[456]. E questo a rigor del
fatto che ciò che interessava veramente
a Leopardi, nonostante la sua intensa partecipazione emotiva portata in luce da
echi autobiografici sempre presenti nei suoi componimenti, «non era il suo destino, la sua condizione esistenziale, bensì quella dell’umanità»[457]. Di fatto, la matrice di
una natura indifferente che accomuna il fatale destino di tutti gli uomini è
presente già nel Bruto:
Oh casi! oh gener vano! abbietta
parte
Siam delle cose; e non le tinte
glebe,
Non gli ululati spechi
Turbò nostra sciagura,
Né scolorò le stelle umana cura279.
Da questi versi trapela la non
infinita piccolezza dell’uomo, un nulla in confronto all’immensità della natura
che, assieme agli dèi e al fato, diventa tutt’uno con la «ferrata necessità» e non
si scompone di fronte alle sciagure e alle tensioni che divorano l’animo sempre
turbato dell’uomo, dopo che, sperimentato il vero, arriva ad elaborare un
«pensiero che afferma la realtà del nulla»[458]
– quella stessa realtà che Bruto sconfitto a Filippi vedeva stagliarsi
inesorabile di fronte a sé. L’uomo-Bruto diventa perciò, per il
Leopardi del ’21, l’ideale di uomo
che andava rincorrendo e plasmando, perché è un eroe
vinto che si interroga sulla sua condizione sventurata:
così, acquisendo nella filosofia del recanatese un ruolo estremamente cruciale,
l’uomo «finisce col condizionare quanto il Leopardi ha da dire sulla natura,
sull’universo e sull’essenza delle cose». E, come afferma Singh, «la filosofia
o la metafisica leopardiana è profondamente permeata da una consapevolezza
morale-esistenziale il cui fulcro è l’uomo»281 in quanto unità di
misura per indagare le possibilità delle leggi cosmiche e universali (quelle dominate,
appunto, dalla necessità).
Il concetto di
indifferenza della natura espresso nei versi del Bruto riportati sopra riecheggia, con una costruzione simile, nell’Ultimo canto di Saffo, in cui viene
ribadito che le imprese virtuose, qualora provengano da un corpo brutto (e
dunque sciagurato) non valgono agli occhi del «Padre» anch’esso indifferente:
Negletta
prole
Nascemmo al pianto, e la ragione in
grembo
De’ celesti si posa. Oh cure, oh
speme
De’ più verdi anni! Alle sembianze
il Padre,
Alle amene sembianze eterno regno
Diè nelle genti; e per virili
imprese,
Per dotta lira o canto,
Virtù non luce in disadorno
ammanto.
Morremo282. Il velo
indegno a terra sparto,
Rifuggirà l’ignudo animo a Dite,
E il crudo fallo emenderà del cieco
281 Entrambe le
citazioni sono prese da ivi, p. 73.
282 Di nuovo,
Leopardi ritorna sulle fonti classiche: cfr. Z 2217,1 in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova edizione
tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., pp. 70-71: «Didone, Aen. 4. 659. Seg. Moriemur inultae, Sed moriamur, ait. Sic sic iuvat ire sub umbras. Virgilio volle qui esprimere (fino e profondo
sentimento e degno di un uomo conoscitore de’ cuori ed esperto delle passioni e
delle sventure, come lui) quel piacere che l’animo prova nel considerare e
rappresentarsi, non solo vivamente, ma minutamente, intimamente e pienamente la
sua disgrazia, i suoi mali; nell’esagerarli, anche, a se stesso, se può (che se
può, certo lo fa), nel riconoscere o nel figurarsi, ma certo persuadersi e
procurare con ogni sforzo di persuadersi fermamente, ch’essi sono eccessivi,
senza fine, senza limiti, senza rimedio né impedimento né compenso né
consolazione veruna possibile, senza alcuna circostanza che gli alleggerisca;
nel vedere insomma e sentire vivacemente che la sua sventura è propriamente
immensa e perfetta e quanta può essere per tutte le parti e precluso e ben
serrato ogni adito o alla speranza o alla consolazione qualunque, in maniera
che l’uomo resti propriamente solo colla sua intera sventura. Questi sentimenti
si provano negli accessi di disperazione, nel gustare il passeggero conforto
del pianto (dove l’uomo si piglia piacere a immaginarsi piú infelice che può),
talvolta anche nel primo punto e sentimento o novella ec. del suo male ec.
L’uomo in tali pensieri ammira, anzi stupisce di se stesso, riguardandosi (o
proccurando di riguardarsi, con fare anche forza alla sua ragione e imponendole
espressamente silenzio, nella sua, coll’immaginazione) come per assolutamente
straordinario, straordinario o come costante in sí gran calamità, o
semplicemente come capace di tanta sventura, di tanto dolore e tanto
straordinariamente oppresso dal destino; o come abbastanza forte da potere pur
vedere chiaramente, pienamente, vivamente e sentire profondamente tutta quanta
la sua disgrazia. (3. Dicembre 1821)». Si tratta di considerazioni che,
indubbiamente, scaturiscono dalle riflessioni portate avanti da Leopardi nello
stesso periodo e nello stesso momento spirituale in cui scrisse il Bruto minore.
Dispensator de’ casi[459].
L’espressione «negletta prole / nascemmo al pianto» sembra
ricalcare ciò che nel Bruto è
espresso con «abbietta parte / siam delle cose» (vv. 101-102), a ribadire che
nella filosofia di Leopardi l’uomo – o meglio: l’uomo costitutivamente infelice
– è solo una menomissima parte (ignobile, spregevole, vile) dell’universo, e
che il genere umano nasce infelice per sua stessa naturale condizione. Con ciò,
l’Ultimo canto di Saffo «assume la
tragedia come tale, e la impone alla trama del senso»[460],
rafforzando lo stesso giudizio emanato anche da Bruto, ovvero: la negazione di
qualsiasi posto privilegiato – sia esso nell’inferno o altrove – per «il velo
indegno a terra sparto», ossia per il suicida che «corregge, gettando via da sé
il corpo deforme, il tragico errore del destino»[461],
rifiutando in questo modo di consacrare la sua anima ai regni celesti o
sotterranei[462]. In entrambi i canti «la
posizione lirica è quella del dolore»[463]
e il dramma etico si impone come reale proprio perché nasce da un riferimento
soggettivo.
E il «cieco / dispensator de’ casi» è
quello stesso fato, quella stessa necessità
che ritorna anche, nel significato estremo di “morte”, qualche anno più tardi
(fra il 1831 e il 1833) nel Pensiero
dominante, composto in un periodo in cui per Leopardi «inizia l’affermazione
dell’Io “gettato” nell’esistenza, della sua dignità, dei suoi diritti e istanze
più profondi»[464] nella lotta titanica
contro la natura e il fato, che si fanno destinatari della lettera di protesta
in nome dell’«arido vero»:
Giammai d’allor che in pria Questa vita che sia per prova
intesi, Timor di morte non mi strinse il petto.
Oggi mi pare un gioco
Quella che il mondo inetto,
Talor lodando, ognora abborre e
trema,
Necessitade
estrema;
E se periglio appar, con un sorriso Le sue minacce a contemplar
m’affiso289.
Così inebriato dalla nuova potenza del sentimento amoroso,
Leopardi in questo canto si mostra come rinnovato nell’animo, e finalmente
esente da quel «timor di morte» che lo attanagliava dal momento in cui comprese
la pochezza e la fragilità della vita: e quella necessità estrema che è la morte, ora gli pare non solo cosa di
poco conto, ma addirittura oggetto di divertimento. Per Bruto, il discorso è un
poco diverso: se lui guarda in faccia la morte con atteggiamento provocatorio,
come se fosse l’avversaria di una tenzone di cui già si proclama vincitore, non
è perché il suo timore (della morte stessa, degli dèi, del fato) si è attenuato
in virtù di un sentimento ben più nobile; bensì perché è consapevole che ciò
che rimane della sua vita altro non è se non un ignobile proseguimento degno
soltanto di disprezzo. Bruto non prova timore290. È anzi del tutto
consapevole delle sue azioni. Rivolge il suo ghigno agli dèi e al fato. Bruto è
disilluso: il fantasma della virtù è ormai morto, e lui con esso: compie il
gesto estremo, s’infiltra nell’amara sorte che egli stesso aveva riservato a
Cesare. E quando «maligno alle nere ombre sorride» è come Giacomo che, di
fronte all’eventualità della morte, si sofferma «ad ammirare la bellezza
289
G. Leopardi, Il
pensiero dominante, vv. 44-52, in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di M. Fubini, cit., p. 201. Corsivi
miei.
290
Cfr. Z 2206, 1 in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova edizione tematica condotta sugli Indici
leopardiani, cit., p. 70: «Il timore, passione immediatamente figlia
dell’amor proprio e della propria conservazione, e quindi inseparabile
dall’uomo, ma soprattutto manifesta e propria nell’uomo primitivo, nel
fanciullo, in coloro che piú conservano dello stato naturale; passione
strettissimamente comune all’uomo con ogni specie di animali e carattere
generale de’ viventi; una tal passione è la piú egoistica del mondo. Nel timore
l’uomo si isola perfettamente, si stacca da’ suoi piú cari e pena pochissimo
(anzi quasi da necessità naturale è portato) a sacrificarli ec. per salvarsi.
Né solo dalle persone, o da tutto ciò ch’é in qualche modo altrui, ma dalle
cose stesse piú proprie sue, piú preziose, piú necessarie, l’uomo si stacca
quando teme, come il navigante che getta in mare il frutto de’ suoi piú lunghi
travagli e anche di tutta la sua vita, i suoi mezzi di sussistenza. Onde si può
dire che il timore è la perfezione e la piú pura quintessenza dell’egoismo,
perché riduce l’uomo non solo a curar puramente le cose sue, ma a staccarsi
anche da queste per non curar che il puro e nudo se stesso, ossia la nudissima
esistenza del suo proprio individuo separata da qualunque altra possibile
esistenza. Fino le parti di se medesimo sacrifica l’uomo nel timore per
salvarsi la vita, alla quale e a quel solo che l’é assolutamente necessario in
qualunque istante, si riduce e si rannicchia la cura e la passione dell’uomo
nel timore. Si può dir che il se stesso diviene allora piú piccolo e ristretto che
può, affine di conservarsi, e consente a gettare tutte le proprie parti non
necessarie, per salvare quel tanto ch’è inseparabile dal suo essere, che lo
forma, e in cui esso necessariam. e sostanzialm. consiste. (1. Dicembre 1821)».
Commenta così Cacciapuoti: «La similitudine dell’amor proprio con la materia, elemento
centrale del brano precedente, è qui ripresa nel richiamo al principio di
conservazione, da cui dipende la passione del Timore. L’Egoismo, più volte
dichiarato implicito all’amor proprio, diviene ora sommo, in quanto, appunto, necessario alla conservazione: come
avviene nei processi della materia, cui è funzionale anche la morte. L’analisi
dei comportamenti generati da questa passione mette in luce il processo di
atrofizzazione dell’io e il “rannicchiarsi” (verbo usato da Leopardi nella
descrizione di tutti gli stati legati alla paura e all’angoscia in una
comprensione del meccanismo psicofisico) dell’uomo a difesa del suo nucleo
essenziale».
(contemplar) delle
sue minacce, col sorriso sulle labbra»[465]:
l’odio che provava verso sé stesso e i Numi può solo trasformarsi, se non in
pietà, in una petrosa indifferenza che segna il limite ultimo della sua
disperazione, perché «il riso dell’uomo sensitivo e oppresso da fiera calamità
è segno di disperazione già matura»[466].
Poco dopo il Pensiero dominante, si vede come «la
concezione leopardiana della natura tenda ad assumere una configurazione
mitica»[467], e nel 1835 torna l’emblema
di quella «ferrata necessità» incontrata nel ’21: giunto alla piena maturità,
Leopardi arriva a «teorizzare il male come ragione dell’esistenza nell’abbozzo
ad Arimane», figura che esprime una compiuta identificazione tra divinità, fato
e natura e che, «in virtù del suo carattere mitico-simbolico affiora alla luce
della coscienza da un passato tanto remoto da coincidere con un eterno
presente»[468]. Nell’inno, diversamente
dai Canti, «adombrerà una più radicale disperazione e una ribellione anche
più caparbia, ma sull’ala di un discorso più solenne, di un respiro che non
avrà più niente di quell’angustia»[469],
e che comincia ricalcando l’incipit
del Pensiero dominante («Dolcissimo,
possente / dominator di mia profonda mente; terribile, ma caro / dono del
ciel», vv. 1-3) come invocazione a un’autorità tanto potente quanto misteriosa
ed eternamente trionfatrice[470]:
Re delle cose, autor del mondo,
arcana
Malvagità, sommo potere e
somma
Intelligenza, eterno
Dator de’ mali e reggitor del moto[471]
L’inno, sublime preghiera rivolta, prima ancora che dal
«mondo civile», dal poeta stesso all’«autor del mondo» affinché gli conceda il
più sommo di tutti i piaceri[472], che lo liberi
– per sempre – dalla morsa vitale che lo costringe a sentire e patire la sua miserabile condizione («non posso, non posso più
della vita») «interessa anzitutto come testimonianza o conferma dell’idea
leopardiana dell’assoluta sovranità del male nell’universo»[473],
imprescindibile e fortissima, ma che può essere allietata dagli uomini se,
stringendosi «in social catena» (La
ginestra, v. 149) per combattere le «angosce / della guerra comune» (La ginestra, vv. 134-135), riescono a
trovare in loro la virtù della “pazienza”.
Ecco allora che la
«tematica antiteistica»[474] affrontata già nel ’21 nel
Bruto minore continua e riaffiora,
dal passato fino alla bruciante attualità, nell’abbozzo Ad Arimane, e si riconduce a quel disegno di conversione al moderno
che Leopardi sperimenta nel corso degli anni ’20 e ’30. Come rileva Angiola
Ferraris, nella chiusura dell’inno «la presenza di Arimane nella veste di
epifania mitica del male conferisce alla tensione eroica insita nella
concezione della morte come supremo gesto di rivolta contro il fato un
peculiare accento antiteistico»[475], indicativo di una precisa
continuità tematica iniziata col Bruto
e destinata a ritrovare sempre maggior risalto nelle opere del Leopardi maturo,
che rappresentano gli esiti conclusivi del suo pessimismo materialistico. In
quest’ottica, la sfida ad Arimane, che rievoca la protesta di Bruto contro le
divinità indifferenti, «sembra contenere un richiamo implicito all’esemplarità
del modello di comportamento etico offerto dall’areté degli antichi greci, la cui attitudine eroica di fronte alla
morte esercitò […] una suggestione profonda sull’ultimo Leopardi»[476].
Così, eticamente
impossibilitato – per sua stessa dottrina morale[477]
– a conseguire, come fosse il termine ultimo di un travagliato percorso, il
suicidio, Leopardi si insinua
vecchiezza è male sommo: perché priva l’uomo di tutti
i piaceri lasciandogliene gli appetiti; e porta seco tutti i dolori. Nondimeno
gli uomini temono la morte, e desiderano la vecchiezza».
nelle figure antiche da lui stesso rievocate: ponendo il
suicidio del suo Bruto come apostasia di tutti quegli «errori magnanimi» che
compongono la vita, e incorniciando il suo gesto brutale in una «atra notte» in
cui nessuno vede e nessuno ode, catarticamente lui stesso lo compie: e si
libera. Come Saffo, «Bruto suicida non era una fantasia del Leopardi, né un
dato reale ch’egli potesse in qualche modo alterare o mutare»[478]: era, in un certo senso,
una piccola parte della sua anima sensibile.
ma per gli altri) di una più forte consolazione e
compassione avrebbe fatto dell’assuefazione apatica, come ipotesi di durativo,
immobile adeguamento allo status, un
punto necessario di superamento; piegato quanto meno, il cinico, pratico,
socratico stoicismo di Epitteto a quelle istanze eclettiche senechiane e
ciceroniane che prevedevano l’unione di sapienza, virtù, amicizia in un più
generale legame tra gli uomini».
III – IN
LIMINE
Da qualche
tempo è recente anche l'antico
Il disco
del discobolo è cromato
Nella testa
di Seneca si sente
Il motorino
di un frullatore
Nelle
piramidi continuamente
Scatta un
otturatore
E in te,
Tubinga,
In te non c'è un juke-box e non un tostapane
Tu mi
risparmi d'essere testimone antico e recente
Delle
istruzioni lette attentamente[479]
1. PASSAGGIO,
ADEMPIMENTO. UNA «MUTAZIONE
TOTALE»
Quel passaggio cruciale, nell’animo del giovane Giacomo, tra
l’antico e il moderno, quella «mutazione totale» che lo trascina lentamente
verso la saggezza del materialismo filosofico e progressivamente lo persuade di
abbandonare l’indole patriotticosentimentale delle prime canzoni, avvenne già,
come detto, nel 1819: nella crisi (etica, estetica, personale) si presenta per
lui una circostanza paradossalmente favorevole, in cui, «rifiutando il mito, la
filosofia si presenta come epistéme della
verità […], conoscenza assolutamente non smentibile e definitiva»[480]:
Sono stato sempre sventurato, ma le mie sventure d’allora erano piene di
vita e mi disperavano, perché mi pareva
(non veramente alla ragione, ma ad una saldissima immaginazione) che m’impedissero la felicità, della
quale gli altri credea che godessero. In somma il mio stato era allora in tutto e per tutto come quello degli antichi.
[…] La mutazione totale in me, e il
passaggio dallo stato antico al moderno, seguì si può dire dentro un anno, cioè
nel 1819, dove, privato dell’uso della vista e della continua distrazione
della lettura, cominciai a sentire la mia infelicità in un modo assai più
tenebroso, cominciai ad abbandonar la
speranza, a riflettere profondamente sopra le cose […] a divenir filosofo di professione (di poeta ch’io era), a sentire l’infelicità certa del mondo in
luogo di conoscerla; e questo anche per uno stato di languore corporale,
che tanto più mi allontanava dagli antichi e mi avvicinava ai moderni. Allora
l’immaginazione
in me fu sommamente infiacchita, e
quantunque la facoltà dell’invenzione allora appunto crescesse in me
grandemente, anzi quasi cominciasse, verteva però principalmente o sopra affari
di prosa o sopra poesie sentimentali. […] Così si può ben dire che, in rigor di
termini, poeti non erano se non gli
antichi, e non sono ora se non i fanciulli o giovanetti, e i moderni che hanno questo nome non sono
altro che filosofi. Ed io infatti non divenni sentimentale, se non quando, perduta la fantasia, divenni insensibile
alla natura e tutto dedito alla ragione e al vero, in somma filosofo[481].
Questo noto passo dello Zibaldone[482], che costituisce uno snodo
fondamentale per la piena comprensione del pensiero del recanatese, si allinea
idealmente al medesimo stato d’animo provato da Bruto, nell’arco di pochi
istanti, all’insorgere della sconfitta: «ma prima che questa catastrofe
avvenga, mentre il richiamo al presente occupa progressivamente uno spazio
testuale sempre maggiore», quel 1819 così significativo «segna il mutamento del
sentimento/immagine di Roma entro l’evoluzione del pensiero leopardiano sugli
antichi/moderni»[483]. Mentre riflette sul suo
stato d’animo e, parimenti, sulla condizione di Bruto moribondo, Leopardi
realizza che «Roma gioca una parte centrale, non più come sede di spazio
immaginario ma piuttosto come luogo concreto cui riferire bisogni di
cambiamento»[484]: così, l’attimo del
disinganno si congiunge, sul piano stilistico, con la conversione alla prosa e
alla filosofia, la quale «ha precisamente questo significato, di rinuncia
all’eroica disperazione e alle magnanime illusioni, di adozione di un
atteggiamento rassegnato-ironico di fronte alla realtà»[485].
Così per Leopardi,
come anche per Bruto, questa «mutazione totale» tra due età (esteriori,
storiche; e interiori, personali), e tra il tempo dell’immaginazione
(coincidente con la poesia) e quello della ragione (coincidente con la saggezza
filosofica) è stata definita da critici come una specie di “caduta”, una
«poderosa accelerazione del processo di assuefazione che accompagna la crescita
di qualsiasi ente – sia esso un individuo, una
generazione, l’intera umanità – con una drammatica e
improvvisa precipitazione del vero nell’esperienza» [486],
a cui segue un forzato ma necessario adeguamento a una nuova condizione, che,
per essere compresa e accettata, prevede il ripensamento dell’ordine morale
fino allora vigente. Per Leopardi, che sorretto dalla sua forza d’animo è
sempre più “virtuoso nella pazienza”, tale ripensamento è, per quanto
complesso, tuttavia possibile e praticabile; per Bruto no. «Uno sconfitto che
non accetta la sconfitta» non vuole mettere in discussione gli antichi valori
creduti saldi ed eterni; non si scinde dai suoi idoli di sangue[487].
La verità che si staglia violenta di
fronte a Bruto scatena, nel suo animo ancora in parte antico, il rifiuto di
conoscerla e dunque «la denegazione di ogni sistema etico, della disperazione
di ogni gerarchia di valori, anzi della constatazione dell’insignificanza dei valori
stessi»[488]; per Giacomo, invece,
«all’apparir del vero»[489] ecco che il disvelamento
dei giovanili errori mette in gioco
un pretesto per rivalutare tutto ciò che si era creduto certo, delineando così
«lo scontro tra illusione e verità, tra Natura e Ragione, tra mito e realtà,
tra un “dover essere” per tanti secoli creduto e operante ed un “essere”, al
contrario, che una volta scoperto produce amarezza»[490].
È nel periodo ’19-’21, allora, che
Leopardi sperimenta il desiderio di una ricerca della verità che, come arriverà
ad intendere con gli anni, non può mai essere totale (poiché se «il vero
consiste essenzialmente nel dubbio»[491],
significa che «non v’è quasi altra verità assoluta se non che Tutto è relativo»)14 specie
se affidata interamente alla ragione:
La ragione è nemica della natura, non già quella ragione primitiva
di cui si serve l’uomo nello stato naturale, e di cui partecipano gli altri
animali, parimente liberi, e perciò necessariamente capaci di conoscere. Questa l’ha posta nell’uomo la stessa
natura, e nella natura non si trovano contraddizioni. Nemico della natura è quell’uso della ragione che non è naturale,
quell’uso eccessivo ch’è proprio solamente dell’uomo, e dell’uomo corrotto:
nemico della natura, perciò appunto che non è naturale, né proprio dell’uomo primitivo[492].
In quel periodo – in cui ancora non concepisce l’esistenza
di una natura matrigna generatrice di quelle stesse illusioni che ingannano gli
uomini – Leopardi passa in rassegna, riconsidera e svaluta il cristianesimo,
poiché impone all’uomo la via della rassegnazione coprendo i sentimenti con il
velo della vergogna e del timor di Dio: attraverso i pensieri del suo Zibaldone, Leopardi rivela che «un vero
e proprio abisso è quello che distingue l’uomo antico e pagano da quello moderno
e cristiano»[493]. In particolare, riguardo
la riconsiderazione che Leopardi opera nei confronti non solo della religione
cattolica, ma in generale di tutte le credenze ormai superate, sia esemplare il
commento di Timpanaro:
È proprio questa esigenza di
smascheramento degli «errori barbari» del cattolicismo che fa superare al
Leopardi ogni residuo di dubbio sull’opportunità o meno di rivelare agli uomini
il male della condizione umana in tutta la sua crudezza: alla convinzione del «valore
sociale del vero» […] il Leopardi giunge perché l’esperienza gli ha dimostrato
che nell’epoca attuale il vuoto dell’ignoranza non è riempito dalle gagliarde e
magnanime illusioni dei primitivi, ma da un ibrido connubio delle deprimenti
superstizioni medievali con un progressismo superficiale e falso, incapace di
dare la felicità all’uomo: meglio, allora, quella «fiera compiacenza» che è
prodotta da una lucida disperazione, e che costituisce, in un mondo in cui
l’azione eroica è ormai preclusa, l’ultima e paradossale forma di «virtù»
classicheggiante[494].
Rispetto alle sue precedenti idee, esposte ad esempio nel Saggio sopra gli errori popolari degli
antichi (1815)[495], in cui ancora riteneva
che fosse «da stolto dire che la natura cioè
insomma Iddio abbia errato»[496],
Leopardi tendeva ora a identificare, per quanto possibile, ragione e Dio: e
dunque il suo sistema, «per spiegare la caduta dell’uomo in uno stato di progressiva
infelicità, sostituisce al concetto di Dio creatore e punitore quello di una
natura primigenia assalita e degradata dalla ragione»[497].
Quello stato di
progressiva infelicità che l’uomo sperimenta da quando viene al mondo, certo è
causato dall’imbarbarimento della ragione, specie nella misura in cui l’uomo è animale razionale. E però, «dopo il
rinnegamento della virtù operato da Bruto, la virtù moderna rinasceva […] sotto
la forma del riso»21. Infatti, Leopardi trova il modo di sviare un
poco da questa dura condizione attribuendo «un valore positivo alla vita»[498] nell’Elogio degli uccelli, più precisamente nell’elogio del riso, «come
indice della disperazione umana; sulla forza che esso possiede nell’ambito
della società»[499] e sul fatto che indica
crescita morale e consapevolezza. Dal momento che «pensarono alcuni che siccome
l’uomo è definito per animale intellettivo o razionale», Leopardi ne deduce che
«potesse non meno sufficientemente essere definito per animale risibile;
parendo loro che il riso non fosse meno proprio e particolare all’uomo, che la
ragione»[500]. Il riso infatti è, al
pari della ragione, un’arma potentissima, grazie alla quale gli uomini
«ricevono non piccolo benefizio»:
Gli uomini, come sono infelicissimi
sopra tutti gli altri animali, eziandio sono dilettati più che qualunque altro,
da ogni non travagliosa alienazione di mente, dalla dimenticanza di se
medesimi, dalla intermissione, per dir così, della vita; donde o interrompendosi
o per qualche tempo scemandosi loro il senso e il conoscimento dei propri mali,
ricevono non piccolo benefizio[501].
Certo Leopardi si riferisce a un riso
«alto», proprio dell’uomo civile, che è in grado di rompere il freno della
ragione: è il «riso maturo e perfetto […] di chi sente e intende; e
dal suo sentire intendendo ricava un
particolare piacere»[502]. È un riso che riesce, in
qualche modo, a sciogliere l’inganno della vita. Naturalmente, nell’operetta
non manca, nella considerazione sull’attualità della condizione umana, una
menzione alle illusioni cadute al sopravvenire dell’epoca della ragione: in
veste di Amelio filosofo solitario, Leopardi accenna a un’ipotesi di scrittura
sulla storia del riso, che narrerà
i suoi fatti e i suoi casi e le sue
fortune, da indi in poi, fino a questo
tempo presente; nel quale egli si trova essere in dignità e stato maggiore
che non fosse mai; tenendo nelle nazioni civili un luogo, e facendo un ufficio,
coi quali esso supplisce per qualche modo alle
parti esercitate in altri tempi dalla virtù, dalla giustizia, dall’onore e
simili; e in molte cose raffrenando e spaventando gli uomini dalle male opere[503].
È dunque chiara l’idea che Leopardi ha dell’età moderna: una
civiltà composta da uomini pervasi da «grande tristezza d’animo», che «non
serbano alcuno amore alla vita, certissimi della vanità di ogni bene umano,
presso che incapaci di ogni gioia, e privi di ogni speranza», meno che il riso.
Ma non è per tutti così. Chi è consapevole della propria infelicità, si salva,
perché è capace di riderne: di fatto, «quanto conoscono meglio la vanità dei
predetti beni, e l’infelicità della vita; e quanto meno sperano, e meno
eziandio sono atti a godere; tanto maggiormente sogliono i particolari uomini
essere inclinati al riso»[504], soprattutto perché «nello
stile del riso si esprime l’individualità dell’uomo: il suo carattere, la sua
educazione, l’idea ch’egli ha delle cose»[505].
Dopo il rinnegamento della virtù, Leopardi si sentiva incoraggiato a ripensare
a una nuova – e più positiva! – concezione del mondo, attribuendo al riso un
valore rigenerativo, poiché «nel riso era comunque implicita una virtù: lo
smascheramento dei tanti pregiudizi millenari e quello della stessa morale
fondata su siffatti pregiudizi»[506].
Non si confondano, tuttavia, i due piani. L’essere
consapevoli della vanità della vita, e supplire le sofferenze con l’abilità di
ridere, è cosa ben diversa dal conoscere la verità tramite l’uso della pura
ragione. Come espone Rigoni nel saggio L’estetizzazione
dell’antico [507] , «la “verità”,
che offre la ragione come ragione, è la più parziale e superficiale, e anche la
più menzognera»[508]. Sembrerebbe una
contraddizione, ma ciò che intende il critico in questa sede è che «Leopardi
smaschera presto il mito della cosiddetta conoscenza disinteressata» [509] proprio nel momento in cui
diviene «filosofo di professione»: la sua sete di verità si affida sempre meno
al sapere fine a sé stesso e predilige piuttosto una completezza gnoseologica
che incorpori assieme passione e
ragione, in «una sorta di discorso anti-epitteteo perché Leopardi non elimina
la passione con la ragione, ma converte la ragione in passione, distingue la
passione moderna dall’antica»[510]. Non del tutto vicino agli
antichi, dunque, e alla natura nuda, né totalmente integrato tra gli
illuministi moderni (la cui linea ideologica, sostenuta con fermezza da Monaldo
e dallo zio Carlo Antici, permeava indiscussa casa Leopardi come un’ombra indelebile);
ma una via di mezzo vissuta da chi sta sulla soglia, in quel momento di
passaggio in cui si avverte che «dentro la crisalide della ragione, si agita la
farfalla insaziabile del desiderio del piacere, generato dall’amor proprio, che
non vuole conoscere infinitamente, ma
infinitamente sentire»[511]. Nella misura in cui il
sentimento naturale dell’uomo è una connaturata fame di felicità, ne deriva che
il desiderio di raggiungerla – e dunque di sentire
quel piacere – si interseca con
l’altrettanto innato bisogno di conoscere il vero:
L’uomo dunque inclinando alla
perfez. o felicità, inclina sommamente alla cognizione del vero. […] L’oggetto
della facoltà di conoscere, è la verità. L’estensione di questa facoltà si
misura dal desiderio. L’uomo sente un desiderio infinito di conoscere e così di
amare. Dunque la sua facoltà conoscitiva, o l’intelligenza è capace di
conoscere la verità infinita; la sua facoltà di amare, è capace di amare il
Bene infinito. Laddove la sua facoltà di agire essendo limitata, egli non sente
un desiderio finito di agire, come essere fisico.
Dunque la felicità dell’uomo
consiste nella perfezione della conoscenza; dell’amore, o sia disposizione
dell’anima verso gli oggetti; e dall’azione che deriva da questi due principii36.
Questo estratto zibaldoniano fa parte di una breve rassegna
in risposta all’Essai sur l’indifférence
en matière de religion di Lamennais, che lo esorta a intersecare i piani
della natura e della storia con quello della religione[512].
Nel ’19 Leopardi è ancora piuttosto ancorato alla religione cristiana – poiché
considerata generatrice di felicità al pari delle illusioni[513]
–, e di fatto la sua religiosità «prima di dileguarsi definitivamente, conosce
ancora periodi di travaglio e di meditazione dolorosa, ritorni di ascetismo»[514]. Tuttavia, a distanza di
pochi anni non si esime dal deprecare quella stessa religione, specie nel
momento in cui, ponendola a confronto con le credenze degli antichi, realizza
che quelle, a differenza delle moderne, «potenziavano fortemente la felicità
temporale esaltando le energie vitali dell’uomo» [515]
. A rigore, come riportato più volte dalla critica, è dal confronto con
le tesi di Lamennais che Leopardi trova conferma delle sue idee: nel 1820
concorda, per lo più, con il teologo francese, «ma rinnova profondamente il
rapporto tra la religione e le illusioni: il progressivo decadimento della
storia della civiltà è spiegabile per Leopardi come per Lamennais con la
sostituzione della filosofia alla religione»[516],
poiché «la filosofia era stata “la distruttrice di Roma” e la storia romana
dimostrava quanto fosse vero che “la religione si ritrova presso la culla di
tutti i popoli, a guisa che
36 Z 378, 1,
in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri.
Nuova edizione tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., pp. 295-297.
Il pensiero è datato 8 dicembre 1820; e pochi mesi prima, nel novembre 1820, lo
stesso Leopardi scriveva, in Z 351, 2 che «ogni felicità fondata sul vero, è
falsissima, o vogliamo dire, ogni felicità si trova falsa e vana, quando
l’oggetto suo giunge ad esser conosciuto nella sua realtà e verità», in ivi, p. 136. Si badi che in questo passo
Leopardi utilizza, in riferimento all’oggetto che procurerebbe felicità,
proprio il verbo conoscere, senza
fare riferimento al sentire.
la filosofia si è trovata sempre vicina alla lor tomba”»[517]. E tuttavia, il termine di
paragone di cui usufruisce il recanatese non è tanto la differenza di credo:
piuttosto, «il metro di cui si serve è il grado di felicità»[518]:
Quale idea avessero gli antichi
della felicità, e quindi dell’infelicità, dell’uomo in questa vita, della sua
gloria, delle sue imprese, e come tutto ciò paresse loro solido e reale, si può
arguire anche da questo, che delle grandi felicità ed imprese umane ne
credevano invidiosi gli stessi Dei, e temevano perciò l’invidia loro, ed era
lor cura in tali casi deprecari la
divina invidia, in maniera che stimavano anche fortuna, e, se ben mi ricordo,
si proccuravano espressamente qualche leggero male, per dare soddisfazione agli
Dei e mitigare l’invidia loro[519].
E ancora, nei pensieri del 1821, è chiaro che «un
presupposto necessario del pessimismo storico era la felicità degli antichi, o
almeno il carattere meramente passeggero ed episodico della loro infelicità»[520]:
Chi è o fu più felice? Gli antichi
coi loro sacrifizi, le loro cure, le loro inquietudini, negozi, attività,
imprese, pericoli: o noi, colla nostra sicurezza, tranquillità, non curanza,
ordine, pace, inazione, amore del nostro bene e non curanza di quello degli
altri o del pubblico ec.? Gli antichi col loro eroismo o noi col nostro
egoismo?[521]
La diatriba attorno al potere salvifico delle illusioni –
sia presso gli antichi che presso i moderni – è centrale proprio in questo
biennio ’19-’21, in cui per Leopardi l’immaginazione è «una facoltà estranea
non solo alla verità assoluta della ragione e della scienza, ma anche alla
verità individuale e psicologica del cuore,
che è essa pure un carattere moderno»47,
e si inserisce perfettamente nella dinamica del Bruto minore – e, forse ancor più, della Comparazione delle sentenze
di Bruto minore e di Teofrasto vicini a morte. Sia da esempio questo altro
brano dello Zibaldone, datato 18-20
agosto 1820:
Le illusioni, per quanto sieno
illanguidite e smascherate dalla ragione, tuttavia restano ancora nel mondo e
compongono la massima parte della nostra vita. E non basta conoscer
tutto per perderle, ancorché sapute
vane. E perdute una volta, né si perdono in modo che non ne resti una radice
vigorosissima, e, continuando a vivere, tornano a rifiorire in dispetto di
tutta l’esperienza e certezza acquistata. Io ho veduto persone savissime, espertissime,
piene di cognizioni, di sapere e di filosofia, infelicissime, perdere tutte le
illusioni, e desiderar la morte come unico bene[522].
Fin qui, sembrerebbe che Leopardi stia stilando una sorta di
parafrasi che anticipa il sentire del suo stesso Bruto penitente della virtù,
che rimpiange con essa tutte le illusioni e le credenze religiose e l’amor di
patria e la fiducia nella storia. Ma, poco sotto, riprende l’argomentazione
mettendo al centro, a mo’ di exemplum,
la propria esperienza, per dimostrare
quanto le illusioni, anche – e soprattutto – quando son credute svanite, sempre
rifioriscono accompagnando l’uomo persino nella più misera quotidianità:
Ed a me pure è avvenuto lo stesso
cento volte, di disperarmi propriamente per non poter morire e poi riprendere i
soliti disegni e castelli in aria intorno alla vita futura e anche un poco di
allegria passeggera. E quella disperazione e quel ritorno non avevano cagion
sufficiente di alternarsi, giacché la disperazione era prodotta da cause che
duravano quasi intieramente nel tempo ch’io riprendeva le mie illusioni[523].
Certamente, questo mutamento non sorge dalle pagine ancora
bianche del suo diario filosofico: a ispirarlo è la partecipazione alla disputa
letteraria di quegli anni (sulla scia della Querelle
des Ancients e des Modernes), una sorta di «confronto protonazionale, che lascia
in eredità all’Italia a venire una tensione irrisolta fra apertura culturale e
autarchia, e tra fame di moderno e arroccamento sul passato»[524], nonché l’influsso di
intellettuali del calibro di Madame De Staël[525].
Come espone D’Intino, Leopardi non condivide del tutto la posizione teorica
della scrittrice, che intende affidare un ruolo di primaria importanza
al progresso (infatti, la posizione di Leopardi è singolare
poiché è «totalmente acompromissoria, rifiutando sia, esplicitamente, le
poetiche “romantiche” […] che, implicitamente, la prassi classicista
dell’imitazione, e finanche l’idea stessa di classicità tout court»)[526]. Tuttavia, «la baronessa,
esaltando la morale socratica, ammetteva che gli antichi riuscivano ad essere
virtuosi – ed erano dunque un modello da imitare – nonostante la loro cecità sul vero»[527]. E di nuovo può risultare
illuminante il passo dello Zibaldone 315,
1 sopracitato, quando Leopardi, in riferimento agli «scrittori di vero e
squisito sentimentale», enuncia che
Quanto più era vivo in loro il
sentimento della vanità delle illusioni, tanto più si prefiggevano e speravano
di conseguire un fine illusorio, e col desiderio della morte vivamente sentito
e vivamente espresso non cercavano altro che di procurarsi alcuni piaceri della
vita. E così tutti i filosofi che scrivono e trattano le miserabili verità
della nostra natura, e ch’essendo privi d’illusioni, in fondo non cercano poi
altro veramente col loro libro che di crearsi e godersi alcuni illusorii
vantaggi della vita[528].
Di fatto, per Leopardi «è proprio dopo il ’23 che il motivo
della superiorità degli antichi, oltre che riproporsi massicciamente, trova la
sua formulazione più precisa e più profonda», nel momento in cui apprende che
«la grandezza degli antichi è dovuta esclusivamente
alla loro anteriorità alle verità
positive che irretiranno il mondo moderno»[529]:
e Bruto è la riprova che il sopraggiungere della verità, fino a quel momento celata
dal velo ingannatore, designa la fine incontrovertibile di un’epoca ormai
interamente decorsa, sigillando per sempre l’età delle favole antiche e decretando una netta cesura tra due fasi
antitetiche della civiltà umana. All’altezza del ’21, «l’accordo religione-ragione,
in cui Leopardi aveva ancora così fermamente creduto al tempo del Saggio sopra gli errori popolari, era
definitivamente rotto»56. Infatti, se presso gli antichi
la religione, al pari delle illusioni, era funzionale a
contenere l’assalto della pura e fredda ragione, ciò non vale per Bruto (che,
come Giacomo, era ormai già quasi filosofo):
Quando
l’uomo veramente sventurato si accorge e sente profondamente l’impossibilità
d’esser felice e la somma e certa infelicità dell’uomo, comincia dal divenire
indifferente intorno a se stesso, come persona che non può sperar
nulla né perdere e soffrire più di quello ch’ella già preveda e sappia. Ma se
la sventura arriva al colmo, l’indifferenza non basta: egli perde quasi affatto l’amor di se, ch’era già da questa
indifferenza così violato, o piuttosto lo rivolge in un modo tutto contrario al
consueto degli uomini: egli passa ad
odiare la vita, l’esistenza e se stesso, egli si abborre come un nemico: e
allora è quando l’aspetto di nuove sventure o l’idea e l’atto del suicidio gli
danno una terribile e quasi barbara allegrezza, massimamente se egli pervenga
ad uccidersi essendone impedito da altrui; allora
è il tempo di quel maligno amaro e
ironico sorriso, simile a quello della vendetta eseguita da un uomo crudele,
dopo forte lungo e irritato desiderio: il qual sorriso è l’ultima
espressione della estrema disperazione e della somma infelicità[530].
È chiaro che già nel ’19 serpeggiava
nella mente del recanatese l’idea di un altero, eroico suicida che trae un
certo piacere nel togliersi la vita di fronte agli dèi fieramente rinnegati: e
dunque, attraverso l’imprecazione di Bruto, Leopardi stesso estingue ogni
dubbio: i moderni filosofi sono troppo accecati dall’aridità del vero per
tornare a credere nelle care illusioni.
Dunque, nell’epoca della ragione,
«bisogna far sì che ciò che si ritiene vero razionalmente (ma che mette in
pericolo la vita, o la vitalità dell’individuo), diventi qualcosa di
accettabile o addirittura entusiasmante», di modo che «il martire [possa]
addirittura superare il timore del
pericolo, e godere della propria
stessa morte»[531]. E anche se Bruto certo si avvicina al ruolo di martire,
tuttavia non lo estingue, poiché, nonostante goda della sua morte, non lo fa in
virtù di un motivo nobile, come poteva essere, presso gli antichi, la
rivendicazione della libertà. E però, al sopraggiungere del moderno passione e
ragione si sovrappongono, dal momento che «persuasione, passione e illusione
tendono a convergere in un’unica zona sensibile, non ben distinta da quella
razionale, che è la sola a garantire l’energia, il movimento, e dunque la
possibilità di agire»; e – continua D’Intino
– «senza questo tipo di persuasione non ci sono azioni, e
dunque non ci sono costumi, e dunque neanche la necessità di una morale»[532].
Certo le grandi azioni, e un’alta
morale, erano tipiche delle civiltà antiche di Atene e di Roma, rette dalle
vitali illusioni: ma quelle civiltà sono scomparse, la decadenza cominciata in
Occidente con la fine della libertà romana è inevitabilmente intersecata, per
Leopardi, coi successi cognitivi della scienza moderna. Ma in mezzo a tutte
quelle divergenze che allontanano l’uomo antico dal moderno, c’è un buco di
trama: e a Leopardi interessa proprio quel
passaggio, il momento in cui «Bruto aveva dubitato della virtù e in pari tempo
l’aveva affermata con l’azione e il comportamento», ergendosi a «eroe di frontiera,
insieme antico e moderno»[533]. Per dirla con Luporini,
il Bruto minore è una «zona», «il
luogo poetico dove si trasfigura la virtù da antica a moderna»[534]. E Leopardi la assume
tutta su di sé.
2. BRUTO E TEOFRASTO:
«L’ULTIMA ETÀ DELL’IMMAGINAZIONE»
Se
procedi t’ imbatti
tu forse
nel fantasma che ti salva:
si
compongono qui le storie, gli atti scancellati pel giuoco del futuro[535].
A completare il quadro semantico del mutamento, non basta
più solo il cesaricida pomposo del Bruto
minore, ma deve necessariamente subentrare il Bruto della Comparazione delle sentenze di Bruto minore
e di Teofrasto vicini a morte – che è sempre il medesimo personaggio,
penitente e traditore della virtù, ma visto “dall’esterno” ed esente dal
pronunciare qualsiasi monologo. Nella Comparazione,
diversamente dalla canzone, Bruto non è rappresentato tanto come un eroe,
quanto, piuttosto, come un antieroe: infatti, nel testo in prosa, «essenziale,
sintetica, inascoltata, la sentenza di Bruto si incentra sul solo problema
dell’abiura della virtù e della contrapposizione alla fortuna» – spiega
Zandrino – mentre «nel monologo della canzone, concitato e gridato, convulso
e acceso, enfatico e aulicamente
forzato, la negazione della virtù stessa in assoluto […] è unita alle accuse
blasfeme contro “gl’inesorandi Numi”»[536],
e alle considerazioni di natura speculativa proprie del Leopardi
neo-filosofo.
Un altro aspetto
rilevato da Zandrino riguarda la peculiare solitudine del Bruto leopardiano
che, nel suo ritiro privato, sperimenta su di sé quella mutazione della natura
dei tempi che si riversa, inesorabilmente, sulla sua persona, facendo di lui
l’unico testimone di una metamorfosi epocale. In questo Leopardi prende le
mosse dalle fonti storiche, poiché «la solitudine fisica e morale dell’eroe
leopardiano rovescia soprattutto l’immagine ideale plutarchiana di Bruto che
ritiratosi in disparte con due o tre amici si uccide con l’aiuto di Stratone»[537], confortato di non esser
stato deluso se non dalla fortuna.
Così infatti viene descritto
l’atteggiamento del suicida di Filippi nella Comparazione:
Di poi ci hanno a persuadere che un
uomo sopraffatto da una calamità eccessiva e irreparabile, disanimato e
sdegnato della vita e della fortuna; uscito di tutti i desiderii, e di tutti
gl’inganni delle speranze; risoluto di preoccupare il destino mortale e di
punirsi della propria infelicità; nell’ora medesima che esso sta per dividersi
eternamente dagli uomini, s’affatichi a correr dietro al fantasma della gloria,
e vada studiando e componendo le parole e i concetti per ingannare i
circostanti, e farsi avere in pregio da quelli che egli si dispone a fuggire, e
in quella terra che se gli rappresenta per odiosissima e dispregevole[538].
Leopardi ha optato cioè per una scena vuota, un quadro da
cui emerge il testamento solipsistico di un
individuo di fronte all’umanità: al contrario, lo stesso Bruto «ne Le vite parallele, si uccide rendendo,
di fronte agli amici, alta testimonianza alla virtù e alla libertà repubblicana
con la stessa serena consapevolezza di Catone, simbolo della libertà»[539]. E perciò Leopardi porta
in scena non un Bruto storico, ma un Bruto morale, quasi filosofo – antico ma
non ancora moderno –, che si rende conto che «un’altra felicità
non si trova» e che «la filosofia moderna non si dee vantare
di nulla se non è capace di ridurci a uno stato nel quale possiamo esser
felici»[540]: se le virtù antiche
convenivano all’uomo, le loro larve moderne non gli convengono affatto, e se
«allora si viveva anche morendo, […] ora si muore vivendo», poiché i tempi
nuovi sono decaduti in mano alla barbara ragione. È chiaro allora che «tale
ragione risiede precisamente nel fatto che i moderni hanno sviluppato quel
positivo principio spirituale che, per Leopardi, è causa di decadenza e insieme
di infelicità»[541], e che dunque «questo è
anche il vero discrimine fra le due essenziali e opposte fasi della civiltà
umana»[542].
Riguardo a questo
discrimine, e all’importanza che la scienza del vero ha assunto nei modelli di
pensiero antico e poi moderno, Leopardi riflette in alcuni brani dello Zibaldone del 1820 dedicati alla figura
di Teofrasto (in quanto filosofo antico, saggio e tutto dedito alla scienza del
vero). La predilezione per Teofrasto (rispetto a Bruto) è evidente nella misura
in cui, secondo Luporini, questi brani sembrano in un primo momento seguire un
percorso tematico a sé, al punto che «il ricorso comparativo al personaggio
Bruto appare pressoché un puntello per dare robustezza di contrasto, con la singolarità
dell’accostamento, a ciò che Leopardi voleva dire di Teofrasto»[543], ma in realtà «da
quell’accostamento molto costruito,
sia negli elementi differenziali sia in quelli d’identità, scaturiscono
significati altrimenti non riducibili a ognuno dei due personaggi separatamente
presi»71:
Del rimanente mi pare che
Teofrasto, forse solo fra gli antichi o più di qualunque altro, amando la
gloria e gli studi, sentisse per altro l’infelicità inevitabile della natura
umana, l’inutilità de’ travagli e soprattutto l’impero della fortuna e la sua preponderanza sopra la virtù
relativamente alla felicità dell’uomo e anche del saggio, al contrario
degli altri filosofi tanto meno profondi quanto più superbi, i quali
ordinariamente si compiacevano di credere il filosofo felice di per se, e la
virtù sola o la sapienza bastanti per se medesime alla felicità. Laonde
Teofrasto non ebbe giustizia dagli antichi, incapaci di conoscere quella
profondità di tristo e doloroso sentimento che lo faceva parlare. […] Ma così
si
vede anche che Teofrasto,
conoscendo le illusioni, non però le fuggiva o le proscriveva, come i nostri
pazzi filosofi, ma le cercava e le amava[544].
Una delle prime divergenze che si incontrano tra il pensiero
di Teofrasto e quello di Bruto sta nella loro considerazione della fortuna: se
per il primo «l’impero della fortuna» si ergeva sopra la virtù e la felicità,
per il secondo è invece tutto il contrario, come si evince già dall’incipit della Comparazione. Qui, sono le stesse parole di Bruto, secondo la
testimonianza di Cassio Dione, a sottolineare questa gerarchia: «O virtù miserabile, eri una parola nuda, e
io ti seguiva come tu fossi una cosa: ma tu sottostavi alla fortuna»[545]. E infatti, proprio presso
gli antichi la fortuna era considerata un’entità di forza superiore, al pari di
una «ferrata necessità», poiché era in grado, talvolta, di privare gli uomini
della felicità, «la quale essi stimavano possibilissima a conseguire, anzi
propria dell’uomo, se non quanto la fortuna gliela vietasse»[546]. Come ha rilevato
Luporini, la Comparazione «si svolge
sul filo, ora più evidente ora più nascosto, di un interrogativo: ha Teofrasto
“vicino a morte” (come del resto Bruto, a sua guisa) oltrepassato veramente
quel limite degli antichi?». Quel limite risiederebbe proprio nel concetto di
“fortuna”, e dunque i casi di Bruto e Teofrasto sarebbero esemplari proprio
perché i due «pronunciando in punto di morte quelle sentenze si sono collocati
al di là di quel limite»[547]:
E più maraviglia ci debbono fare le
sentenze di Teofrasto, quanto che le condizioni della sua morte non si potevano
chiamare infelici, e non pare che Teofrasto se ne potesse rammaricare, avendo conseguito e goduto fino allora per
lunghissimo spazio il suo principale intento, ch’era stata la gloria.
Laddove il concetto di Bruto fu come
un’ispirazione della calamità, la quale alcune volte ha la forza di
rivelare all’animo nostro quasi un’altra terra, e persuaderlo vivamente di cose
tali, che bisogna poi lungo tempo a fare che la ragione le trovi da se
medesima, e le insegni all’universale degli uomini, o anche de’ filosofi
solamente[548].
Sebbene il testo metta in primo piano le ultime sentenze di
due “anime grandi” che, con la loro apostasia, rinnegano i valori che avevano
contrassegnato la loro vita, «Leopardi
mostra di apprezzare Teofrasto perché, comunque egli fosse
giunto a quelle sue ultime conclusioni, il suo percorso di vita […] è stato una
via del sapere concreto»[549]. Teofrasto – a differenza
di Bruto che, invece, si ritrova ad essere tanto più violento quanto più si era
illuso – è già disilluso e per questo, anche negli ultimi istanti, si mostra
calmo e consapevole: perciò Teofrasto dichiara la vanità della vita, e la quasi
inesistente correlazione tra virtù e felicità, «ma pur avendo compreso la
nullità e verità d’ogni cosa, procura non solo di nasconderla e dissimularla
agli altri, ma anche a se medesimo»[550].
Spesa l’intera vita a studiare la scienza del vero, di certo «non è maraviglia
che Teofrasto arrivasse a conoscere la somma della sapienza, cioè la vanità
della vita e della sapienza medesima»[551]:
sempre nello Zibaldone, infatti, è presente un brano che verrà ripreso
nella Comparazione, in cui le parole
di Teofrasto riportate da Leopardi gli appaiono come «una voce isolata di
pessimismo ragionato […] in un mondo ancora rigoglioso di illusioni»[552]:
Diogene Laerzio […] dice dunque che
Teofrasto venuto a morte e domandato da’
suoi discepoli se lasciasse loro nessun ricordo o comandamento, rispose: Niuno;
salvo che l’uomo disprezza e gitta molti piaceri a causa della gloria. Ma non
così tosto incomincia a vivere, che la morte gli sopravviene. Perciò l’amore
della gloria è così svantaggioso come che sia. Vivete felici, e lasciate gli
studi, che vogliono gran fatica; o coltivategli a dovere, che portano gran
fama. Se non che la vanità della vita è maggiore che l’utilità. Per me non è
più tempo a deliberare: voi altri considerate quello che sta più spediente. E
così dicendo spirò [553].
La Comparazione costituisce un’importante riflessione attorno alla
vanità delle illusioni e alla superiorità della scienza in quanto portatrice di
verità cosiddette “assolute”, le quali denudano l’uomo dal velo protettivo
dell’immaginazione e lo discostano dal senso di
devozione verso gli ideali: si legge infatti che «Teofrasto
[…] moriva, diciamo così, penitente della gloria, come poi Bruto della virtù»[554]. Le due apostasie, specie
quella del pensatore greco, dimostrano non solo la vanità delle illusioni ma
anche il continuo impulso a desiderarle e cercarle, perché «se Teofrasto vicino
a morte le abbandonò e quasi le rinegò come Bruto, questo stesso è una prova di
quanto le avesse amate, perché non si ripudia quello che non s’è mai amato, né
si abbandona quello che non s’è mai seguito»[555].
Ne deriva che l’ampia disamina di Leopardi sopra i due testamenti di Bruto e
Teofrasto sia volta a criticare la mentalità arcaica (e illusa) su cui
poggiavano le credenze d’un tempo, frutto di errori atavici e grossolani[556]: lui pone per entrambi «la
questione del sentire» [557] , perché vuole
disperatamente «cercare quello che potesse avere indotto nell’animo di
Teofrasto il sentimento della vanità della gloria e della vita» [558]. E di conseguenza si può
affermare che nella Comparazione
emerge, attraverso Teofrasto, la denegazione già tipica dei greci di quegli
«errori magnanimi che abbelliscono o più veramente compongono la nostra vita»[559]. La questione, per
Leopardi, è serissima: al centro vi era l’indagine delle differenze tra antichi
e moderni, non tanto per quel che riguarda usi e costumi quanto per la
concezione dell’etica e della morale[560].
Nello sviluppo
interno della Comparazione, Leopardi
mette ugualmente in evidenza anche la rivolta di Bruto, che però differisce da
quella del filosofo greco per la «natura diversa de’ tempi», dal momento che
Teofrasto gli ebbe, se non propizi,
tuttavia non ripugnanti a quei sogni
e a quei fantasmi che governarono i
pensieri e gli atti degli antichi. Laddove possiamo dire che i tempi di Bruto
fossero l’ultima età dell’immaginazione, prevalendo
finalmente la scienza e l’esperienza
del vero e propagandosi anche nel popolo quanto bastava a produr la
vecchiezza del mondo. Che se ciò non fosse stato, nè quegli avrebbe avuta
occasione di
fuggir la vita, come fece, nè la
repubblica romana sarebbe morta con lui. Ma non solamente questa, bensì tutta
l’antichità, voglio dir l’indole e i costumi antichi di tutte le nazioni
civili, erano vicini a spirare insieme colle opinioni che gli avevano generati
e gli alimentavano89.
Certo è che mentre l’apostasia di Teofrasto si distingue
come un atto di immensa onestà intellettuale, in quanto «le filosofie degli
antichi avevano serbato una funzione sociale, di stimolo alla virtù, che
mancava alle aride filosofie moderne»[561],
quella di Bruto appare svalutata, poiché lui ha compiuto il suo atto libero in
una circostanza estremamente non favorevole che sembra aver mancato il
tempismo. Ma si noti anche un altro particolare: in questo passaggio di testo
sono condensati tutti i temi pregnanti che verranno sviluppati, pochi anni
dopo, nella seconda parte della Storia
del genere umano, ovvero i sogni, i fantasmi, l’immaginazione, il vero (e
questa come le altre Operette
costituisce uno degli «spazi della scrittura nei quali si fanno più esplicite
le allusioni polemiche e satiriche verso il genere umano superbo e sciocco, che
spreca alla vanità e all’egoismo tempo ed energie», ma che al contempo «rimane
cieco e indifferente di fronte alla crudeltà insensibile di cui il presente
stesso è protagonista»)[562].
E la scoperta del vero avviene proprio
durante la quarta età del genere umano, tempo in cui scompaiono le «benefiche
illusioni» [563] e comincia a imperversare
la «vecchiezza del mondo»[564]. A tal proposito, si può
affermare che «questo “avanzamento” nella “scienza del cuore umano”, […] è
nella Comparazione antedatato
rispetto al tempo
89 G.
Leopardi, Comparazione delle sentenze ec.,
in G. Leopardi, Poesie e prose vol. II,
cit., pp. 273-274. Corsivo mio.
di Bruto e a quella “ultima età
dell’immaginazione” che prelude al cristianesimo e all’affermazione del “vero”
su cui poggia il moderno»[565].
Fa notare Campailla, a proposito della
vicinanza tematica tra la Storia del
genere umano e la Comparazione,
che «Leopardi con un elaborato mito viene a dirci quindi quanto già ci aveva
detto con l’apostasia di Teofrasto più che secolare», perché se è vero che il
filosofo impiegò “solo” un secolo per arrivare ad intendere «quanto era meglio
rimanesse nascosto»[566], migliaia di anni quasi
non bastarono agli uomini per raccapezzarsi della loro stessa fralezza e della
(fino allora non intelligibile) fallacia del mondo fenomenico. Sentenzia così
Leopardi-Teofrasto:
Questi tali rinnegamenti, o
vogliamo dire, apostasie da quegli errori magnanimi che abbelliscono o più
veramente compongono la nostra vita […] riescono ordinarissimi e giornalieri
dopo che l’intelletto umano coll’andare dei secoli ha scoperto, non dico la nudità,
ma fino agli scheletri delle cose, e dopo che la sapienza, tenuta dagli antichi
per consolazione e rimedio principale della nostra infelicità, s’è ridotta a
denunziarla […]. Ma fra gli antichi, assuefatti com’erano a credere, secondo
l’insegnamento della natura, che le cose fossero cose e non ombre, e la vita
umana destinata ad altro che alla miseria, queste sì fatte apostasie cagionate,
non da passioni o vizi, ma dal senso e discernimento della verità, non si trova
che intervenissero se non di rado[567].
Dunque, è chiaro che il recanatese aveva già da tempo
maturato un fermo ragionamento sopra la «infinita vanità del tutto», volto a
mostrare che la condizione di infelicità dei moderni, in fin dei conti, non si
discosta così tanto da quella degli
antichi; tant’è che nella Comparazione
il giudizio leopardiano sulla classicità risulta a tratti ambivalente, proprio
perché poggia su quel pessimismo di matrice greca (di cui Teofrasto è
portavoce) che fa sentire i suoi echi anche nel racconto esistenziale della Storia del genere umano97.
Tuttavia – continua Campailla – c’è una
differenza da tenere in considerazione: «mentre Teofrasto aveva combattuto sino
alla fine in nome delle illusioni e le aveva con fini premeditati alimentate
negli altri […], persino il potentissimo Giove ad un certo
momento rinunzia a lottare e si arrende alla superiore
necessità»[568], dal momento che la
protervia dei mortali mette a dura prova anche la pazienza divina. E così, come
gli uomini della Storia, anche
Teofrasto sceglie di subordinare la «scienza universale […] non allo studio né
alla ricerca del bello, ma del suo maggior contrario, ch’è propriamente il vero»[569], pagando però a caro
prezzo ciò che da quello studio deriva, e cioè «la vanità della vita e della
sapienza medesima; […] l’inutilità de’ sudori umani, e così degl’instituti suoi
propri come degli altrui»[570].
E una volta che tutte
le illusioni hanno lasciato posto alle loro fievoli ombre, e tanta disperazione
e noia hanno prodotto innumerevoli suicidi ignobili – col rischio di decadere
verso un «serraglio di disperati» –, gli uomini si trovano «dominati dalla
verità, che funziona come rivelazione ulteriore e definitiva del loro stato
infelice» [571], e si scoprono del tutto
«privati della speranza; colla quale dal principio insino al presente, più che
con altro diletto o conforto alcuno, sostentarono la vita»[572].
Dunque, rivolto lo sguardo al vero, gli uomini arrivano finalmente a scontrarsi
con la sostanza che sottende il motore dell’esistenza, e cioè un amaro
sentimento di vanità e noia, un mero inganno che giustifica la falsità delle
illusioni e distrae l’individuo dalla sua condizione di inguaribile
infelicità.
Tornando alla Comparazione, Leopardi ha
voluto mettere in evidenza non tanto il contenuto delle due apostasie, quanto
il modo in cui i due penitenti hanno rovesciato il senso della propria vita[573]. E se la sentenza di
Teofrasto non è influenzata da contingenze esterne, e si conclude tutta nel
mero giudizio verbale lasciato ai posteri, per Bruto «la volontà di verità è
volontà suicida»[574]; e dunque il suo
testamento si traduce in un gesto fisico di estrema violenza perché in fondo
capisce che l’esistenza ha come suo unico fine l’infelicità:
Pare che l’essere delle cose abbia
per suo proprio ed unico obbietto il morire. Non potendo morire quel che non
era, perciò dal nulla scaturiscono le cose che sono. Certo l’ultima causa
dell’essere non è la felicità; perocché niuna cosa è felice. Vero è che le
creature animate si propongono questo fine in ciascuna opera loro; ma da niuna
l’ottengono: e in tutta la loro vita, ingegnandosi, adoperandosi e penando
sempre, non patiscono veramente per altro, e non si affaticano, se non per
giungere a questo solo intento della natura, che è la morte[575].
Dalla sentenza di Bruto all’amaro finale del Cantico del gallo silvestre emerge, in
ultimo, che «il passaggio a una dimensione cosmica del male, a una
constatazione della sofferenza inscritta nella natura umana implica il crollo
del valore positivo delle illusioni, che avevano costituito finora il
fondamento del vitalismo leopardiano»[576]
(di fatto, la Comparazione non fu, al
pari del Bruto minore, un’opera generata
da un impulso poetico durato venti giorni, ma la conseguenza di una lunga serie
di letture da cui scaturisce una concezione del mondo via via più pessimistica
e negativa destinata a protrarsi negli anni).
Dal ’22 a distanza di pochi anni, ancora
si può cogliere «l’intento leopardiano di rivestire un programma attuale di
riforma morale di panni antichi, attraverso una rilettura personale della
filosofia classica»[577], come conferma la lettera
del 1825 a Melchiorre Missirini:
Ella mi ricorda molto a proposito
il detto di Augusto vicino a morte, il quale si poteva aggiungere a quelli di
Bruto e di Teofrasto. Se volessi scusare il mio silenzio, direi, non ch’io
volessi lasciare agli uomini il culto della fortuna, divinità traditrice, ma
che avendo tolto alla nostra misera vita
la virtù e la gloria, a me parve aver fatto tutto, ed assai più che se le
avessi anche voluto togliere la fortuna, la quale dai più dei filosofi (almeno
in parole) è tenuta per molto inferiore alla gloria ed alla virtù. Onde avendo
io ridotti gli uomini alla fortuna, non mi parve necessario di aggiunger altro,
perché pochi ignorano la vanità di lei. E molti
antichi e moderni hanno, come Augusto, rassomigliato il mondo a un teatro, e la
vita umana a una commedia; ma non molti, massimamente tra gli antichi, hanno
come Bruto e Teofrasto pronunciata solennemente la vanità della gloria, anche
giusta e degna, e della stessa virtù[578].
La lettera dimostra che a pochi anni di distanza dalla
stesura sia della canzone che della Comparazione,
il tema del rinnegamento della virtù e della gloria è ancora ben vivo in
Leopardi. Non solo: la Comparazione non è solo un proseguimento del (o, se si vuole,
un’introduzione al) Bruto
minore, perché anzi «in Teofrasto e in Bruto si compie una meta-riflessione
più ardita, che mette in discussione i fondamenti dell’etica classica, che identifica
felicità e virtù»[579]. E se da una parte il
recanatese si riconosce anche in Teofrasto, perché «aveva – come il Leopardi
giovane – un “sapere enciclopedico” […]» e perché «il pessimismo non aveva
spento in lui, come nemmeno nel Leopardi, la fiamma patriottica e libertaria!»[580], dall’altra (e per molti
anni) Bruto rimarrà il suo fantasma, la sua larva accompagnatrice. Similmente a
quanto sostenuto nel paragone tra il Bruto
e la Saffo, anche in questo caso
si può affermare che Bruto e Teofrasto siano due metà complementari del
pensiero del recanatese, «quella alfieriana e agonistica, quale si era espressa
nelle Canzoni, e quella ragionativa e filosofica, a cui il Leopardi avrebbe di lì
a poco dato espressione nelle Operette»[581].
3. VERSO L’ATARASSIA:
EPITTETO E LA MORALE
Piove sui
nuovi epistèmi del primate a due piedi,
sull’uomo indiato, sul cielo ominizzato, sul ceffo dei teologi
in tuta o paludati, piove sul
progresso della contestazione, piove sui works in regress, piove
sui cipressi malati del cimitero, sgocciola sulla pubblica
opinione[582].
Con la Comparazione
delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto vicini a morte affiora in
Leopardi una preoccupazione pedagogica nel ricercare un equilibrio tra la
constatazione – alquanto cinica – di quel “nulla” che è l’esistenza, e il falso
appiglio luminoso su cui poggia il progresso. Così, nella sentenza di
Teofrasto, si pone una «sfida […]: nulla
detrarre al vero, senza spregiare le
illusioni. Compiere un passo indietro
per
non precipitare nell’abisso del
nulla, ma per sostarvi, nel periodo breve della nostra vita, con il conforto effimero delle nostre opere»113.
Ora, nella misura in cui le riflessioni
storico-civili di Leopardi passano in rassegna passato e presente, mescolando
antichità e contemporaneità (specie quando si sofferma sul clima di riforma da
lui stesso vissuto) alla ricerca di un modello regolativo, non si può, per
continuità tematica con la Comparazione,
non prendere in esame il Manuale di
Epitteto – o meglio: il Preambolo del
volgarizzatore a detto manuale (a cui Leopardi era così legato tanto da
compierne una traduzione a suo modo personale)114. L’accostamento delle
due opere non è casuale, dal momento che era stato proprio lo stesso Giacomo, a
quell’epoca seguace della Stoa, a volerle pubblicare assieme[583]:
Consegnai al signor Moratti il 2°
volumetto del Petrarca, e con questa
gli consegno, raccomandandoglielo caldamente, il ms. dell’Epitteto, che ho ben riveduto e corretto, alzandomi a bella posta
da letto. Confesso che ne sono stato soddisfatto assai: almeno è certo che io
non saprei far di meglio […]. Se mai per accrescere il volume dell’Epitteto, ella
volesse aggiungervi la mia Comparazione
delle sentenze di Bruto e di Teofrasto (cosa che ha relazione colla
filosofia stoica, e che in Lombardia non ha potuto esser conosciuta), ella me
lo indichi, e nel riveder le prove di stampa, io vi farò quei miglioramenti che
tengo già preparati per una seconda edizione[584].
Di contro agli ammonimenti dello zio Carlo Antici [585] , Leopardi si
era più volte raccomandato con gli editori affinché i due testi figurassero
nella stessa sede, perché «un’analoga componente di virile eroismo – quale
quella affidata per comune sentenza a
113 A.
Vigorelli, op. cit., p. 191.
114 Cfr. A.
Dolfi, op. cit., pp. 414-415: «Il
lessico dell’Epitteto leopardiano, pur legato e ancorato alle ragioni di un
libro preesistente (rispettato anche nella sua antica misura), risente insomma
e registra quel particolare lessico che sarebbe stato peculiare delle Operette morali, caratterizzato nel suo
complesso dalla possibilità di spostamenti di tono, dalla mescolanza
significativa di arcaismi e loquela quotidiana (a livello sintagmatico e
sintattico), dalla ricerca della chiarezza, del gusto e dell’eufonia».
Bruto – doveva circolare anche nella radicale e decisa
convinzione stoica», mediata in questo caso da Epitteto, «che non mancava di
fargli dichiarare contro l’opinione del secolo, il disprezzo per la vita e la
riduzione dei desideri e delle cose a nulla»[586].
Anche se, come rileva Timpanaro, «una
piena adesione del Leopardi alla morale di Epitteto era impedita non solo dalla
componente agonistica del suo pessimismo, […] ma anche da precedenti esperienze
nel campo della stessa filosofia greca, a cominciare da Teofrasto»[587], già da tempo il
recanatese si era avvicinato ai moralisti greci come Socrate ed Epicuro,
chiamati in causa nel ’24 nei Detti
memorabili di Filippo Ottonieri:
Nella vita, quantunque
temperatissimo, si professava epicureo, forse per ischerzo più che da senno. Ma
condannava Epicuro; dicendo che ai tempi e nella nazione di colui, molto
maggior diletto si poteva trarre dagli studi della virtù e della gloria, che dall’ozio,
dalla negligenza, e dall’uso delle voluttà del corpo; nelle quali cose quegli
riponeva il sommo bene degli uomini. Ed affermava che la dottrina epicurea,
proporzionatissima all’età moderna, fu del tutto aliena dall’antica. Nella
filosofia, godeva di chiamarsi socratico; […] nè anche ragionava, al modo di
Socrate, interrogando e argomentando di continuo; perché diceva che, quantunque
i moderni sieno più pazienti degli antichi, non si troverebbe oggi chi
sopportasse di rispondere a un migliaio di domande continuate, e di ascoltare
un centinaio di conclusioni[588].
La vicinanza di questo passo
dell’operetta al Preambolo del Manuale era già stata notata, a suo
tempo, da Fubini, che sottolinea l’importanza che la dottrina stoica (e in
generale i dettami propri della saggezza antica) aveva significato per Leopardi
nel corso degli anni, anche se «ideali non potevano essere per lui né l’apatia degli stoici né l’atarassia degli epicurei»[589]. Al di là, comunque,
dell’interpretazione di Fubini, va detto che «la filosofia ironica, tanto nel
caso di Socrate quanto in quello dell’Ottonieri e di Leopardi, nasce come una
sorta di reazione alla generale insensibilità del mondo»[590].
Ironia, dunque, da una parte, e stoicismo dall’altra: ma ciò non significa che,
per Leopardi, i due modi di interpretare la vita si escludano a vicenda.
Nella considerazione dello stoicismo
come filosofia propria degli spiriti deboli, dopo l’Ottonieri «l’interpretazione di Leopardi raccoglie lo spirito di
Epitteto, ma nello stesso tempo rivela tutte le sofferenze di un’anima e di
un’epoca tormentata» [591] . Riprendendo
quindi di sua sponte la dottrina stoica nel Preambolo
del volgarizzatore al Manuale,
incorpora il pensiero di Epitteto («applicato da Leopardi alla propria
esperienza interiore»)[592] nella sua filosofia che, come confessa a Giampietro Vieusseux nel marzo del
’26, gli sarà sempre utile negli anni a venire per «sopportar l’esistenza»:
Credetemi che quel poco (veramente
poco) che io posso, lo spenderei volentieri tutto in servizio dell’Italia e
vostro, aiutandovi in cotesta impresa secondo le mie forze, e che conosco e
apprezzo l’onore che voi mi fate giudicandomi capace di esservi utile. […] Tenete
dunque per costante che la mia filosofia (se volete onorarla con questo nome)
non è di quel genere che si apprezza ed è gradito in questo secolo; è bensì
utile a me stesso, perché mi fa disprezzar la vita e considerar tutte le cose
come chimere, e così mi aiuta a sopportar l’esistenza; ma non so quanto possa
esser utile alla società, e convenire a chi debba scrivere per un Giornale[593].
Anche se «le mode filosofiche tra gli
anni Venti e Trenta finiscono per coinvolgere e infine mobilitare Leopardi più
di quanto egli stesso non avrebbe preveduto quando […] si barricava dietro il
proprio isolamento»[594], il richiamo che il
recanatese avvertiva per il Manuale
(da lui considerato un «manuale di rassegnazione»)[595]
era più forte di ogni altra moda. L’attrazione per la morale greca, e in
particolare per Epitteto, non era data solo dalla sintonia tra la sua
sensibilità matura e lo spirito della Stoa, ma anche dall’intersecarsi dei temi
trattati dall’antico pensatore con il nuovo linguaggio leopardiano della conversione
alla prosa, tutto dedito, ormai, allo svelamento e all’analisi della sola
scienza dell’essere, ossia il vero:
Ed io, che dopo molti travagli
dell’animo e molte angosce, ridotto quasi mal mio grado a praticare per abito
il predetto insegnamento, ho riportato di cosí fatta pratica e tuttavia riporto
una utilitá incredibile, desidero e prego caldamente a tutti quelli che
leggeranno queste carte, la facoltá di porlo medesimamente ad esecuzione[596].
Rispetto ad ogni altra traduzione, con l’Epitteto il recanatese intendeva fondere
un interesse personale con la necessità di divulgare un messaggio a un
«pubblico da muovere e convincere all’esecuzione»129 – per quanto
lui si ritenesse poco utile alla società –, similmente a quanto aveva fatto già
l’anno prima con il Discorso sopra lo
stato presente dei costumi degl’Italiani130, sempre spinto da
quella verace volontà di scuotere la sua «povera patria». E nonostante si
presentasse lui stesso come «più absent di
quel che sarebbe un cieco e sordo»[597],
come «moralista solitario, incapace di studi sociali e anzi disprezzando
apertamente la politica»[598], l’avvicinamento alla
tradizione filosofica di matrice greca nel ’24-’25 vede emergere una sorta di
impegno pedagogico del Leopardi più maturo, che si distacca dall’espressione
poetica individualistica delle canzoni dei primi anni ’20 per addentrarsi nello
studio dei rapporti sociali degli uomini con gli altri uomini e con la natura,
per quanto «superficialmente» lui stesso intendesse di conseguirlo[599]. Ma, d’altra parte, «i
valori etici su cui Leopardi ha ragionato nel Discorso sui costumi e in ampia parte dello Zibaldone, arrivano a consunzione, sono corrosi dalla realtà del
mondo smascherato dalla ragione speculatrice»[600],
e la morale (quella che Chiara Fenoglio definisce una «morale fragile»)[601] diventa l’unica maestra
che permette a chi la segue di intuire la vanità della vita. Se è vero che a
dissipare tutte le magnanime
129 A. Dolfi, op. cit., p. 413.
130 Cfr. il
commento di R. Melchiori in G. Leopardi, Discorso
sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani, edizione diretta e
introdotta da M.A. Rigoni, testo critico di M. Dondero, commento di R. Melchiori,
Milano, Rizzoli, 1998, p. 85: «Il titolo riecheggia, probabilmente, l’Essai sur les mœurs et l’esprit des nations
(1756) di Voltaire. Ma, tra gli “antecedenti” del titolo, sono da ricordare
nello stesso tempo l’Argomento di una
canzone sullo stato presente dell’Italia (1818) e il IV dei Disegni letterari (18191821) in cui si
accenna a un’opera che avrebbe dovuto chiamarsi Della condizione presente delle lettere italiane (cfr. G. Leopardi,
Poesie e prose [vol. I, cit., p. 620 e vol.
II, cit., p. 1207])».
illusioni utili ai popoli «per vivere, agire, espandersi e
anche semplicemente per esistere» è stato l’eccessivo sviluppo della coscienza
e del sapere, ne deriva che «ogni passo verso la conoscenza è un passo verso la
vacuità e la paralisi, poiché la scoperta del vero non è altro che la scoperta
del nulla»[602]:
L’ambizione può avere varie forme e
vari fini. Una volta ella era desiderio
di gloria, passione che fu comunissima. Ma ora questa è cosa troppo grande,
troppo nobile, troppo forte e viva perch’ella possa aver luogo nella piccolezza
delle idee e delle passioni moderne,
ristrette e ridotte in angustissimi termini e in bassissimo grado alla ragione
geometrica e dallo stato politico delle società; perch’ella possa compatire
collo stato di freddezza e mortificazione che risulta universalmente dalla vita
civile delle dette cause; e la gloria è
un’illusione troppo splendida e un nome troppo alto perché possa durare dopo la
strage delle illusioni, e la conoscenza della verità e realtà delle cose, e
del loro peso e valore. L’amore della
gloria è incompatibile colla natura de’ tempi presenti, è cosa obsoleta
come le usanze e le voci antiquate, non sussiste più, o è così raro, e dove
anche sussiste è così debole e inefficace che non può esser principio di grandi
beni alla società e molto meno servirle di vincolo, quale egli era in gran
parte una volta[603].
Dal nucleo produttivo del ’24 si evince come «pessimismo,
progressivismo, antiteodicea, tutti derivano da una precisa delusione storica e
da una serie di riflessioni morali, di una morale protestataria, non mai
remissiva»[604]: una volta affacciatosi al
vero (e dunque alla filosofia), Leopardi perviene ad affermare che, dopo la
«strage delle illusioni», l’uomo moderno è sviscerato di quei sentimenti che un
tempo guidavano le azioni grandi, e si ritrova debilitato di quella forza con
cui si opponeva al fato. E se l’uomo moderno è quindi un soggetto debole, «a
quest’uomo, che non è forte, non ha aspetto eroico, ma si manifesta in tutta la
sua fragilità e nella sua debolezza»[605]
può occorrere in aiuto la filosofia stoica, poiché suggerisce una via di
alleggerimento dal dolore e dalle fatiche, nell’esercizio – quasi ascetico – dell’atarassia[606]:
So bene che a questo mio giudizio è
contraria la estimazione universale, reputandosi comunemente che l’esercizio
della filosofia stoica non si confaccia, e non sia pure
eziandio possibile, se non
solamente agli spiriti virili e gagliardi oltre misura. Laddove in sostanza a me pare che il principio e la ragione di
tale filosofia, e particolarmente di quella di Epitteto, non istieno giá, come
si dice, nella considerazione della forza, ma si bene della debolezza dell’uomo;
e similmente che l’uso e l’utilitá di detta filosofia si appartengano piú
propriamente a questa che a quella qualitá umana. Perocché non altro è quella tranquillitá dell’animo voluta da
Epitteto sopra ogni cosa, e quello stato
libero da passione, e quel non darsi pensiero delle cose esterne, se non
ciò che noi chiamiamo freddezza d’animo, e noncuranza, o vogliasi indifferenza[607].
La componente moralistica, rassegnata, del pensiero
leopardiano si pone come contrappunto allo sforzo combattivo del Bruto minore: se dal vigore delle
illusioni scaturiva un’egoistica sfida alla «ferrata necessità», quasi
noncurante della sorte individuale, «così nella morale della decadenza,
enunciata da Epitteto, la coscienza dei mali e dell’infelicità degli esseri
induce, per la via sinistra della ragione, a “non curarsi di esser beato né
fuggire di essere infelice”»[608]. E però, nel momento in
cui la natura illusoria della morale era già stata intuita da Teofrasto, essa
diventa «una vera e propria forma del vivere»[609]
grazie a coloro che, come Bruto e Teofrasto, conoscevano e predicavano la
vanità delle illusioni. E a quel punto occorreva un ideale di saggezza che
potesse insomma condurre alla piena consapevolezza di sé e delle proprie
emozioni, che svelasse non l’occulto segreto dell’arte di essere felice (che «è
cosa rancida; insegnata da mille, conosciuta da tutti, praticata da pochissimi,
e da nessuno poi con effetto»)[610], ma piuttosto quella di
rassegnarsi all’infelicità – che è il naturale stato delle cose –, per arrivare
a una controllata indifferenza, a una «una filosofia pratica, che avesse
l’unico scopo di guidare al vivere, che soprattutto nascesse dall’analisi della
realtà, al punto di scordare o non accorgersi quasi di essere filosofia»145:
Questo altro stato di pace, e quasi
di soggezione dell’animo, e di servitú tranquilla, quantunque niente abbia di
generoso, è pur conforme a ragione, conveniente alla natura mortale, e libero
da una grandissima parte delle molestie, degli affanni e dei dolori di che la
vita nostra suole essere tribolata. Imperocché veramente a ottenere quella
miglior condizione di vita e quella sola felicitá che si può ritrovare al
mondo, non hanno gli uomini finalmente
altra via se non questa una, di rinunciare, per cosí dire, la felicitá, ed
astenersi quanto è possibile dalla fuga del suo contrario. Ora la noncuranza
delle cose di
fuori, ingiunta da Epitteto e dagli
altri stoici, viene a dire questo appunto, cioè non curarsi di essere beato né fuggire di essere infelice[611].
Come si evince da questo passo del Preambolo, pare che la dottrina stoica
induca l’uomo a conformarsi a una posizione spirituale che è anch’essa (come
Bruto, come Giacomo) in limine, una
sorta di stato d’animo di confine poiché non è né da una parte né dall’altra:
non è felice, e tuttavia non è infelice: di fatto, l’«utilità di questa
disposizione, e della pratica di essa nell’uso del vivere» – spiega Leopardi –
«nasce solo da questo, che l’uomo non può nella sua vita per modo alcuno nè
conseguir la beatitudine nè schivare una continua infelicità»[612].
L’Epitteto si mostrava a Leopardi come
l’«anello conclusivo di quella catena che secondo la Comparazione aveva portato Teofrasto all’analisi della nullità […]
col massimo della sapienza, là dove Bruto aveva usato invece l’intuizione, il
massimo della passione»[613]. Ma i tempi son cambiati,
e alle illusioni antiche ne sopraggiungono di diverse, alle quali si sarebbe
potuto affidare (probabilmente!) Bruto se avesse nutrito anche solo un poco di
fiducia nel futuro:
A’ nostri tempi, […] l’ambizione
produce un altro sentimento tutto moderno,
e di natura sua, siccome di fatto e di nascita, posteriore alle grandi illusioni dell’antichità. Questo sentimento è quello che si chiama
onore. È un’illusione esso stesso, perché consiste nella stima che gl’individui
fanno della opinione altrui verso loro, opinione che rigorosamente
parlando, è cosa di niun conto; ma egli è
un’illusione tanto poco alta e viva e luminosa che facilmente nasconde anche
agli occhi esercitati dalla cognizione del vero, la sua vanità, e può compatire
collo stato presente e colla distruzione di quasi tutte l’altre illusioni, alla
quale ella non ripugna se non mediocremente, atteso la sua natura, per così
dire, fredda e rimessa[614].
Leopardi ha così a cuore l’analisi delle passioni umane, è
così tormentato da quella sua «ossessiva domanda sulla natura e il modo di
raggiungere la felicità»[615], che pensa all’Epitteto proprio come se fosse il suo Manuale di filosofia pratica («cioè un
Epitteto a mio modo»)[616] attraverso cui cerca di
persuadere gli uomini a raggiungere uno stadio di non-renitenza sopprimendo
così il desiderio di esser felici152. Ma questo concetto, si
diceva, può adattarsi solo alla debolezza tipica dell’uomo
moderno: e Bruto, che sta lì sulla soglia, che non è antico che non è moderno,
non si trafigge il fianco con l’amaro ferro per punire sé stesso o il suo
sentimento di infelicità esistenziale, ma lo fa per allontanare un passato
divenuto ormai scomodo, per annullare un uomo che ha creduto stoltamente in un
abbaglio ora spento. Bruto «si uccide non per negazione, ma per affermare,
attraverso un atto negativo, l’inganno della virtù» [617]
. E non potendo raggiungere la beatitudine né schivare il suo contrario,
è in bilico come quegli uomini che non possono «pervenire a questi fini» e si
ritrovano a far guerra contro il destino:
È proprio degli spiriti grandi e
forti l’ostinarsi nientedimeno in desiderarli e cercarli ansiosamente, il contrastare, almeno dentro sé medesimi,
alla necessitá, e far guerra feroce e mortale al destino, come i sette a Tebe
di Eschilo, e come gli altri magnanimi degli antichi tempi. Proprio
degli spiriti deboli di natura, o debilitati dall’uso dei mali e dalla
cognizione dell’imbecillitá naturale e irreparabile de’ viventi, si è il cedere
e conformarsi alla fortuna e al fato, il ridursi a desiderare solamente poco, e
questo poco ancora rimessamente; anzi, per cosí dire, il perdere quasi del
tutto l’abito e la facoltá, siccome di sperare, cosí di desiderare[618].
L’atarassia predicata da Epitteto è però una filosofia della
rassegnazione che non può adattarsi –
in alcun modo – agli uomini (o agli eroi) di un tempo, specie nel momento in cui
l’atteggiamento di ribellione al fato (che Leopardi esemplifica coi Sette a Tebe di Eschilo) è tipicamente
antico, e dunque «non vi sono che deboli alla ricerca, contro le tribolazioni
dell’esistenza»[619], di uno stato di molle e
tranquillo piacere dell’animo. A differenza dunque di Bruto e degli spiriti
grandi, che vivono esternando anche le più atroci passioni, il fine che
Leopardi si propone con l’Epitteto «è
di riattivare quel sostrato di passività,
occultato e in apparenza rimosso dalla vana ricerca dell’esteriorità, ma suscettibile
di una rinnovata considerazione personale, quale consolazione alla infelicità del vivere»156. Così, solo
gli uomini deboli, che consciamente rinunciano a dominare il
mondo esterno[620],
sono in grado di pervenire a «quella tranquillità d’animo voluta da Epitteto
sopra ogni cosa, e quello stato libero da passione, e quel non darsi pensiero
delle cose esterne, se non ciò che noi chiamiamo freddezza d’animo, e
noncuranza, o vogliasi indifferenza» [621]
. Secondo Anna Dolfi, l’intento più profondo della volgarizzazione dell’Epitteto era quello di fornire una sorta
di epilogo alla Comparazione tramite «l’immagine
di un Bruto che con la saggezza di Teofrasto avrebbe cercato di mitigare
l’eccesso umano», reprimendo per quanto possibile le passioni pericolose. In
questo modo, accostando i due testi Leopardi avrebbe voluto «fondere il Bruto
giovanile col preambolo al volgarizzamento, facendo del Manuale, quale nuda descrizione di uno stato in tempi bui, la terza
sentenza […] di un Leopardi/Epitteto vicino a morte»[622]
– ma anche, se si vuole, una sorta di compendio che amalgamasse nella stessa
sede la saggezza antica con la condizione moderna[623].
4. L’ULTIMA VIRTÙ
Ma quando
non si ha l’abitudine alla storia, la maggior parte dei fatti del
passato sembrano incredibili[624].
Ormai disingannato e libero dai vincoli che un tempo gli
offrivano la fede, la ragione, la virtù, e persino la verità, «il programma
etico leopardiano si riarticola a partire dalle credenze intorno a cui i popoli
hanno edificato la loro identità»[625]:
se la storia, la civiltà e la religione non sono che mere illusioni, è proprio
nel loro essere ingannevole che si deve
trovare la tenacia di agire, spinti dalle passioni civili e dalla nuova
“persuasione” che regge i principi morali. Attorno a queste macrocategorie,
Leopardi condensa tutta la sua riflessione (nel grande inganno universale della
natura): e così, in ultimo, «Paralipomeni
e Ginestra […] compendiano e
rinnovano tutto il pensiero morale leopardiano, o meglio costituiscono il
tentativo di forgiare una morale che sostenga la prova del nulla (nel caso dei Paralipomeni) e di una natura
deantropomorfizzata (nella Ginestra)»[626], arrivando a sintetizzare
nel suo personalissimo pensiero poesia e filosofia – ma una filosofia pratica,
che, come quella dell’Epitteto, possa
permettere all’uomo di sopravvivere alla «strage delle illusioni».
Come si è visto, già nel Bruto minore «l’immagine classica ritrova un fondamento nella
storia e nella psicologia degli individui»[627],
e la virtù si presenta – comunque, a suo modo – certo come eroismo, ma più che
altro come rottura, come momento di respiro al di fuori dell’opacità
dell’inganno: e dunque, «se il mondo è quel complesso di inganni che hanno
verità, la virtù non può che essere rottura, potenza e creazione di un altro mondo.
[…] La virtù, per essere, deve essere creazione» [628].
Ma per Bruto non c’è creazione: nella sua violenza lui esprime il suo radicale
rifiuto del mondo e dell’esistenza. Nel ’21 Leopardi non solo era pervenuto
alla lucida consapevolezza che la virtù non
può
procedere di pari passo con la felicità, ma soprattutto che
la decadenza storica è incontrastabile, al punto che la vicenda del cesaricida
«acquista in Leopardi una valenza astorica, o addirittura anti-storica, data
l’invocazione finale di Bruto e l’auspicio a una forma di oblio che supera la
contingenza e allude al fondamentale rapporto tra uomo e natura»[629]. Nel progresso, nella
storia, il mondo si è svuotato della virtù: di fronte a questa vuotezza,
servirebbe il ritorno di un’altra
virtù, che sia rigogliosa e piena: ma per un disingannato, «la virtù non ha
efficacia e consistenza storica; il mondo, nel suo putridume, sì»[630]. Ma affinché questa virtù
venga riempita è necessario che essa non sia sola, che non sia, insomma,
rinnegata da un unico individuo, ma che una collettività, una «social catena»
di individui la rielabori in funzione di un rinnovamento morale e sociale che
investa la sua potenza contro gli scoperti inganni della natura.
E la negazione di Bruto sembrerebbe
tornare, in forma diversa, con una consapevolezza autoriale diversa e uno stile
diverso, proprio nei Paralipomeni della
Batracomiomachia, «dove è all’opera, senza indulgenza e senza tregua, lo
spirito della negazione pura e universale»: anche nella battaglia dei topi e
delle rane riemergono, inevitabilmente, i fantasmi della gloria della libertà e
della virtù, e Leopardi «non risparmia nulla e nessuno», perché tutti sono
chiamati a giocare la partita tra oppressi e oppressori, tra reazionari e
progressisti; ma soprattutto tra «attese umane e illusioni ultraterrene,
cancellando tutte le vie d’uscita, siano storiche o metafisiche, collettive o individuali»[631].
Se i moti
risorgimentali del ’20-’21 avevano significato per Leopardi un’amara sconfitta,
fra il ’31 e il ’37 la stessa storia si ripete: così che si può leggere nella
grande metafora zoomorfa dei Paralipomeni
della Batracomiomachia (che «portano a compimento il percorso filosofico
leopardiano attraverso il dialogo con gli avi e con la tradizione letteraria al
di là della mera tradizione»)[632] un ulteriore accenno
polemico – nonché una «demistificazione satirica dell’interpretazione
teologizzante delle origini della civiltà»[633]
– dei moti insurrezionali del ’31, comprensivi di riferimenti ai disordini
dei moti di inizio secolo[634].
Di fatto, «questa bruciante esperienza storica […] trova espressione compiuta
nell’amarissima lezione politica insita nella narrazione dell’ascesa e della
caduta del regno di Topaia»[635], quasi fosse, in
parallelo, il corrispettivo post res
perditas del declino inarrestabile della Roma repubblicana oggetto del Bruto. E un po’ come accade nel Bruto minore – così lontano nella storia
ma al contempo così drammaticamente vicino – l’agglomerato di fatti storici
trattato nel poemetto si proietta «nello spessore di una vicenda lontanissima
quanto perenne, che ha il significato di una Urform raggiunta o ripescata dal processo conoscitivo della memoria
e della funzione ingannatrice»[636].
Inoltre, i Paralipomeni rappresentano «il tentativo più ampio e di studio concertato,
per esprimere le variazioni dell’anima leopardiana sul gran tema della vita e della
storia in forma di sentimenti, pensieri, giudizi»[637],
oltre che la scelta di operare un continuo raffronto tra epoche distinte, così
che in questo caso il testo antico diventa oggetto di studio e di confronto con
un presente che rivela la sua modernità sugli antichi attraverso un’ironia
dissacrante propria di quest’ultimo lavoro.
Ma si tenga presente una cosa: dai Canti ai Pensieri allo Zibaldone –
e in ultimo, anche coi Paralipomeni –,
si evince che una delle tante linee dominanti nel pensiero di Leopardi ruota
sempre attorno alla virtù, sia essa ancora «presente e viva» o caduta: così, anche
nel sostrato dell’illusione, «questo mondo senza virtù non riesce tuttavia, e
mai comunque riuscirà, ad eliminare la potenza della virtù»; ma d’altra parte,
come rileva Antonio Negri, «se quello è il mondo, la potenza della virtù non
potrà che essere rottura, discriminazione violenta di quella verità che ci
soffoca»[638].
Certo è che i Paralipomeni rappresentano anche
«l’occasione per ritornare sul nesso filosofia-natura-civiltà che aveva
impegnato lungamente Leopardi fin dal 1820»176, nel momento in cui
l’analisi delle divergenze tra civiltà antica e civiltà moderna aveva
rafforzato la teoria secondo cui
l’uomo antico (come un Bruto minore) vive delle sue passioni esternandole senza
reticenze, mentre l’uomo moderno “imbarbarito” dalla ragione tende, d’altro
canto, a reprimersi nell’osservanza di una moralità di costumi confacente alla
sua epoca. E nel mondo moderno, «la virtù è tolta perché è tolta la potenza del
fare umano, perché è tolta quella potenza in cui consiste il fondamento della
virtù»[639].
Tenendo fede alle sue linee di pensiero
etico-filosofico, che si accordano, per Leopardi, con il proposito di
discorrere attorno alla politica nel segno di un risorgimento della morale
civile, spiega Fabio Russo che nei Paralipomeni
ben autentiche sono in lui la mai
smessa linea antitirannica e la sua maniera di essere liberale legata al
rapporto tra politica e infelicità, non a quello tra politica e condizione
felice, alla rilevanza della Virtù, che diventa il sostegno di una non distorta
prospettiva politica; e si rivela il mezzo per realizzare quella fratellanza
universale che è appunto lo scopo di una sana politica, rivolta in favore
dell’uomo[640].
Infatti, nella sua veste di poema
satirico, ciò che viene preso di mira è proprio tutto quello che ruota attorno
alla politica, alla società, ai fatti della storia e, in generale, all’agire
umano (o meglio, all’agire animale antropomorfizzato), e tuttavia per Leopardi
«un’opera concepita in termini simili riveste […] un’esistenza altamente
tragica» [641] che va a compenetrarsi con
la sua abilità di denunciare la potenza «terribile ed awful» del riso[642] – «Allor nacque fra’ topi
una follia / degna di riso più che di pietade» (VI, vv. 1-2)[643] – fino all’ultima Ginestra («non so se il riso o la pietà
prevale», v. 201). Per questi motivi, i Paralipomeni,
intonati da una voce tanto distaccata quanto ironica, «raccolgono e condensano
il senso di tutta l’ultima produzione leopardiana»[644].
Così ritorna «grande la Virtù, simile a
una dea»[645], in grado di riaccendere
l’animo di chi la trova di fronte a sé (anche solo se immaginata o sognata, e
apprezzata persino quando accompagna esseri non umani) quando «alla sola vista
del nemico, i topi si danno alla fuga, meno Rubatocchi, che muore da eroe,
fornendo al poeta l’occasione di una commossa apostrofe al fantasma della
virtù»[646]. Ma è in un certo senso
una virtù altra, che poco ha a che
fare coi fatti della storia ed è tutta pregna di una nuova luce, tant’è che «nei
Paralipomeni la virtù di Rubatocchi
brilla di luce solitaria»[647], e il suo atto eroico costituisce
«l’epilogo coerente di un itinerario etico-esistenziale che si svolge parallelo
a quello degli altri personaggi»186. Così, in questo intento, la
virtù praticata dall’eroe topo rovescia la visuale che di essa aveva Bruto, che
la percepiva come vana parola nel suo urto contro la «ferrata necessità»[648]. Ecco allora che le due
ottave finali del V canto iniziano ricalcando per contrasto la «stolta virtù»
dell’iconico incipit del monologo di
Bruto:
Bella
virtù, qualor di te s’avvede,
Come per lieto avvenimento esulta
Lo spirto mio: né da sprezzar ti crede
Se in topi anche sii tu nutrita e
culta.
Alla bellezza tua ch’ogni altra
eccede,
O nota e chiara o ti ritrovi
occulta,
Sempre si prostra: e non pur vera e
salda, Ma imaginata ancor, di te si scalda.
Ahi
ma dove sei tu? sognata o finta Sempre? vera nessun giammai ti vide? O fosti
già coi topi a un tempo estinta, Né più fra noi la tua beltà sorride?
Ahi se d’allor non fosti invan
dipinta,
Né con Teseo peristi o con
Alcide, Certo d’allora in qua fu ciascun
giorno
Più raro il tuo sorriso e meno
adorno[649].
Nel corso del V canto, «l’infamia della fuga e la
vigliaccheria dei comportamenti sorcini finiscono quindi per mostrare il vero
volto del mondo della politica. […] Su questa melma di disonore si stacca
allora la virtù»[650], impersonata da
Rubatocchi: «Solo di tutti in sul deserto campo / Rubatocchi restò come
cipresso / diritto, immoto, di cercar suo scampo / non estimando a cittadin
concesso / dopo l’atto de’ suoi, dopo lo scorno di che principio ai topi era
quel giorno» (V, 43). Le ottave che preludono la morte del generale sono pregne
di tutta la commozione universale (quella che si palesa quando «Torcon lo
sguardo innorridito i Numi» alla morte di Ettore amabile glorioso)[651] di cui si tinge il cielo
alla morte dell’eroe, scoprendo così «la metafisica dignità di un’“altra
virtù”»[652] – la «bella virtù»
declamata in apertura della fine[653].
Nel momento in
cui gli schieramenti nemici (le rane e i granchi da una parte, i topi dall’altra)
si trovano a dover fronteggiare l’ultima battaglia, solo il generale Rubatocchi
rimane impassibile e fermo di fronte all’impulso collettivo della fuga al sopraggiungere
dell’ormai ovvia sconfitta: è la renitenza al fato, a quella stessa «ferrata
necessità» che dalla piana di Filippi arriva fino al campo di battaglia
fantastico, animalesco, dei Paralipomeni,
permeato da «una souffrance, appunto,
proprio qui tale da procurare l’esigenza di tener duro: essere uniti, concordi»[654], stretti in «social
catena». Il V canto è al centro del poema, specialmente nella misura in cui
Leopardi si sofferma talvolta, fino al VI, sulle glorie passate dell’Italia: ma
si tratta di vecchie chimere «che solo una diversa e ontologicamente “altra”
virtù riusciranno a far rivivere»[655].
Volendo azzardare un paragone
pseudo-storico, si potrebbero vedere nelle due opposte fazioni le coppie
Bruto-Cassio e Antonio-Ottaviano. Come Bruto che, nel
momento del disinganno, non procede nella guerra al nemico
(e tuttavia la sposta sull’asse della discordia contro gli dèi e il cielo) e
sceglie di isolarsi, similmente si comporta Rubatocchi, che rimane solo (e
consapevole!) di fronte al suo destino: in quella circostanza, «il
comportamento eroico di Rubatocchi riassume così, in modo esemplare, l’ideale
leopardiano della virtù»[656]. In effetti, la disfatta
di Rubatocchi pare essere una sorta di contraltare valoroso della morte di
Bruto (quando «sudato, e molle di fraterno sangue» calpesta distrattamente i
«petti» a terra inermi), poiché entrambi, in un campo quasi deserto, soli nell’ombra,
cadono:
Così
pugnando sol contro infiniti Durò finché il veder non venne manco.
Poi che il Sol fu disceso ad altri
liti,
Sentendo il mortal corpo afflitto e
stanco,
E di punte acerbissime feriti
E laceri in più parti il petto e il
fianco,
Lo scudo ove una selva orrida e
fitta
D’aste e d’armi diverse era
confitta,
Regger
più non potendo, ove più folti
Gl’inimici
sentia, scagliò lontano. Storpiati e
pesti ne restaron molti, Altri
schiacciati insudiciaro il piano[657].
Poscia gli estremi spiriti
raccolti,
Pugnando mai non riposò la mano
Finché densato della notte il
velo,
Cadde, ma il suo cader non vide il
cielo[658].
Tutti e due sperimentano, senza dubbio, una morte silenziosa[659]. E anche lo scenario si
presenta, a un certo punto del poemetto, simile a quello tetro del Bruto, nel momento in cui «in una notte
di maggio, oltre il campo di battaglia pieno di topeschi cadaveri illuminati
dalla luna, […] s’intreccia la dimensione umana dei casolari dei contadini con il
latrar dei cani»199. Ma mentre Bruto è vile bestemmiatore nonché
artefice della sua
stessa fine, il generale di Topaia muore da eroe, tanto che
la voce narrante «non può fare a meno di dare un doveroso riscontro sulla
portata attiva della Virtù», che suona come un «ragguaglio morale, di alta
necessità, non appartenente al solo mondo topesco e che raggiunge una
dimensione mitica normativa»[660]. Ma la sconfitta dei topi,
a vederla come un ritorno pseudo-storico della rovina di Roma antica e della
caduta di Bruto, fa in modo che «una linea di comportamento magnanimo virtuoso
vien meno», così che tutto il successivo VI canto «viene ad essere la denuncia
della non virtù, della mancata applicazione della virtù»[661].
Nella parabola discendente che arriva alla conclusione del poemetto, e nella
discesa di Leccafondi all’inferno dei topi, come per Bruto e come per Saffo
«ogni favola di paradiso è finalmente tolta, ed ogni speranza è così, come ogni
disperazione, riportata all’uomo»[662].
A trama conclusa, levate ormai da ogni intento le mere vicende politiche, lo
statuto ontologico del pensiero leopardiano punta piuttosto «a una nuova
definizione del tempo storico» [663] . E in questo
“nuovo” tempo storico, idealmente concepito appena
dopo la contemporaneità, l’assenza
degli ideali incita al loro recupero – perché l’uomo non potrebbe viver senza –
e dunque, per Leopardi, lo stare nel mondo implica necessariamente la ritrattazione della virtù, anche quando questa
sembra decaduta: volendo allargare la prospettiva, si può affermare che
«appartiene al Galantuomo l’eroe nuovo, non quando si atteggia a Metanoeto,
secondo un ruolo calcolato di magari apparente ritrattazione, ma si comporta da
amico della virtù e praticante la Virtù, in qualità di Aretofilo»[664].
Ultimata questa
analisi che ha visto al centro, quale tema conduttore, l’eterna larva della
virtù, soggetta ad apostasie, rinnegamenti e, all’occorrenza, rinnovate
celebrazioni, è possibile affermare che sia stato l’ideale della virtù ad aver
sempre seguito Leopardi, e non il contrario. Questo perché, lungo l’arco della
sua vita (dai primi momenti di crisi nel 1819, alle salde posizioni esposte
nella lettera a De Sinner nel 1832, e poi fino agli ultimi anni) Leopardi ha
sempre assecondato le più intime intuizioni, consapevolmente mescolandole alle
analisi socio-filosofiche attorno alla natura
degli uomini e delle cose. E una di queste intuizioni era, per l’appunto,
il Bruto suicida di Filippi, prode
disingannato, ribelle, e caduto. Se in un primo momento la
virtù – un tempo eroicamente rincorsa ed esaltata – aveva per Leopardi coinciso
con «l’ombra di Bruto» e con i suoi stessi sentimenti, col passare degli anni ha progressivamente abbandonato la sua
originaria accezione. Dopo essere stata per tanto tempo rinnegata e vilipesa
come il più ignobile nemico, si è visto come l’ultimo, ambizioso lavoro (ossia
i Paralipomeni) nell’arco dei vari
canti accoglie una ritrattazione della natura ideologica della virtù e degli antichi
modelli eroici, sempre mantenuti vivi e degni di essere all’occorrenza
riaccesi.
Così, in ultimo, si può affermare che
come nel Bruto, come nella Saffo, anche nei Paralipomeni «vien fuori il regista-personaggio Giacomo»[665], al contempo spettatore e
narratore, che fin da bambino si divertiva coi fratelli a inventare storie e
giochi che avessero per protagonisti le grandi figure storiche del passato. Ma
dei tanti alter ego presi in prestito da Leopardi, ce n’è un altro che forse
avrebbe potuto, quasi meglio di tanti altri, rendergli un giusto ed elegante
onore, nel momento in cui «vicino a morte, compose esso medesimo questa
inscrizione, che poi gli fu scolpita sopra la sepoltura»:
OSSA
DI FILIPPO OTTONIERI
NATO ALLE
OPERE VIRTUOSE
E ALLA
GLORIA
VISSUTO
OZIOSO E DISUTILE
E MORTO
SENZA FAMA
NON IGNARO
DELLA NATURA
NÉ DELLA
FORTUNA
SUA[666]
APPENDICE – UN
MONDO NUOVO
Ogni uomo è fatto in modo diverso,
dico, nella sua struttura fisica è fatto in un modo diverso. Fatto in un modo
diverso nella sua combinazione spirituale, no? Quindi, tutti gli uomini sono, a
loro modo, anormali. Tutti gli uomini sono, in un certo senso, in contrasto con
la natura. E questo sino dal primo momento: quell’atto di civiltà (l’atto di
civiltà che è un atto di prepotenza umana sulla natura) è un atto contro natura[667].
1. LEOPARDI E HUXLEY?
Forse non verrebbe spontaneo, di primo impatto, affiancare i
nomi di Giacomo Leopardi e Aldous Huxley. Tuttavia, dalla comparazione di
alcuni estratti di opere huxleyane (prima fra tutte, Il Mondo nuovo, del 1932, ma anche le raccolte di saggi La condizione umana, del 1959, e Fini
e mezzi. Indagine sulla natura degli ideali e sui metodi adottati per
realizzarli, del 1947) con altrettanti brani leopardiani (quindi lo Zibaldone, alcuni canti – tra cui il Bruto minore – e Operette morali), emerge una linea ideologica affine tra i due
autori, specie per quanto riguarda l’analisi dei movimenti sociali e dello
stato dell’uomo tra passato e futuro. Se per Leopardi la scrittura dello Zibaldone procedeva in parallelo con
l’osservazione portata avanti durante gli anni di studio, e quindi era pressoché
coincidente con la sua posizione filosofica circa l’infelice condizione
dell’uomo, nel caso di Huxley si tratta sì di considerazioni attorno alla
natura umana, ma che hanno sfociato, oltre che nei saggi, nella polemica messa
in atto all’interno di uno dei romanzi distopici più influenti del Novecento. I
due autori, infatti, sono stati in grado – compatibilmente al loro contesto
storico – di tracciare delle linee di pensiero piuttosto simili riguardo lo
stato di corruzione che ha imbarbarito l’uomo a causa dell’eccesso di ragione e
della smodata applicazione delle ideologie produttivistiche (causando così un
allontanamento dallo stato di natura), nonché del conseguente sentimento di
infelicità che ha reso l’uomo moderno incapace di sentire le proprie pulsioni
naturali ed emozionali.
Benché non vi sia la
certezza che Huxley avesse studiato l’opera di Leopardi nella sua totalità (e
dunque, una simile analisi si pone come un tentativo di lettura di Huxley sulla
scorta della filosofia leopardiana, piuttosto che di studio su fonti
bibliografiche che trattino del tema), è noto fra la critica che lo scrittore
inglese avesse approfondito il suo
interesse per la cultura italiana, non solo nei luoghi
visitati[668], nella lettura in lingua
originale di romanzi come Forse che sì
forse che no di D’Annunzio, o nell’uso di qualche sporadica espressione
sfoggiata nelle lettere private, ma specialmente nella conoscenza della
letteratura italiana. Questa, però, «si limita più che altro agli
indispensabili classici, prima di tutti Dante, “the world’s most intelligent
poet”, ammirato, studiato, riletto durante tutta la vita: specialmente il Paradiso», ma ciò che è ancora più
affascinante è che «conosce poi il Decamerone
di Boccaccio, le rime di Petrarca, di Tasso, di Leopardi e Il Principe di Machiavelli, letto attentamente durante il periodo
etoniano». Inoltre, come il recanatese, anche lui sembra aver ammirato in
particolar modo la Vita di Alfieri
(«opera che raccomanda vivamente al fratello»), su cui commenta: «He [Alfieri]
is a wonderfully interesting character and his Life is thrilling, though not nearly so exciting as he might have
made it if he’d been a little less reticent»[669].
Certo, Leopardi e Huxley sono autori
quanto mai distanti – cronologicamente e geograficamente –, eppure in qualche
tratto si assottiglia il limite che demarca le differenze tra i due. Prendendo
in esame Il mondo nuovo (Brave New World),
si vede come al centro del romanzo vi sia in
primis il contrasto fra due tipi di società diametralmente opposti: la
prima, ambientata in una utopica Londra nel futuro A.F. 632[670]
e inglobata in un unico Stato Mondiale nel segno del razionalismo
produttivistico[671], è formata da individui
concepiti artificialmente in provetta, che sin dalla nascita subiscono un
condizionamento volto a plasmare il modello di vita e di lavoro da seguire
affinché
siano produttivi e utili alla società (e ciò a seconda del
loro status sociale) [672]; l’altra è la Riserva dei
Selvaggi a Malpais, nel Nuovo Messico, in cui vivono tutti quegli uomini
rimasti a uno stato di pre-condizionamento, esseri umani nati da padri e madri prima della grande meccanicizzazione ed
esclusi dalle tecnologie del Nuovo Mondo di Ford, il cui sistema è «fuori del
campo della più servile imitazione della natura per entrare in quello molto più
interessante dell’invenzione umana»[673].
Nella nuova società (il cui motto
«Comunità, Identità, Stabilità» riflette «l’ideologia e la volontà della
propria eterna auto-rappresentazione»)[674],
gli individui sono portati a non provare alcuna emozione: i legami tra loro
sono promiscui, non si instaurano relazioni poiché ognuno appartiene a tutti
(ed è dunque impossibile sviluppare un qualsivoglia rapporto duraturo con un
uomo o con una donna), e dal momento che non esistono malattie, la morte viene
considerata un fatto del tutto naturale anziché un evento funesto – avrebbe
detto Leopardi che «la morte libera l’uomo dal tutti i mali, e insieme coi beni
gli toglie i desiderii», e che «la vecchiezza è male sommo: perché priva l’uomo
di tutti i piaceri, lasciandoneglie gli appetiti, e porta seco tutti i dolori»
(infatti, nel Mondo nuovo non ci sono
anziani, perché tutti sono mantenuti sani e giovani)[675].
Agli antipodi dell’idea leopardiana di felicità – sempre «incognita e vana» [676] e costitutivamente
impossibile a conseguirsi – nel mondo di Ford «alberga una felicità
obbligatoria e matematicamente esatta; ottenuta, tuttavia, attraverso un ben
programmato rimbecillimento di massa»[677],
e l’amore è un concetto distorto, snaturato in nome della collettività:
«E questo,» aggiunse il Direttore
sentenziosamente «questo è il segreto della felicità e della virtù: amare ciò
che si deve amare. Ogni
condizionamento mira a ciò: fare in modo che la gente ami la sua inevitabile
destinazione sociale».[678]
Nel mondo nuovo, lo sguardo è esclusivamente rivolto al
presente e al futuro (che dev’essere radioso), mentre il passato è tenuto
lontano poiché osceno e primitivo: la storia non si studia perché «è tutta una
sciocchezza»[679], e l’unica devozione plausibile
è riservata – oltre che al «Nostro Ford» – al progresso e alla scienza, ma solo
nella misura in cui questa ha consentito all’uomo di raggiungere la massima
saggezza, una volta presa coscienza della sua pericolosità. In questo senso,
«il tema del libro pare essere l’effetto delle scoperte scientifiche quando
vengono applicate male, in un mondo che ha abolito letteratura, arte,
differenze fra le culture, famiglia»[680].
Di fatto, la scienza (assieme alla storia) insegna le più crude verità insite
nel sistema della natura, tra cui – la più cruda di tutte – la nascita dei
figli dalle donne partorienti, ossia dalle madri:
«La parola cruda, che era della vera scienza, cadde come un’esplosione nel
silenzio imbarazzato dei ragazzi. […] “Sono” disse gravemente “fatti
sgradevoli, lo so. Ma d’altro canto la maggior parte dei fatti storici sono
sgradevoli”»[681]. Grazie al Processo
Bokanovsky, le donne non partoriscono – poiché è usanza dei primitivi, dei
selvaggi non condizionati – e il solo concetto di nascita, così come le parole padre
e soprattutto madre, suona come
blasfemia indecente alle orecchie di ognuno:
Il Nostro Freud era stato il primo
a rivelare gli spaventosi pericoli della vita familiare. Il mondo era pieno di
padri ed era perciò pieno di miseria; pieno di madri e perciò di ogni specie di
pervertimenti, dal sadismo alla castità; pieno di fratelli e di sorelle, di zii
e di zie; pieno di pazzie e di suicidi16.
Nonostante le intenzioni dei due autori fossero diverse (per
Leopardi si trattava di stendere sotto forma di canzone una mera disamina sull’infelicità
propria del genere umano dalle origini bibliche fino ai suoi tempi, mentre
Huxley intendeva promuovere, attraverso la vena distopica del romanzo, la sua
bruciante polemica attorno alla condizione presente – nonché futura – dell’uomo),
questo acre passo può essere ricondotto all’amara sentenza che Leopardi pone ai
vv. 19-21 dell’Inno ai Patriarchi
(che esprime «il momento sia di massimo
consenso alla natura, sia di più
accentuata imputazione all’uomo»)[682],
quando gli uomini maledicono la loro nascita dopo esser stati puniti con
miserie e dolore a seguito del peccato originale: «E detestato il parto / Fu
del grembo materno, e violento / Emerse il disperato Erebo in terra»18.
Non solo: anche i versi seguenti ben si prestano ad essere sovrapposti al
solenne racconto del governatore:
Oh quanto affanno
Al gener tuo, padre infelice, e
quale
D’amarissimi casi ordine immenso
Preparano i destini! Ecco di
sangue
Gli avari
colti e di fraterno scempio Furor
novello incesta, e le nefande Ali di
morte il divo etere impara[683].
Attraverso la rievocazione del passato biblico, Leopardi
modifica la natura della colpa, che «consiste in un atto di violenza dell’uomo
sull’uomo […] e nella successiva e correlata nascita delle città e della
società civile»20, soffermandosi sul «vagheggiamento di una mitica e
remota età preistorica, di una vita consolata alla visione di una natura
incontaminata e solitaria nella sua primitiva innocenza»[684], come accade a Bernardo
Marx nel Mondo nuovo nel momento in
cui visita la Riserva.
È anche attraverso questa brutale
critica ai costumi del mondo passato e naturale che Huxley mette in scena una
realtà completamente stravolta, in cui non esiste la possibilità di fallimento
e, ancor prima, neanche di ribellione. Questo perché, nella loro maniera di
vivere impostata e meccanica, «corrotta da troppa obbedienza passiva»22,
gli abitanti del nuovo mondo non sono pienamente consapevoli delle loro azioni
e della loro condizione; non hanno ideali, non hanno futuro, e sono piegati al
volere dello Stato. Come riporta lo stesso Huxley, «la maggior parte degli
uomini sono disposti a tollerare l’intollerabile», e la ragione principale di
questa molle sottomissione risiede, secondo Huxley, nell’ignoranza: di fatto,
«chi non conosce uno stato di cose diverso dall’intollerabile stato in cui si
trova non sa che la sua sorte potrebbe essere migliore. Poi c’è la paura. Gli
uomini sanno che la loro vita è intollerabile, ma hanno paura delle conseguenze
di una ribellione»[685]. Nel Mondo nuovo ogni categoria di uomini è portata ad apprezzare solo e
unicamente la propria posizione, conoscendo sì lo status delle altre categorie (Alfa, Beta, Gamma ecc.) ma senza
provare mai alcuna invidia[686]. Questo succede quando «i
governati obbediscono a chi li governa perché, oltre a tutte le altre ragioni,
accettano per vero qualche sistema metafisico o teologico che insegna che lo
stato deve essere obbedito ed è intrinsecamente degno di obbedienza»25.
Le presenti considerazioni di Huxley
riguardo ai comportamenti sociali (nel Mondo
nuovo, ma anche nei saggi) rimandano, per certi versi, alla critica esposta
da Tristano, portavoce dello stesso Leopardi, nel Dialogo di Tristano e di un amico:
Chi vuole o dee vivere in un paese,
conviene che lo creda uno dei migliori della terra abitabile; e lo crede tale.
Gli uomini universalmente, volendo vivere, conviene che credano la vita bella e
pregevole; e tale la credono; e si adirano contro chi pensa altrimenti.
Perché in sostanza il genere umano
crede sempre, non il vero, ma quello che è, o pare che sia, più a proposito suo[687].
Quello esposto in questo passo è, si può dire, una sorta di
principio di convenienza: l’uomo crede a ciò che gli conviene credere, ma non è
detto che ciò sia vero (e anzi, il
più delle volte è assoluta menzogna). Così, allo stesso modo, l’unico “ideale”
in cui gli uomini del Mondo nuovo
sono portati a credere è il lavoro – e dunque il progresso, una gigantesca
macchina che guida la società verso il benessere futuro. Come rileva Stefano
Manfrelotti, «oggetto dell’intento satirico di Huxley sono quindi tutte le
visioni del futuro impostate su una concezione del progresso come sviluppo
lineare ed armonico di premesse implicite nel presente»[688],
quali l’ottimismo imperante che deriva dal progresso e la fede assoluta in una
società che promette crescita, prosperità e piaceri a portata di mano. Per dare
il buon esempio a tutti, lo stesso Governatore confessa di aver preferito
abbracciare una prospettiva lavorativa sicura nella società piuttosto che mantenere
viva la sua passione per la scienza pura (col rischio di essere recluso e
abbandonato su un’isola deserta):
Talvolta mi avviene di rimpiangere
la scienza. La felicità è un padrone esigente, specialmente la felicità degli
altri. Un padrone molto più esigente, se non si è condizionati per accettarla
senza discutere, della verità. […] Io m’interesso alla verità, io amo la scienza.
Ma la verità è una minaccia, la scienza è un pericolo pubblico. È altrettanto
pericolosa quanto è stata benefica. Ci ha dato il più stabile equilibrio della
storia[689].
Queste parole sembrano ricordare il Teofrasto della Comparazione, che però, contrariamente
al Governatore, fu tutto dedito alla scienza del vero, sempre fieramente
professata[690]. Non si confonda,
tuttavia, la scienza con la ragione. Anche per Leopardi si tratta di due
concetti ben distinti, perché una cosa è la scienza (derivata dallo studio,
dalla
conoscenza, dall’esperienza del vero), altra è la ragione, tipica
delle società civilizzate, e anzi meglio dire l’eccesso di ragione, poiché «fin
dall’alba della storia la ragione, che qui coincide con quella che si potrebbe
chiamare “ragione storica”, ha già corrotto irreparabilmente»[691]. Se la scienza universale,
la verità e anche il bello, sono per LeopardiTeofrasto pilastri fondamentali
alla base della società civilizzata, nel Mondo
nuovo non è così, perché lì non c’è spazio per la cultura, e non solo
perché «non si può consumare molto se si resta seduti a legger libri»[692], ma soprattutto perché il
lavoro, la produzione – e dunque la felicità delle masse – passano nettamente
in primo piano rispetto all’arte e alla bellezza. Di fronte ai due opposti
concetti di “cultura” e “civiltà”, si capisce come «Cultura assuma, nello
scritto di Huxley, una connotazione fortemente positiva, mentre Civiltà si
gravi di connotazioni sempre più negative sino a diventare un sinonimo di
appiattimento mentale»[693]:
Il Nostro Ford personalmente fece
un grande sforzo per trasferire l’importanza della verità e della bellezza ai
comodi e alla felicità. La produzione in massa esigeva questo trasferimento. La
felicità universale mantiene in ordine gli ingranaggi; la verità e la bellezza
non lo possono. E, beninteso, ogni volta che le masse si impadronivano del potere
politico, era la felicità piuttosto che la verità e la bellezza che importava[694].
Per quanto macchinosamente indotta e costruita, la felicità
delle masse è essenziale al vivere comune, e dal momento che «non c’è stabilità
sociale senza stabilità individuale»34, è doveroso che ogni
individuo si concentri non sui suoi interessi personali (come potrebbero
essere, appunto, la vocazione per l’arte e per la cultura), ma che si goda solo
e soltanto i passatempi collettivi promossi dal governo. Tutto, insomma,
funziona affinché (e perché) il singolo si concentri sulla felicità comune, sul
benessere dello Stato. Come spiega Mustafà Mond al Selvaggio, «la civiltà non
ha assolutamente bisogno di nobiltà ed eroismo. Queste cose sono sintomi
d’insufficienza politica. In una società convenientemente organizzata […]
nessuno ha delle occasioni di essere nobile ed
eroico»[695]. Ciò non significa tanto
che gli antichi ideali sono caduti, quanto piuttosto che non servono più,
perché la società moderna funziona solo nel momento in cui è costruita attorno
a un sistema che non prevede guerre, nazionalismi, corsa alla gloria: se non
c’è alcun bisogno di eroismo, nessuno si erge a eroe. E se nessuno si erge a
eroe, allo stesso tempo significa che «tutti possono essere virtuosi, adesso»36.
Tutti o nessuno: questo è lo spirito che regola la società nel nuovo mondo. Si
noti quanto scriveva Leopardi nel 1820 a proposito della mancanza delle «vive e
grandi illusioni»:
La mancanza delle vive e grandi
illusioni, spegnendo l’immaginazione lieta, aerea, brillante e insomma naturale
come l’antica, introduce la considerazione del vero, la cognizione della realtà
delle cose, la meditazione, ec. e dà anche luogo all’immaginazione tetra,
astratta, metafisica e derivante più dalle verità, dalla filosofia, dalla
ragione, che dalla natura e dalle vaghe idee proprie della immaginazione
primitiva[696].
E se tra le antiche illusioni spente rientra anche la virtù,
ci si può allora ricollegare al commento di Luporini che, riguardo un altro
brano dello Zibaldone, asserisce che «l’accezione
antindividualistica è forte e indubitabile in Leopardi»[697].
Ammesso e non concesso che Huxley avesse una conoscenza approfondita dell’opera
del recanatese, sembrerebbe che il Mondo
nuovo assuma come ideologia quella che per Leopardi era una posizione
sincera: come si diceva, l’intento in questa sede è infatti di interpretare la
trama sociologica del Mondo nuovo
(che resta sempre aggrappata al filone distopico-polemico) sulla scorta della
filosofia leopardiana:
L’individuo non è virtuoso, la
moltitudine sí, e sempre, per le ragioni e nel senso che ho sviluppato altrove.
Quindi in uno stato dove il potere o parte di esso sta in mano della nazione,
la virtú ec. giova, perché la nazione, che tiene il potere, l’ama; e perché
giova, perciò è praticata piú o meno, secondo le circostanze, ma sempre assai
piú e piú generalmente che nello stato dispotico. La virtú è utile al pubblico
necessariamente. Dunque il pubblico è necessariamente virtuoso o inclinato alla
virtú, perché necessariamente ama se stesso e quindi la propria utilità. Ma la
virtú non è sempre utile all’individuo. Dunque l’individuo non è sempre
virtuoso, né necessariamente. Oltre ch’é ben piú facile e ordinario ingannarsi
un individuo sulle sue vere utilità, che non la moltitudine. Ma in ogni modo
l’individuo cerca il suo proprio bene, il pubblico cerca il suo (vero o falso,
con mezzi acconci o sconci): questa è virtú sempre e in qualunque caso, quello
egoismo e vizio. Parlo principalmente delle virtú pubbliche, cioè di quelle
virtú grandi, i cui effetti o i cui esempi si stendono largamente, in qualunque
modo avvenga[698].
Luporini chiarisce bene questo passo, che torna utile per
spiegare, si diceva, il concetto di società presente nel Mondo nuovo: come per Leopardi, qui la virtù non è intesa nell’accezione
individualistico-sentimentale, ma come un paradigma utile e universale. Ovvero,
«ciò che è concreto, reale, è l’interesse, l’utile, l’amor proprio ecc.; ora
l’utile e la virtù, ossia il momento concreto e quello ideale (quello del
valore), non possono incontrarsi negli individui se non per eccezione […] che
appunto conferma l’opposta regola» [699]
. Ciò vale a dire anche, per Leopardi, che la virtù nel singolo individuo
abbandona progressivamente il suo fondamento stabile e diviene effimera e
accidentale, così che la virtù
originariamente intesa «finisce quindi per essere prevalentemente virtù
pubblica»[700], e può davvero essere
garantita poiché suscettibile di soddisfare l’interesse pubblico (almeno fino a
quando la sfera del privato, e dunque il sistema dell’egoismo, non prevarichi
su quella del bene pubblico, portando corruzione e disfacimento).
Ma, di fatto, nel
mondo nuovo l’individuo in sé non
c’è: ognuno esiste per il bene degli
altri, non gli è concesso di provare passioni violente perché «quando
l’individuo sente, la comunità è in pericolo»[701].
Si metta a confronto questa riflessione appuntata nello Zibaldone nell’aprile 1821:
Oggi l’uomo è nella società quello
ch’è una colonna d’aria rispetto a tutte le altre e a ciascuna di loro. S’ella
cede, o per rarefazione o per qualunque conto, le colonne lontane, premendo le
vicine, e queste premendo né più né meno in tutti i lati, tutte accorrono ad occupare
e riempiere il suo posto. Così l’uomo nella società egoista. L’uno premendo
l’altro, quell’individuo che cede in qualunque maniera, o per mancanza di
abilità o di forza o per virtù e perché lasci un vuoto di egoismo, dev’esser sicuro di esser subito calpestato dall’egoismo che ha dintorno per tutti i lati
e di essere stritolato come una macchina pneumatica dalla quale, senza le
debite precauzioni, si fosse sottratta l’aria[702].
Quella del Mondo nuovo
non solo è una società moderna, ma essendo addirittura ultramoderna, non lascia spazio per i «vuoti di egoismo»: se ogni
essere umano è condizionato affinché operi per il bene sociale, ne deriva che
nessuno può permettersi di sentire
(col rischio di mettere in pericolo la comunità!), di essere a suo modo
egoista, perché «dopo tutto, ognuno appartiene a tutti gli altri»[703]. L’unico a dimostrarsi
egoista è Bernardo, che per primo si distacca progressivamente da quel tipo di
mentalità corrotta perché comincia a sentire.
Ma nella Londra di Ford i sentimenti sono visti come qualcosa di estremamente
pericoloso, che rischia di infiltrarsi nelle pieghe lasciate scoperte dalla
coscienza collettiva: non hanno ragione di esser provati, poiché a tutti è
permesso di soddisfare nell’immediato le proprie passioni e i propri desideri,
senza dunque che rimanga lo spazio per il sentire
(quando l’uomo sente, «il desiderio del piacere diviene una pena, e una specie
di travaglio abituale dell’anima»)[704].
Così, è lo stesso Governatore a stabilire che se «il sentimento sta in agguato
in questo intervallo di tempo tra il desiderio e il suo soddisfacimento»,
allora bisogna «abbreviare l’intervallo, abbattere tutti gli antichi, inutili
ostacoli» [705] – perché, come spiega
Tasso al suo Genio nel Dialogo leopardiano,
«tutti gl’intervalli della vita umana frapposti ai piaceri e ai dispiaceri,
sono occupati dalla noia»[706], che altro non è se non un
sentimento, anzi «la più sterile delle passioni umane»[707].
non naturale ma artifiziale, cioè questa parità e
questa universalità d’attacco e di resistenza, mantiene la società umana, quasi
a dispetto di se medesima, e contro l’intenzione e l’azione di ciascuno
degl’individui che la compongono, i quali tutti o esplicitamente o
implicitamente mirano sempre a
distruggerla», in ivi, pp. 491-492.
Tali considerazioni attorno alla noia
rimandano immediatamente alla leopardiana teoria del piacere che, appena di
seguito nel suddetto Dialogo, mostra
che le parole di Leopardi «sembrano suggerirci quel fantasma sempre sfuggente e
sempre cercato, il fantasma del piacere», che si risolve nella constatazione
che «la vita nostra manca del suo fine»[708]
– ossia del piacere, ossia, in un’ottica eudemonistica, la felicità. La teoria,
portata avanti negli anni, risale a una delle prime riflessioni zibaldoniane del 1820:
L’anima umana (e così tutti gli
esser viventi) desidera sempre essenzialmente, e mira unicamente, benché sotto
mille aspetti, al piacere, ossia alla felicità, che considerandola bene, è
tutt’uno col piacere. Questo desiderio e questa tendenza non ha limiti, perch’è
ingenita o congenita coll’esistenza, e perciò non può aver fine in questo o
quel piacere che non può essere infinito, ma solamente termina colla vita. […]
Il fatto è, che quando l’anima desidera una cosa piacevole, desidera la
soddisfazione di un suo desiderio infinito, desidera veramente il piacere e non un tal piacere; ora nel
fatto, trovando un piacere particolare, e non astratto, e che comprenda tutta l’estensione
del piacere, ne segue che, il suo desiderio non essendo soddisfatto di gran
lunga, il piacere appena è piacere, perché non si tratta di una piccola ma di
una somma inferiorità al desiderio e oltracciò alla speranza. E perciò tutti i
piaceri debbono esser misti di dispiacere, come proviamo, perché l’anima
nell’ottenerli cerca avidamente quello che non può trovare, cioè un’infinità di
piacere, ossia la soddisfazione di un desiderio illimitato[709].
Secondo Leopardi, però, l’uomo non è in grado di raggiungere
in maniera completa il piacere, poiché questo, essendo infinito, è
inconciliabile con la natura finita dell’essere umano, che si ritrova così a
desiderare in maniera continua 51 . Ciò non accade, ovviamente, nel Mondo nuovo, in cui il soddisfacimento
del piacere è alla portata di tutti, concreto ed immediatamente raggiungibile.
Se in questa teoria sono lampanti le
differenze, dall’altra parte nel Mondo
nuovo vige un altro principio ricordato anche da Leopardi: quello della
distrazione. Verso la fine del romanzo si legge che «quelle tre ore e mezza di
riposo extra furono così lontano dall’esser fonte di felicità, che la gente si
vide costretta ad andare in vacanza per
sfuggirle»[710]. Più l’uomo è occupato,
più tende ad esser vicino a una sensazione di benessere spirituale («Lavorarono
tutto il giorno, e per tutto il giorno egli fu pieno d’una intensa, assorbente
felicità»)[711]; al contrario, quando l’uomo
non è occupato, si ferma: e pensa. Se è vero che «tutto il piano della natura
intorno alla vita umana si aggira sopra la gran legge di distrazione, illusione
e dimenticanza»[712] – così scriveva il
recanatese nel Frammento sul suicidio –
ne consegue che
la vita continuamente occupata è la
più felice, quando anche non sieno occupazioni e sensazioni vive, e varie.
L’animo occupato è distratto da quel desiderio innato che non lo lascerebbe in
pace, o lo rivolge a quei piccoli fini della giornata […] giacché li considera
allora come piaceri (essendo piacere tutto quello che l’anima desidera), e
conseguitone uno, passa a un altro, così che è distratto da desideri maggiori,
e non ha campo di affliggersi della vanità e del vuoto delle cose, e la
speranza di quei piccoli fini, e i piccoli disegni sulle occupazioni avvenire o
sulle speranze di un esito generale lontano e desiderato, bastano a riempierlo,
e a trattenerlo nel tempo del suo riposo. L’anima prova sempre piacere quando è
piena (purché non sia di dolore), e la distrazione viva ed intera è un piacere
rispetto a lei assolutamente[713].
E sempre Leopardi, ma più concretamente e fuori dalla scia
utopistica, nel 1831 (non molto prima che l’ideologia marxista celata nel Mondo nuovo si diffondesse in Europa),
ragionando sopra il concetto di felicità delle masse, così confessava a Fanny
Targioni Tozzetti:
Sapete che io abbomino la politica,
perché credo, anzi vedo che gli individui sono infelici sotto ogni forma di
governo, colpa della natura che ha fatto gli uomini all’infelicità; e rido della
felicità delle masse, perché il mio
piccolo cervello non concepisce una massa
infelice composta d’individui non felici[714].
E se Leopardi respirava l’infelicità
collettiva dell’epoca storica in cui viveva, non differente è l’intuizione espressa
dal protagonista del romanzo, Bernardo Marx, nel momento in cui comincia ad
avvertire una spinta verso l’esterno, verso l’ignoto vecchio
mondo che si accinge a visitare. Eccetto lui, gli abitanti
del mondo civilizzato sono così convinti di esser felici che quello stile di
vita limitato e soffocato sotto il velo della libertà condizionata rimane
oscuro a tutti, perché appare perfetto e intoccabile in confronto alla
descrizione che del mondo pre-moderno fa il Governatore:
Non c’era da stupirsi che quei
poveri premoderni fossero pazzi e malvagi e miserabili. Il loro mondo non
permetteva loro di prendere le cose per la via più semplice, non permetteva
loro di essere sani di spirito, virtuosi, felici. E con le madri e gli amanti,
con le proibizioni alle quali non erano condizionati ad obbedire, con le
tentazioni e i rimorsi solitari, con tutte le malattie e il dolore che li
isolava senza fine, con le incertezze e la povertà, essi erano costretti a
sentire fortemente. E sentendo fortemente (fortemente, oltre tutto, in
solitudine, in un disperato isolamento individuale) come potevano essere
stabili?[715]
Con l’ascesa e caduta degli ideali, con il progredire della
storia, e soprattutto tolta ogni distrazione, gli uomini hanno imparato a sentire fortemente. Se per il
Governatore quello era il mondo pre-moderno, lo stesso avrebbe potuto dire
Leopardi sul mondo, invece, moderno, quando «negli uomini si rinnovellò quel
fastidio delle cose loro che gli aveva travagliati avanti il diluvio, e
rinfrescossi quell’amaro desiderio di felicità ignota ed aliena dalla natura
dell’universo»[716].
Nella visione leopardiana, che spesso
riprende il motivo mitico dell’età dell’oro, se la felicità è qualcosa di
ignoto per gli uomini moderni, ecco che invece risplende presso i fanciulli,
gli antichi e i selvaggi («e particolarmente quelli di California») [717] , dal momento
che «i primitivi, felici nella loro ignoranza e estranei alla condizione
artificiata della conoscenza, sono perennemente soggetti alla natura, come lo
furono in parte gli antichi e come per qualche tempo lo sono i fanciulli»60.
Ma, come nota Marco Moneta, «al di là dell’aspetto eudemonistico, Leopardi
sottolinea l’aspetto etico-politico» 61 :
estranei al destino di corruzione che
preme sulle coscienze degli uomini civilizzati, i selvaggi non conoscono il
male e non lo operano, così rimanendo puri, innocenti, ignari della decadenza che ha portato l’uomo alla barbarie. Per
Leopardi (come anche per Huxley, nel nostro caso) «l’antichità rimane
l’immagine privilegiata della condizione “edenica” originaria, quando la
ragione non aveva alcun senso che non fosse quello dettato dal puro ritmo dell’esistenza
esterna e materiale»[718], e quando
[…] di suo fato ignara
E degli affanni suoi, vota
d’affanno
Visse l’umana stirpe; alle
secrete
Leggi del cielo e di natura indutto
Valse
l’ameno error, le fraudi, il molle Pristino velo; e di sperar contenta Nostra
placida nave in porto ascese[719].
Nei versi seguenti è condensata, secondo Antonio Negri, una
pluralità di motivi: «un ideale giusnaturalistico positivo che non si piega
alla linearità della concezione ottimistica della storia e della società; una
concezione pessimistica della ragione e della civilizzazione, denunciate come
produttrici di schiavitù e morte»[720].
Non a caso, nel finale dell’Inno ai
Patriarchi Leopardi descrive, per contrasto, la condizione immacolata
caratteristica dei selvaggi della California, «popolo reale che vive allo stato naturale»[721],
attraverso un ritratto che figura come «l’esatto calco negativo dell’uomo
civilizzato, annoiato e infelice, pieno di falsi bisogni, fisicamente fragile,
angosciato dal pensiero della morte»[722]:
Tal fra le vaste californie selve[723]
Nasce beata prole, a cui non sugge
Pallida cura il petto, a cui le
membra
Fera tabe
non doma; e vitto il bosco,
Nidi l’intima rupe, onde ministra
L’irrigua valle, inopinato il
giorno
De l’atra morte incombe. Oh contra
il nostro
Scellerato ardimento inermi regni
De la saggia natura! I lidi e gli
antri
E le quiete selve apre l’invitto
Nostro furor; le violate genti
Al peregrino
affanno, agl’ignorati Desiri educa; e la fugace, ignuda Felicità per l’imo sole
incalza[724].
Così si chiude il componimento con la vaga prospettiva di
una felicità aleatoria, e con gli uomini che, «mentre paiono perseguirla, la
cacciano dinanzi a sé, l’incalzano,
dietro al cammino del sole»[725]. Attraverso l’esaltazione
della purezza tipica dei popoli californiani, così intoccabili e così vicini
allo stato naturale, Leopardi espone un’invettiva contro il progresso della
civiltà imbarbarita dalla ragione e da un incivilimento che ha portato l’uomo ad
allontanarsi sempre di più dalla natura, da una condizione originaria che,
ormai persa, lo ha corrotto conducendolo a una crescente e inevitabile
decadenza70.
Per restare sul filo del paragone, si
può notare come quella lontana fetta di mondo evocata da Leopardi assomigli,
indubbiamente, all’incontaminata Riserva di Malpais, «mondo meraviglioso di cui
egli si ricordava come d’un paradiso di bontà e di bellezza, sempre rimasto
completo e intatto, puro d’ogni contatto con la realtà di questa Londra reale,
di questi uomini e di queste donne realmente civilizzati»71. Ciò che
sembra sfuggire, all’interno della Riserva, è il concetto di tempo. O meglio:
il tempo individuale è ben visibile sui volti e sui corpi degli abitanti più
anziani, ma manca il tempo storico. Non si sa con precisione da quanto tempo i
selvaggi siano lì, e forse questo è voluto: seguendo la linea interpretativa di
Marco Balzano (riguardo al selvaggio leopardiano), si può affermare che anche
nel Mondo nuovo «il primitivo […] è
anzitutto un’idea» e, nel
momento in cui «è sempre estraneo al tempo scandito dalla
Storia, perdendo, a causa di questa sua non appartenenza, la possibilità di
identificarsi con qualsiasi altro simile», il selvaggio è «salvo finché
appartiene a quella che si potrebbe definire la dimensione dell’assoluto, vale
a dire una dimensione integralmente estranea alla corruzione»[726].
2. LA DISILLUSIONE PERMANENTE
Resta a sapere se è spiritualmente più nobile subire i colpi e
le frecce dell’avversa fortuna, o prendere le armi contro un oceano di mali
e opporsi ad essi sino alla fine.[727]
Nel Mondo nuovo di
Huxley sembra dunque emergere una linea filosofico-sociale che si avvicina al
Leopardi pensatore, specie per quanto riguarda i concetti di
felicità/infelicità, verità, progresso, libertà dell’individuo, società. Se per
Leopardi «lo stato d’egoismo puro […] è lo stato naturale dell’uomo»[728], ne deriva che nel nuovo
mondo fordizzato, dal momento che non solo non nascono, ma nemmeno provano la più naturale delle passioni, gli
uomini non possono allora in tutto e per tutto essere considerati esseri umani. O meglio: in quanto
condizionati, la loro situazione è simile a quella di un animale addomesticato
che ha perso la sua innata libertà. Sia da chiarimento questa riflessione appuntata
da Huxley all’interno della raccolta di saggi La condizione umana:
Sir Charles Darwin ritiene
semplicemente che l’uomo sia una specie selvaggia: non è stato addomesticato.
Un animale è addomesticato quando ha un padrone che ne controlla le abitudini e
la riproduzione, sterilizzandolo o tramite gli incroci, assicurandosi così che le
future generazioni seguano un determinato modello. Ma l’uomo non ha padroni, e persino
i suoi tentativi di auto-addomesticarsi sono destinati a fallire poiché la
stessa minoranza civilizzata dominante rimane una specie selvaggia[729].
Questa teoria costringerebbe a rivalutare il punto di vista
che domina l’intero romanzo, ipotizzando, in una lettura alternativa, che i veri selvaggi siano, allora, proprio gli
uomini civilizzati, poiché nel mondo di Ford essi non agiscono seguendo il loro
proprio raziocinio, i loro sogni, i loro propositi; ma si muovono
macchinosamente sotto comandi inculcatigli dalla nascita. Ed è di nuovo Huxley
ad affermare che «la vita del singolo individuo, che è una vita fatta di
autocoscienza, di sentimenti, di volontà, di sollecitazioni e di intenzioni,
non può essere applicata alla società», e che «la vita privata consiste
essenzialmente nell’abbandonarsi alle proprie sensazioni fisiologiche,
estetiche e a quelle da cui traiamo qualche ispirazione»[730].
Si metta a confronto questo brano dello Zibaldone
del 1821:
L’uomo è naturalmente,
primitivamente, ed essenzialmente libero, indipendente, uguale agli altri, e
queste qualità appartengono inseparabilmente all’idea della natura e
dell’essenza costitutiva dell’uomo […]. La società è nello stesso modo
primitivamente ed essenzialmente dipendente e disuguale, e senza queste qualità
la società non è perfetta, anzi non è vera società. Pertanto l’uomo in società
bisogna che necessariamente si spogli e perda delle qualità essenziali,
naturali, ingenite, costitutive, e inseparabili da se stesso. Le quali egli può
ben perdere in fatto, ma non in ragione, perché come si può considerare un
essere spoglio di una sua qualità intrinseca, costitutiva, e indipendente
affatto dalle circostanze e dalle forze, o esterne o accidentali, perch’essendo
primitiva e naturale, è necessaria, e durevole in ragione, quanto dura
quell’essere che la contiene, e ne è composto? Sarebbe lo stesso che voler
considerare un uomo senza la facoltà del pensiero, qual è parimente
indipendente dagli accidenti. In questa ipotesi, sarà un altro essere, ma non un uomo. Dunque un uomo privo della
libertà e della uguaglianza in ragione, sarebbe privo dell’essenza umana, e non
sarebbe un uomo, ch’è impossibile[731].
Al di là di quella che si propone di essere la natura umana
nel Mondo nuovo – così artificiale e
impostata, e così lontana dalla condizione naturale – Huxley si sofferma, sempre
nei suoi saggi, a riflettere sull’impatto dell’uomo nel flusso della storia.
Questo
spunto può essere interessante per valutare non solo la
posizione di Bernardo Marx o del Selvaggio, ma anche quella del Bruto
leopardiano, poiché nella storia si trova inevitabilmente immerso e da essa è,
come noto, influenzato. Scrive Huxley:
Esaminiamo ora il rapporto tra
l’individuo e la storia. Ogni segmento di vita individuale, ovviamente, corre
parallelamente ad un settore del movimento storico generale dell’epoca in cui
la persona vive. Ma fino a che punto noi viviamo nella storia? Fino a che punto
un individuo è inserito nella storia del suo tempo? […] In quale misura la vita
umana, che scorre parallela al grande flusso della storia, è realmente
all’interno di questo flusso? Il dato più sorprendente di ogni vita individuale
è che un terzo di essa viene trascorso interamente al di fuori della storia e
persino al di fuori dello spazio e del tempo, tale è la distanza che concerne
l’esperienza soggettiva: un terzo della nostra vita viene trascorso nel sonno,
durante il quale, noi non siamo né nello spazio né nel tempo.[732]
Dunque, il Bruto di Leopardi è certamente una figura che ha
vissuto in una determinata epoca storica, eppure nel Bruto minore viene al contempo trasferito su un piano esistenziale
e solipsistico che con la storia ha poco a che fare: la delusione che lui vive
è valida non solo per lui, ma anche per Giacomo, e dunque anche per Bernardo e
per John. Tutti loro si ritrovano a sperimentare una crisi che dalla storia (e
dunque, dal generale) muove verso il piano dell’etica individuale (e dunque nel
particolare). Ma se Giacomo, come Bernardo, è acuto osservatore (oltre che
protagonista della sua inquietudine), Bruto e John sprofondano nel loro dolore,
esaurendo il sentimento di delusione con l’atto egoistico del suicidio,
noncuranti dei possibili risvolti futuri che questo comporta. A conferma di questa
ipotesi, è di nuovo Huxley ad affermare che «l’atto più privato ed antistorico
di tutti è quello della morte, che trasporta definitivamente l’individuo al di
fuori del mondo della storia»[733]. Così come Bruto si
trafigge col pugnale nell’«atra notte», solo e non sentito da nessuno, John
«rifugiatosi su un faro che è il corrispettivo spaziale della propria
solitudine, […] pone fine ai suoi giorni impiccandosi»[734].
L’uomo antico e il selvaggio presentano allora delle caratteristiche in comune:
in primis, l’ardente desiderio di
togliersi la vita a seguito di una delusione (sia essa storica, personale o
entrambe). Si consideri quanto scriveva il recanatese nello Zibaldone nel marzo 1821:
La nostra condizione oggidì è
peggiore di quella de’ bruti anche per questa parte. Nessun bruto desidera
certamente la fine della sua vita, nessuno, pur infelice che possa essere, o
pensa a tòrsi dalla infelicità colla morte o avrebbe il coraggio di procurarsela.
[…] Noi desideriamo bene spesso la morte ardentemente, e come unico evidente
calcolato rimedio delle nostre infelicità; in maniera che noi la desideriamo
spesso, e con piena ragione, e siamo costretti a desiderarla e considerarla
come il sommo nostro bene. […] Io so bene che la natura ripugna con tutte le
sue forze al suicidio, […] ma da che la natura è del tutto alterata, da che la
nostra vita ha cessato di esser naturale, da che la felicità che la natura ci
avea destinata è fuggita per sempre e noi siam fatti incurabilmente infelici,
da che quel desiderio della morte che non dovevamo mai, secondo natura, neppur
concepire, in dispetto della natura e per forza di ragione s’è anzi
impossessato di noi; perché questa stessa ragione c’impedisce di soddisfarlo e
di riparare nell’unico modo possibile ai danni ch’ella stessa e sola ci ha
fatti? […] La sventura, il nostro fato ci fa miseri, ma non ci toglie, anzi ci
lascia nelle mani il finir la miseria nostra quando ci piaccia[735].
Di fronte alla miseria che pervade
gli animi afflitti di John e di Bruto, il loro primo pensiero è soltanto uno
(per quanto contro natura questo possa essere). Di fatti, sia l’uno che l’altro
hanno oltrepassato il limite dell’antichità, e assieme hanno valicato il
confine che separava un mondo illibato dalla società moderna e corrotta:
entrambi, dunque, moderni, adottano la visione tipica dell’uomo moderno,
inetto, che si ritorce contro il passato e respinge il futuro poiché ha perso
la fede nelle magnanime illusioni, e perché incapace di sopportare l’«arido
vero» dell’esistenza[736].
Inoltre, nonostante le morti dei due
siano individuali, il loro gesto assume la valenza di un diffuso e onnipresente
Weltschmerz: nel caso di John, tutti
osserveranno «i suoi piedi penzolare nel vuoto; a formare con il loro movimento
[…] un cerchio che diffonde la morte per tutto l’universo»[737].
Entrambi, rifiutando la vita, combattono una guerra innanzitutto personale:
Bruto si muove feroce contro il fato, mentre John si ribella contro l’impostura
delle istituzioni. Come rileva Marco Balzano,
la modalità della guerra non è solo
un altro elemento comune tra antichi e selvaggi, ma è il punto di maggiore
convergenza tra queste due figure, che si aggiunge agli accostamenti già
presentati: fede nelle illusioni, slancio energico verso una vita attiva, forte
sentimento dell’amor proprio e, sempre sulla scorta principale di Rousseau,
estraneità al lusso dell’arte che svigorisce84.
Quanto alla fede nelle illusioni, un altro punto in comune
tra Bruto e John è che entrambi, disingannati di fronte alla caduta degli
ideali (per uno la virtù, per l’altro felicità e libertà), non riescono a
conseguire il proprio traguardo morale, e nessuno dei due si distingue per azioni
grandiose e magnanime: né per l’uomo antico, né per il Selvaggio, l’ideale è
possibile a conseguirsi. Soprattutto, di fronte alla lotta contro la necessità,
entrambi deviano dalla sfera del razionale per lasciarsi guidare dall’irruenza
del sentimento. Si legga Huxley:
L’azione morale mira alla
realizzazione del massimo bene; il massimo bene può venir realizzato soltanto
dove esista una volontà razionale nelle persone e un mondo nel quale questa
volontà razionale virtuosa non venga avversata, un mondo ove la virtù sia unita
alla felicità. Ma è una questione di fatto brutale ed empirico che, nel mondo
dei fenomeni, i più virtuosi non sono necessariamente i più felici, e che la
volontà razionale non è sempre quella che prevale. Ne segue perciò che l’unione
della virtù e della felicità, senza la quale il bene massimo non può
realizzarsi, deve venir effettuata da qualche potere esteriore a noi, il quale
disponga le cose in modo che, per quanto parziale e temporanea possa esserne
l’apparenza, l’ordine totale del mondo sia morale e dimostri l’unione della virtù
e della felicità[738].
Dal passo citato si evince che il connubio virtù-felicità
debba necessariamente adempiersi per mano di una forza esterna all’agire umano,
e che l’uomo sia dunque costretto, in mancanza di questa forza, a vivere
nell’infelicità e nell’insuccesso. A tal proposito, c’è un momento preciso,
importante, nello sviluppo del romanzo huxleyano, in cui la confessione del
Selvaggio pare accostarsi a Leopardi giovane – e, di conseguenza, al suo
Bruto:
L’ebbrezza del successo era
svaporata; egli era, passati i fumi, il suo antico se stesso; e per contrasto
con la gonfiatura temporanea di quelle ultime settimane, l’antico se stesso
sembrava essere, come non mai prima, più pesante dell’atmosfera circostante. Al
Bernardo sgonfiato, il Selvaggio dimostrò una simpatia inaspettata.
«Ora somigliate di più a colui ch’eravate a
Malpais» disse quando Bernardo gli ebbe raccontato la sua dolorosa storia. «Vi
ricordate quando abbiamo cominciato a parlare noi due, davanti alla piccola
casa? Somigliate a colui ch’eravate allora.»
«Perché
sono di nuovo infelice; ecco perché.»
«Ebbene, io preferirei essere infelice
piuttosto che avere questa specie di falsa, menzognera felicità che avete qui.»86
L’«antico sé stesso». Come Bruto, anche John vive un momento
di crisi individuale ed esistenziale quando entra in contatto con la società
londinese “fordizzata”, – progressista, esatta, precisa, produttrice e
macchinosa – in cui «i moderni hanno sviluppato quel positivo principio
spirituale e razionale che, per Leopardi, è causa di decadenza e insieme di
infelicità» [739] . Per quella
massa di individui creati e addestrati per essere solo e unicamente devoti al
lavoro, al loro status sociale, senza
che vengano rimarcate differenze di ceto se non per mera questione di ordine,
senza che esistano dolori, sciagure o malattie, la felicità è «menzognera»
(«Son così contento di essere un
Beta!»)[740].
Ma la meditazione di
John non ricalca solo il malessere di Bruto: risalendo alle Operette morali, è possibile riscontrare
nelle parole del Selvaggio lo stesso atteggiamento di Tristano, quando, «quasi
sdegnasse ormai proseguire in una simile lotta» ideologica con l’amico, verso
la fine del dialogo «abbandona la sua finzione, anzi ogni volontà di polemica,
e si restringe in sé stesso e confessa, senza chiedere compassione o consensi,
la propria infelicità»[741]:
Amico. Io non conosco le cagioni di
cotesta infelicità che dite. Ma se uno sia felice o infelice individualmente,
nessuno è giudice se non la persona stessa, e il giudizio di questa non può
fallare.
Tristano.
Verissimo. E di più vi dico francamente, ch’io non mi sottometto alla mia
infelicità, né piego il capo al destino, o vengo seco a patti, come fanno gli
altri uomini; e ardisco desiderare la morte, e desiderarla sopra ogni cosa, con
tanto ardore e con tanta sincerità, con quanta credo fermamente che non sia
desiderata al mondo se non da pochissimi90.
Dopo aver maturato una cospicua esperienza
del mondo e della società, Tristano, come
John, si dissuade dell’idea che
questa possa funzionare senza intoppi, che rifletta,
insomma, la «luce dell’età presente»[742], e come Leopardi smette di
lottare contro il destino per ritirarsi nel suo vizio eremitico dell’absence.
E nel Mondo nuovo, di fronte all’amaro spettacolo di una vita
intrinsecamente infelice, John si scopre più che mai disilluso, e la sua ferrea
morale e la vocazione alla cultura vengono meno (per quanto selvaggio, era
stato educato dagli insegnamenti di sua madre Linda, ex Beta minus che lo aveva concepito per errore
assieme al direttore Tomakin, e attraverso la lettura di Shakespeare, più volte
decantato e citato all’interno dei suoi discorsi). Trapiantato a Londra,
«scoprirà che il migliore dei mondi possibili è in realtà uno spazio donde è
stato bandito ogni vero sentire e che tutto quanto fa l’uomo “rotondo e umano”,
dolore e dubbio e coscienza di sé, non esiste più»[743].
Insomma, una volta “integrato” nel nuovo mondo, John vive il disagio e la
difficoltà di chi è nella situazione di mezzo tra un passato che rifiuta e un
presente (con tanto di prospettiva futura) che non rispecchia le aspettative:
anche lui, come Bruto, sta sul confine, e non potendo scegliere né l’una né
l’altra soluzione (tornare nella Riserva o proseguire la vita da civile),
rinnega la sua vita con un atto estremo. Non si può dire, comunque, che non
avesse portato avanti nemmeno un tentativo per dare voce al suo dissidio
interiore, perché alla fine, come Tristano, «quello che gli importa è dire chi
egli sia, quanto egli sia diverso dagli altri uomini»[744]:
«Ma io amo gli inconvenienti.»
«Noi no» disse il Governatore. «Noi
preferiamo fare le cose con ogni comodità.»
«Ma io non ne voglio di comodità. Io voglio Dio, voglio la poesia,
voglio il pericolo reale, voglio la libertà, voglio la bontà. Voglio il
peccato.»
«Insomma» disse Mustafà Mond «voi reclamate il
diritto di essere infelice.» «Ebbene,
sì» disse il Selvaggio in tono di sfida «io reclamo il diritto d’essere infelice»94.
Il diritto all’infelicità reclamato a gran voce da John
certo scaturisce non solo dall’aspra delusione sperimentata nella nuova Londra,
ma anche dai momenti di solitudine passati a Malpais («e poi, ero infelice;
questa era un’altra ragione»)95. È interessante rilevare
come l’atmosfera intima e tetra in cui è immerso il
Selvaggio sia oltremodo simile a quella che pervade il suicida di Filippi:
Completamente solo, fuori dal pueblo, sul nudo pianoro della mesa. La
roccia era simile a ossame calcinato sotto la luce lunare. Giù nella valle i
lupi delle praterie latravano alla luna. Le contusioni gli dolevano, le ferite
sanguinavano ancora; non era tuttavia per il dolore ch’egli singhiozzava, ma
perché era completamente solo, perché era stato cacciato, tutto solo, in questo
mondo sepolcrale di rocce e di luce lunare. All’orlo dell’abisso sedette. La
luna stava dietro a lui; egli guardò nell’ombra nera della mesa, nell’ombra
nera della morte. Aveva soltanto da fare un passo, un piccolo salto… Stese la
mano destra verso il chiaro di luna. […] Egli aveva scoperto il Tempo, la Morte
e Dio[745].
Dalla cornice che inquadra i più intensi momenti di
riflessione del Selvaggio emergono due immagini principali: l’ombra notturna,
che richiama le «nere ombre» a cui maligno sorride Bruto (v. 45); e la luna, il
cui «verecondo raggio» che introduce il monologo funebre di Saffo illumina
anche una Filippi deserta («E tu dal mar cui nostro sangue irriga, / candida
luna, sorgi, / e l’inquieta notte e la funesta / all’ausonio valor campagna
esplori», vv. 76-79).
Ma nel Mondo nuovo nessuno ha modo di vivere angosce personali perché «al giorno
d’oggi – soprattutto nei Paesi a regime totalitario […] – le autorità
governative operano affinché la gente non si rinchiuda nel privato nei momenti
di crisi»[746] (motivo per cui John viene
tenuto sotto costante osservazione). Il Selvaggio non è l’unico ad essere inquieto:
per dirla con Manfrelotti, «tutto andrebbe per il meglio in questo universo di
zombi sorridenti se un errore nel trattamento chimico di un ovulo non facesse
di Bernard Marx […] se non un ribelle nel vero senso della parola, un
“diverso”» 98 . La sua descrizione ricorda l’immagine leopardiana
del giovane sensibile, dotato di alto ingegno ma costretto, come Saffo, in una
«difficile forma» fisica:
Un’insufficienza ossea e muscolare
aveva isolato Bernardo dai suoi simili, e il senso di questo isolamento,
essendo, secondo tutti i criteri correnti, un eccesso mentale, divenne a sua
volta una causa di separazione maggiore. Ciò che aveva dato a Helmoltz così
sconfortante coscienza della sua personalità e del suo isolamento era un
eccesso di talento.
Ciò che i due uomini avevano in
comune era la coscienza di essere degli individui. […]
Una deficienza fisica poteva
produrre un eccesso mentale. Il processo era apparentemente invertibile. Un
eccesso mentale poteva produrre, ai suoi fini, la cecità e la sordità volontarie
di una solitudine deliberata, l’impotenza artificiale dell’ascetismo[747].
A differenza degli altri, nel mondo nuovo Bernardo è
l’unico, assieme al poeta Helmoltz, ad avere coscienza di essere un individuo. Così, «in una società
caratterizzata dalla costante riproduzione del sempre uguale, l’evidente
diversità di Bernardo diviene l’elemento perturbante che lo spinge alla
riflessione e, successivamente, alla ribellione»[748]:
come Leopardi, si sente diverso, rilegato ai margini della società, eppure
portavoce di una verità altra che, scaturita dalla sua spiccata sensibilità, lo
porta a domandarsi cosa ci sia oltre la fallace esistenza che spinge le masse a
lavorare. In virtù di un paragone leopardiano, si può affermare con Luporini
che «in forme storicamente disuguali, asimmetriche fra loro, nel corso delle
civiltà, l’uomo è tuttavia per Leopardi sempre sentimento e immaginazione, e
solo secondariamente ragione» [749]. Bernardo infatti, quale
uomo sensibile, è capace di provare desiderio, che non è, contrariamente a ciò che
sperimentano tutti gli altri, mera cupidigia. Siano d’aiuto le parole del
critico:
Ma al di là e prima delle
«immagini» vi è nell’uomo un agire originario e permanente dell’immaginazione
sul sentimento in quanto essa opera su un elemento che è il più profondo e
indomabile nell’uomo: il desiderio,
fatto identico al suo stesso vivere (finché c’è vita c’è desiderio). Alla
radice dei desideri, sensibili o spirituali, degli uomini, che sono tutti
indirizzati alla ricerca del piacere, vi è un desiderio senza oggetto
determinato, il desiderio di una felicità infinita che sfugge ad ogni rappresentabilità.
È evidente che senza l’immaginazione il desiderio, che è un fatto animale,
biologico, non potrebbe assumere tali caratteristiche umane (ne è una riprova,
per Leopardi, l’erotismo il quale sorge sulla mera sessualità – così
intermittente negli animali – allorché gli uomini hanno cominciato a
nascondere, in parte, i propri corpi, vestendoli)[750].
Dal momento che è l’unico a mostrare unicità, come molecola
che si distacca dall’intero organismo sociale, è inevitabile che è proprio
«attraverso Bernardo […] che una minuscola crepa nel sistema diviene amplissima
falla»[751], poiché solo lui riflette
un dissidio tutto umano e moderno:
Sovente, nel passato, s’era chiesto
come sarebbe stata la vita se fosse stato sottoposto (senza soma e con null’altro che le proprie
forze su cui contare) a qualche grande prova, a qualche pena, a qualche
persecuzione; aveva anzi desiderato ardentemente la prova dolorosa. Soltanto
una settimana prima, nell’ufficio del Direttore, si era immaginato di resistere
coraggiosamente, di accettare stoicamente la sofferenza, senza una parola. Le
minacce del Direttore lo avevano veramente esaltato, gli avevano dato la
sensazione d’essere più grande della vita. Ma questo, adesso se ne rendeva
conto, perché non aveva preso le minacce sul serio; non aveva creduto che,
quando fosse arrivato il momento, il Direttore avrebbe fatto qualche cosa. Ora
pareva che le minacce dovessero essere messe in atto, Bernardo era atterrito.
Di quello stoicismo immaginato, di quel coraggio teoretico, non era rimasta
traccia[752].
Il suo strano affanno viene deriso perché «un uomo
civilizzato non ha nessun bisogno di sopportare alcunché di particolarmente
sgradevole», e soprattutto perché «tutto l’ordine sociale sarebbe sovvertito se
gli uomini si mettessero a fare le cose di loro propria
testa»[753].
A tal proposito, c’è ancora
un elemento nel Mondo nuovo che,
volendo, può essere oggetto di paragone con la filosofia leopardiana: si tratta
del soma, una droga pubblica e
gratuita di cui tutti usufruiscono quotidianamente per mantenersi in uno stato
d’animo sereno e “felice” (sarebbe meglio dire assopito). In realtà, il soma
non è altro che un metodo di stordimento concepito dall’alto, al fine di
preservare uomini e donne da scomode incertezze e angosce esistenziali:
se per qualche disgraziata
evenienza un crepaccio s’apre nella solida sostanza delle loro distrazioni, c’è
sempre il soma, il delizioso soma, mezzo grammo per un riposo di
mezza giornata, un grammo per una giornata di vacanza, due grammi per
un’escursione nel fantasmagorico Oriente, tre per una oscura eternità nella
luna[754].
Il legame con Leopardi è ora possibile nel momento in cui la
funzione del soma ha qualcosa a che
fare con «il piacer vano delle illusioni»[755].
In una società e in un tempo storico moderni, «il trionfo della ragione
(scientifica, analitica) uccide le illusioni – almeno quelle collettive – ma
paradossalmente libera il sentimento puro, incondizionato,
originale», dando vita a «una specie di cortocircuito»[756]. Se dunque l’eccesso di
ragione toglie all’uomo la facoltà immaginativa – ed è ciò che accade nel Mondo nuovo – e paradossalmente depura
la mente da qualsiasi stimolo, ne deriva che l’uomo si ritrova in uno stato in
cui è libero di pensare e sentire in maniera incondizionata. Nulla di ciò è
permesso nel mondo di Ford – poiché ogni deviazione individuale guasterebbe all’equilibrio
del sistema – e allora il soma serve
proprio a questo: a tenere sotto controllo la funzione di ognuno (perché nel
mondo di Ford la vita è funzione),
nonché il pur minimo tentativo di evasione dalla sfera del qui e ora, offrendo un tipo di svago totalmente condizionato, che
rassicuri gli uomini di poter riempire il loro tempo libero sì divertendosi (in
una sorta di pascaliano divertissement),
ma comunque – e forse un po’ ingenuamente – sotto stretto controllo dello
Stato.
Non solo: nel momento
in cui la carica del soma è quella di
una droga che genera stordimento e rimedio dalle fatiche e dalla noia, quella
stessa funzione è ravvisabile in maniera precisa nel Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare, nel momento in
cui i due personaggi discutono sopra la natura della noia:
Tasso. Che
rimedio potrebbe giovare contro la noia?
Genio. Il sonno,
l’oppio e il dolore. E questo è il più potente di tutti: perché l’uomo mentre patisce,
non si annoia per niuna maniera[757].
Nel Dialogo
Leopardi offre insomma quegli spunti che possono distrarre l’uomo non solo dalla
noia, ma anche dai pensieri che lo condurrebbero a ragionare sopra il suo
stato:
Tasso. […] la
mente, non occupata da altro e non isvagata, mi si viene accostumando a conversare
seco medesima assai più e con maggior sollazzo di prima, e acquistando un abito
e una virtù di favellare in se stessa, anzi di cicalare, tale, che parecchie
volte mi pare quasi di avere una compagnia di persone in capo che stieno
ragionando, e ogni menomo soggetto che mi si appresenti al pensiero, mi basta a
farne tra me e me una gran diceria[758].
Nel Mondo nuovo,
inoltre, l’intorpidimento generato dal soma
rovescia la classica concezione cartesiana del cogito ergo sum: «Ero e sarò, parole che mi fanno male. […] Prendo
un grammo e allora sono»[759]. L’individuo non è
nel momento in cui lucidamente
pensa (cioè: ragiona), bensì crede di essere, di esistere solo nel momento in cui è sotto
effetto del soma, e dunque assopito,
stordito, tolta ogni facoltà di riflessione. Attraverso l’espediente narrativo
del soma, Huxley riesce a mettere in
evidenza un pensiero ben più profondo riguardo il labile confine che esiste tra
il vero e la razionalità:
Con tutta la buona volontà, non
sempre noi possiamo essere completamente nel vero, coerentemente nella ragione.
Possiamo essere veritieri e razionali nella misura che le circostanze ci
permettono, e rispondere meglio che sappiamo alla parziale verità, al
ragionamento imperfetto che gli altri ci offrono in considerazione[760].
A ben vedere, nel nuovo mondo di Ford alberga una verità
parziale: nessuno sa cosa si celi veramente
dietro i piani dispotici del governo, e così tutti sono convinti di vivere nel
giusto, specie quando si abbandonano al piacere dei sensi concesso dal soma.
Ignari di cosa sia il dolore, gli uomini
del mondo nuovo si rifugiano nel soma alla
minima occorrenza: «Un grammo, decise, non sarebbe bastato. Il suo dolore
valeva più d’un grammo»[761]. Ad essere messa in
discussione è allora anche la misura del dolore, la validità di un sentimento
che per istinto l’uomo cerca di sopprimere, nella rincorsa allo slancio
eudemonistico: e il soma, come le
illusioni, accompagna l’uomo a distaccarsi dalla cruda consapevolezza di una
vita costitutivamente infelice («La seconda dose di soma, ingoiata mezz’ora prima della chiusura, aveva innalzato un
muro del tutto impenetrabile fra l’universo reale e il loro spirito»)[762]. La funzione del soma si infiltra così in quella che è la
natura umana, che «spinge l’uomo ad agire, sorretto dalle illusioni, per distrarsi e dimenticare»[763]. Per il Mondo nuovo – così come per Leopardi –
sembra calzare perfettamente il ragionamento di Antonio Negri:
L’illusione qui non ha dialettica,
neppure falsa e fugace – è immediatamente la solidità dell’inganno – una
macchina di inganno, una storia di alienazione della umana potenza. […] Quanto
più, dunque, procediamo nel mondo dell’illusione, tanto più quel mondo è
segnato da un progressivo depotenziamento del suo essere, della sua potenza,
della possibilità di essere riscattato116.
Inganno e alienazione dell’umana
potenza: questo è il nuovo mondo che secondo Huxley si sarebbe prospettato
all’umanità, un mondo senza sentimenti e senza cultura.
Eppure, per quanto
apparentemente perfetto, anche nel Mondo
nuovo regna, se vogliamo, una dialettica del male, quella che
leopardianamente potrebbe definirsi «male nell’ordine». Analizzando l’opera si
evince che un punto di arrivo è volto «all’interrogazione plurale sul concetto
di male: nel romanzo la diversità di cultura e di educazione renderà, infatti,
la diversa concezione di male un forte fattore di incomprensione sociale»[764]. Nei due opposti modelli
di società, ciò che nell’una è bene nell’altra è male: se il mondo nuovo ha
abolito i sentimenti e la cultura, per il Selvaggio John amore e poesia sono
organi vitali. In uno dei suoi numerosi scambi col Governatore, spiccano le
ineludibili divergenze di pensiero tra i due uomini:
Il Selvaggio scosse la testa.
«Tutto questo mi sembra assolutamente orribile».
«Si capisce. La felicità effettiva sembra
sempre molto squallida in confronto ai grandi compensi che la miseria trova. E
si capisce anche che la stabilità non è neppure emozionante come l’instabilità.
E l’essere contenti non ha nulla d’affascinante al paragone di una buona lotta
contro la sfortuna, nulla del pittoresco d’una lotta contro la tentazione, o di
una fatale sconfitta a causa della passione o del dubbio. La felicità non è mai
grandiosa»[765].
Sono le parole stesse del Governatore a destrutturare, per
un attimo, l’impianto della società: persino lui asserisce che la felicità è
«squallida», e nonostante questo ciò che nel mondo nuovo è severamente bandito,
e contrastato, è proprio il naturale e immutabile ordine dell’universo. Nello
stato totalitario sorto a unica potenza mondiale, ciò che non viene accettato è
che «il male, una volta relativizzato e reso funzionale al bene, perde, per
così dire, il proprio carattere di male, non è più riconoscibile come soltanto
tale, e finisce con l’assumere le sembianze se non di un bene tout court, certamente di un elemento da
cui lo stesso bene non può prescindere»119:
Noi concepiamo più facilmente de’
mali accidentali, che regolari e ordinarii. Se nel mondo vi fossero disordini, i mali sarebbero straordinarii, accidentali; noi diremmo:
l’opera della natura è imperfetta, come son quelle dell’uomo; non diremmo: è
cattiva. L’autrice del mondo ci apparirebbe una ragione e una potenza limitata: niente maraviglia; poiché il
mondo stesso (dal qual solo, che è l’effetto, noi argomentiamo l’esistenza
della causa) è limitato in ogni senso. Ma che epiteto dare a quella ragione e
potenza che include
il male nell’ordine, che fonda
l’ordine del male? Il disordine varrebbe assai meglio: esso è vario, mutabile;
se oggi v’è un male, domani vi potrà esser del bene, esser tutto bene.
Ma che
sperare quando il male è ordinario?
dico, in un ordine ove il male è essenziale?[766]
Attraverso una delucidazione del tutto inaspettata, è
proprio il Governatore del nuovo mondo (una sorta di demiurgo che potrebbe
ricordare il leopardiano «eterno / degli astri agitator» dell’Inno ai Patriarchi)[767]
ad ammettere che uno stato d’animo quieto non lascia spazio per quel forte e
lacerante sentire di cui l’uomo sarebbe invaso se si trovasse a dover fronteggiare
la sfortuna. Che equivale a dire la fortuna, il fato, la natura; insomma, la
lotta contro quella stessa «ferrata necessità» che, di fronte al disinganno,
John, Bruto, Saffo, Leopardi, e con loro tutto il genere umano, sempre e
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[1] Cfr. commento di A.
Campana, in G. Leopardi, Canti,
introduzione e commento di A. Campana, Roma, Carocci, 2014, p. 151: «Minore significa iunior rispetto al padre adottivo, Marco Giunio Bruto senior, tribuno della plebe».
[2] Cfr. commento e note di M.
Fubini, in G. Leopardi, Canti,
introduzione e commento di M. Fubini [1964], edizione rifatta con la
collaborazione di E. Bigi, Torino, Loescher, 1985, p. 72: «Composta subito dopo
le due precedenti, nel dicembre 1821, “opera di 20 giorni”, secondo la
testimonianza del L. stesso; pubblicata per la prima volta in B 24 e poi in F
ed N».
[3] G. Leopardi, Disegni letterari, in G. Leopardi, Poesie e prose vol. II, a cura di R.
Damiani e M.A. Rigoni, con un saggio di C. Galimberti [1988], Milano,
Mondadori, 2003, p. 1212, § V [ARGOMENTO DI UN LIBRO POLITICO]; p. 1213: «A
Bruto come sopra, e notando e compiangendo l’abiura da lui fatta della virtù.
Così anche a qualche altro fautore dell’antica libertà», § VII.
[4] Ibidem. Si veda anche G. Leopardi, Disegni letterari, a cura di F. D’Intino, D. Pettinicchio, L.
Abate, Macerata, Quodlibet, 2021, p. 134: «Per di più, il proposito di trattare
“Di quella famosa esclamazione di Bruto vicino a morte” lascia pensare che il
disegno sia precedente alla stesura della Comparazione
delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto vicini a morte (marzo 1822)».
[5] W. Binni, La protesta di Leopardi [1988], Firenze,
Sansoni, 2000, p. 52: «O ancora l’Argomento
di un libro politico riconducibile alle meditazioni politiche dello Zibaldone, tra il ’20-’21, specialmente
per gli accenni all’amore della virtù presso gli antichi e alla necessità di
rendere individuale l’interesse per lo stato».
[6] Z III, 291, 3, in G.
Leopardi, Zibaldone scelto, in G.
Leopardi, Opere, a cura di G. De
Robertis, Milano, Rizzoli, 1937, vol. III, p. 380: «Il mio sistema introduce
non solo uno scetticismo ragionato e dimostrato, ma tale che, secondo il mio
sistema, la ragione umana, per qualsivoglia progresso possibile, non potrà mai
spogliarsi di questo scetticismo; anzi esso contiene il vero, e si dimostra che
la nostra ragione non può assolutamente trovare il vero se non dubitando;
ch’ella si allontana dal vero ogni volta che giudica con certezza; e che non
solo il dubbio giova a scoprire il vero […], ma il vero consiste essenzialmente
nel dubbio, e chi dubita sa, e sa il più che si possa sapere (8 settembre
1821)».
[7]
G. Leopardi, Disegni letterari, a
cura di F. D’Intino, D. Pettinicchio, L. Abate, cit., p. 135.
[8] Z II, 41, 2 in G.
Leopardi, Zibaldone scelto, in G.
Leopardi, Opere vol. III, cit., p.
238. Nel passo successivo (Z II, 43, 1) L. spiega la sua preferenza per
l’autore: «Floro è noto per il molto che ha di poetico, non solo
nell’invenzione, evidenza, fecondità, come Livio, ma nella sentenza e nella
frase, anzi non tanto nella facoltà quanto nella maniera, nello stile e nella
volontà. E in ogni modo Floro ha tanto di gravità, nobiltà, posatezza ed ancora
castigatezza, in somma tanto sapor di prosa, quanto non si troverà facilmente
in nessun moderno», in ivi, p. 239.
[9]
L. Blasucci, I titoli dei «Canti» e altri
studi leopardiani, Venezia, Marsilio, 2011, p. 149.
[10] Cfr. commento di A.
Campana in G. Leopardi, Canti,
introduzione e commento di A. Campana, cit., p. 153: «Il titolo riecheggia
quello di opere latine basate su un personaggio parlante in prima persona,
anche se alter ego dell’autore:
“Bruto minore. Così gli antichi intitolavano spesso i loro libri assolutamente
dal nome delle persone che v’erano introdotte a parlare. Non solo i Dialoghi
(come Cic. il Cato maior, e il
[11]
L. Blasucci, op. cit., p. 149.
[12] Ibidem. Il critico spiega poi in nota che si tratta di una
«strategia che diventa sistematica nelle Operette
[…]. Si pensi anche ai Paralipomeni della
Batracomiomachia, un titolo volutamente stantio, da dotto
scioglilingua».
[13] G. Leopardi, Canti, edizione critica diretta da F.
Gavazzeni, a cura di C. Animosi, F. Gavazzeni, P. Italia, M.M. Lombardi, F.
Lucchesini, R. Pestarino, S. Rosini. Nuova edizione, Firenze, Presso
l’Accademia della Crusca, 2009, vol. I, p. 147: «B 24. La canzone si legge alle
pp. 89-96 (sesto posto) ed è preceduta, alle pp. 71-87, dalla Comparazione delle sentenze di Bruto minore
e di Teofrasto vicini a morte». Più precisamente, si può aggiungere che «fu
in seguito pubblicata da Ranieri nella lemonnieriana del ’45 tenendo conto
delle correzioni apportate da Leopardi su un esemplare del ’24», cfr. commento
e note in Appendice alle Operette morali,
in G. Leopardi, Poesie e prose vol. II,
cit., p. 1379.
[14] B. Zandrino, La comparazione dei disinganni, in Leopardi e il mondo antico, Atti del V
Convegno Internazionale di studi leopardiani (Recanati, 22-25 settembre 1980),
Firenze, Olschki, 1982, pp. 637-655, p. 641.
[15]
Ibidem e ivi, p. 642.
[16]
Entrambe le citazioni sono contenute in ivi,
p. 640.
[17]
Ibidem e ivi, p. 641.
[18] Lettera A Pietro Giordani, Piacenza (Recanati 27 Novembre 1818), in G.
Leopardi, La vita e le lettere,
scelta, introduzione biografica e note di N. Naldini, prefazione di F. Bandini
[1983], Milano, Garzanti, 2020, p. 87: «Mi domandate che leggerò questo
inverno: scilicet, libri antichi,
perché i moderni qua non arrivano, e io presentemente leggendo sempre, sto in
una totale ignoranza delle cose del mondo letterario.
Ma nei Classici greci latini italiani m’immergerò fino
alla gola».
[19]
G. Leopardi, Canti, introduzione e
commento di A. Campana, cit., p. 152.
[20] G. Leopardi, Comparazione delle sentenze di Bruto minore
e di Teofrasto vicini a morte, in G. Leopardi, Poesie e prose vol. II, cit., p. 266. Corsivo nel testo.
[21] G. Leopardi, Bruto minore, vv. 1-6, in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di M.
Fubini, cit., p. 73. Corsivo mio.
[22] Cfr. L. Blasucci, Leopardi e i segnali dell’infinito,
Bologna, Il Mulino, 1985, pp. 18-19: «Ma anche al di là di vere e proprie
coincidenze lessicali o di immagini, il testo della versione virgiliana può
agire con la suggestione di alcuni movimenti sintattici, una precisa coscienza
di tale tipo di derivazioni mostrava di averla lo stesso Leopardi allorché
nelle sue annotazioni alle canzoni giustificava il passaggio dal perfetto al
presente nell’esordio del Bruto minore
(“Poi che divelta, nella tracia polve / giacque ruina immensa / l’italica
virtute [ecc.]) con alcuni esempi virgiliani, il primo dei quali era dato
all’inizio del terzo libro (“Postquam res Asiae, Priamique evertere gentem
[ecc.]), da lui stesso tradotto anni prima con la conservazione del fenomeno
sintattico». Per un ragguaglio completo si veda l’intero saggio Una fonte linguistica per i «Canti»: la
traduzione del secondo libro dell’«Eneide», in ivi, pp. 9-30.
[23] G. Leopardi, Canti, a cura di U. Dotti, cit., pp.
514-515: è presente per intero la spiegazione data da L. circa l’uso di due
tempi verbali distinti all’interno della stessa strofa, di cui qui si è
riportata solo una parte. Alla fine, l’autore ribadisce di aver recato «questi
soli esempi dei mille e più che si potrebbero cavare dal solo Virgilio,
accuratissimo e compitissimo sopra tutti i poeti del mondo». Cfr. P. Citati, Leopardi, Milano, Mondadori, 2010, p.
197: «Dopo che piacque ai celesti di abbattere la potenza dell’Asia / E
l’incolpevole gente di Priamo e cadde la superba / Ilio…».
[24] Cfr. note di M. Fubini al
Bruto minore, in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di M.
Fubini, cit., p. 73.
[25] Nella sua introduzione in
G. Leopardi, Operette morali seguite da una scelta dei “Pensieri”,
studio introduttivo e commento di M. Fubini [1966], Torino, Loescher, 1985, p.
23, Fubini parla di «ricerca del peregrino,
vale a dire, della voce lontana dall’uso comune, e nella sostituzione della
voce indeterminata e generica al termine preciso e nudo».
[26]
Ivi, p. 33.
[27] Entrambe le citazioni
sono prese da G. Di Fonzo, La negazione e
il rimpianto. La poesia leopardiana dal “Bruto minore” alla “Ginestra”,
Roma, Bulzoni, 1991, p. 46.
[28]
Ibidem e ivi, p. 47.
[29] L. Blasucci, I titoli dei «Canti» e altri studi
leopardiani, cit., p. 163. Si veda, di rimando, G. Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova edizione
tematica condotta sugli Indici leopardiani, a cura di F. Cacciapuoti
[30]
G. Leopardi, Nelle nozze della sorella
Paolina, vv. 1-6, in G. Leopardi, Canti,
introduzione e commento di M. Fubini, cit., p. 62.
[31]
Entrambe le citazioni sono prese da L. Blasucci, Leopardi e i segnali dell’infinito, cit., p. 10.
[32] Entrambe le citazioni
sono prese da S. Timpanaro, Il Leopardi e
i filosofi antichi, in S. Timpanaro, Classicismo
e Illuminismo nell’Ottocento italiano, Pisa, Nistri-Lischi, 1965, p. 191.
[33] Cfr. Bruto minore, vv. 19-21: «A voi, marmorei numi, / (Se numi avete in
Flegetonte albergo / O su le nubi)». Ritorna con ciò l’utilizzo del
singolarissimo aggettivo marmorei,
per cui siano chiarificatori i commenti dei seguenti critici: secondo Fubini, «marmorei: indifferenti di una
indifferenza che mal nasconde l’intima crudeltà», in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di M.
Fubini, cit., p. 74; similmente Campana spiega: «divinità effigiate nel marmo
(ma marmorei gioca anche sul pedale dell’indifferenza,
della petrosa freddezza degli dèi verso gli uomini)», in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di A.
Campana, cit., p. 156.
[34] Z 160, 2 in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova edizione
tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., p. 259. Cfr. G. Barberi
Squarotti, Leopardi e gli eroi antichi,
in Leopardi e il mondo antico, pp.
225-239, p. 226: «Bruto non è neppure nominato nella considerazione sul
fallimento che il tirannicidio fu perché “putridi” erano ormai i nipoti di
Romolo, incapaci di credere ancora nelle illusioni e vanità che avevano fatto
grande Roma, perché tali illusioni e vanità non avevano resistito all’analisi razionale
della filosofia, che aveva ormai conquistato Roma».
[35] G. Leopardi, Bruto minore, vv. 19-21, in G. Leopardi,
Canti, introduzione e commento di M.
Fubini, cit., p. 74.
[36]
U. Dotti, Lo sguardo sul mondo.
Introduzione a Leopardi, Bari, Laterza, 1999, p. 56.
[37] Z 543, 1 in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova edizione
tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., p. 310.
[38] W. Binni, Lettura delle Operette morali, Genova,
Marietti, 1987, p. 7, in nota: «Il dialogo si può attribuire all’agosto del ’20».
[39]
S. Timpanaro, op. cit., p. 193.
[40] Si veda la nota
introduttiva di L. in Dialogo… ec. in
G. Leopardi, Poesie e prose vol. II,
cit., p. 234: «Murco significa poltrone, e dall’altro canto Appiano nomina un
certo Murco fra quelli che si unirono ai congiurati fingendo di avere avuto
parte nella congiura».
[41]
W Binni, Lettura delle Operette morali,
cit., p. 7.
[42]
G. Leopardi, note al Dialogo… ec., in
G. Leopardi, Poesie e prose vol. II,
cit., p 1373.
[43] Lettera Ad Antonio Fortunato Stella, Milano
(Bologna 16 giugno 1826), in G. Leopardi, La vita e le lettere, cit. p. 347: «Avrei voluto fare una
prefazione alle Operette morali, ma
mi è paruto che quel tuono ironico che regna in esse, e tutto lo spirito delle
medesime escluda assolutamente un preambolo; e forse Ella, pensandovi, converrá
con me che se mai opera dovette essere senza prefazione, questa lo debba in
particolar modo».
[44]
G. Leopardi, Dialogo… ec., in G.
Leopardi, Poesie e prose vol. II,
cit., p. 234.
[45] W. Binni, Lettura delle Operette morali, cit., p.
7: «C’è poi il Dialogo: Filosofo greco,
Murco senatore romano, popolo romano, congiurati che, dal punto di vista
della capacità organizzativa, per quanto ancora gracile ed acerba, è quello che
appare più celere, borioso, animato dal movimento di battute dialogiche
rapidissime, e sorretto anche da un chiaro riferimento ai politici del tempo, che
Leopardi rivive soprattutto nella satira degli individui vili ed egoisti».
[46]
E. Russo, Ridere del mondo. La lezione di
Leopardi, Bologna, Il Mulino, 2017, p. 30.
[47]
G. Leopardi, Dialogo… ec., in G.
Leopardi, Poesie e prose vol. II,
cit., p. 235. Corsivi miei.
[48] S. Timpanaro, op. cit., p. 193. 50 E.
Russo, op. cit., p. 30.
[49]
Cfr. G. Leopardi, Disegni letterari,
in G. Leopardi, Poesie e prose vol. II,
cit., pp. 1206-1207.
[50] Entrambe le citazioni
sono prese da E. Russo, op. cit., p. 29: «Discutendo ancora del
“ridicolo”, della sua natura “dilettevole”, ma soprattutto della sua valenza di
insegnamento morale, nell’intento di giovare prima ancora che di dilettare […],
Leopardi muove dalla necessità di applicarlo a “materia importante”. Di qui delinea
un programma, e persino un dossier di possibili materie per i suoi “dialoghi”:
tradizionali temi da tragedia che sono ora da trasporre in commedia. L’elenco è
tanto ambizioso quanto esteso: si passa da temi civili (“i vizi dei grandi”)
alla condizione infelice dell’uomo, dalle incongruenze (“gli assurdi”) della politica
alle irregolarità della morale e della filosofia, alla critica del proprio
secolo, in una sequenza che conosce riprese e ritorni […], raccordata soltanto
dal rilievo costante e dal profilo serio, “tragico”, delle materie».
[51]
W. Binni, Lettura delle Operette morali,
cit., p. 7.
[52]
E. Russo, op. cit., p. 30.
[53]
B. Zandrino, op. cit., pp. 645-646.
[54] W. Binni, Lettura delle Operette morali, cit., p.
7: «Il Leopardi qui, in un momento in cui sente il fascino delle individualità
eroiche, satireggia la mutevolezza delle moltitudini».
[55] Questa e le precedenti
citazioni sono tratte da Dialogo…
filosofo greco ecc. in G. Leopardi, Poesie
e prose vol. II, cit. p. 235.
[56]
S. Timpanaro, op. cit., p. 194.
[57]
Ivi, p. 192.
[58] G. Leopardi, Bruto minore, vv. 2-3, in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di M.
Fubini, cit., p. 73.
[59]
U. Dotti, op. cit., p. 58.
[60] G. Leopardi, Bruto minore, vv. 1-9, in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di M. Fubini, cit., p. 74.
[61]
B. Zandrino, op. cit., p. 649.
[62] Cfr. note al Dialogo Galantuomo e mondo, in G.
Leopardi, Poesie e prose vol. II,
cit., p. 1375: «Composto nel giugno del 1821 (secondo un’opinione di Levi,
confermata da Besomi attraverso un riscontro con Zib. 1176-9; 17 giugno 1821)».
[63]
Ibidem e ivi, p. 1376.
[64] G. Leopardi, Dialogo Galantuomo e mondo, in G.
Leopardi, Poesie e prose vol. II,
cit., pp. 253-254. Corsivi miei.
[65]
E. Russo, op. cit., p. 31.
[66]
G. Leopardi, Dialogo Galantuomo e mondo,
in G. Leopardi, Poesie e prose vol. II,
cit., p 256.
[67]
Ivi, p. 257. Corsivi miei.
[68] B. Biral, La posizione storica di Giacomo Leopardi.
Nuova edizione riveduta e ampliata [1974], Torino, Einaudi, 1992, p. 271. 71
Ibidem.
[69]
G. Leopardi, Dialogo Galantuomo e mondo,
in G. Leopardi, Poesie e prose, cit.,
p. 257-258. Corsivi miei.
[70]
N. Machiavelli, De principatibus,
testo critico a cura di G. Inglese, Roma, Nella sede dell’Istituto, 1994, p.
263. Corsivi miei.
[71]
Ivi, p. 65. Corsivi miei.
[72] Z IV, 261, 1 in G.
Leopardi, Zibaldone scelto, in G.
Leopardi, Opere vol. III, cit., pp.
499-500. Corsivi miei. Datato 13 giugno 1822.
[73] Entrambe le citazioni
sono tratte da A. Vigorelli, La
“pazienza” di Giacomo Leopardi. Agire e patire: analisi del sistema dello Zibaldone,
Milano, Mimesis, 2019, p. 146. 77 B. Biral, op. cit., p. 271.
[74] Cfr. note in Appendice alle operette morali, in G.
Leopardi, Poesie e prose vol. II,
cit., pp. 1376-1377: «Si compone di tre frammenti, di cui i primi due datano
con ogni probabilità tra il settembre 1820 e il febbraio 1821, e il terzo
esplicitamente 13 giugno 1822».
[75]
E. Russo, op. cit., p. 32.
[76] Cfr. note in Appendice alle operette morali, in G.
Leopardi, Poesie e prose, cit., p.
1377: «Al centro della Novella vi è
ancora la contrapposizione tra le illusioni dei classici e la verità dei
moderni. Configurata nelle forme di un “concorso” che deve scegliere tra
Senofonte e Machiavelli, teorici dell’arte di regnare, l’istitutore del
principe infernale cui è stato affidato un recente trono terreno».
[77]
W. Binni, Lettura delle Operette morali,
cit., p. 6.
[78]
Ibidem.
[79] G. Singh, Leopardi filosofo e anti-filosofo,
Pisa-Roma, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, 1997, p. 77.
[80] G. Leopardi, Per la novella Senofonte e Machiavello,
in G. Leopardi, Poesie e prose vol. II,
cit., p. 261. 85 Ibidem.
Corsivi miei. Cfr. W. Binni, Lettura
delle Operette morali, cit., p. 6: «È una novella che ha punte assai acri,
come là dove il Leopardi parla della virtù che è il “patrimonio dei coglioni”:
è una prosa non atteggiata in forme precisamente artistiche ma soprattutto
svolta in una maniera acutamente dimostrativa e discorsiva».
[81] Cfr. G. Singh, La novella Senofonte e Niccolò
Machiavello, in Il riso leopardiano.
Comico, satira, parodia, Atti del IX Convegno internazionale di studi
leopardiani (Recanati 18-22 settembre 1995), Firenze, Olschki, 1998, pp.
281-287, p. 286: «Perché con tutto l’entusiasmo con cui, dedito come è alla propria
filosofia e al proprio insegnamento, Machiavello rinnega i principi della
vecchia morale, della vecchia – e si può dire perenne – filosofia, egli non può
non provare un certo attaccamento ad essi».
[82] G. Leopardi, Novella: Senofonte e Niccolò Machiavello, in
G. Leopardi, Poesie e prose vol. II,
cit., p.
264. Corsivi miei.
[83]
N. Machiavelli, op. cit., pp.
253-254. Corsivi miei.
[84] Ibidem e ivi, pp.
254-255. Corsivi miei.
[85] M. Marcazzan, Leopardi e l’ombra di Bruto, in Nostro Ottocento, Brescia, La scuola,
1955, pp. 189-292, p. 228.
[86]
G. Leopardi, Novella: Senofonte e Niccolò
Machiavello, in G. Leopardi, Poesie e prose vol. II, cit., p. 265.
[87]
W. Binni, Lettura delle Operette morali,
cit., p. 6.
[88] G. Leopardi, Novella: Senofonte e Niccolò Machiavello,
in G. Leopardi, Poesie e prose vol. II,
cit., p. 265. Il tono del discorso di Machiavelli (cfr. anche nota 88) così
concitato e risoluto nel proposito di voler istruire gli uomini, può ricordare
il celeberrimo passo dell’Inferno
dantesco in cui Ulisse sprona i compagni ad ampliare le proprie conoscenze: «‘O
frati’, dissi, ‘che per cento mila / perigli siete giunti a l’occidente, / a
questa tanto picciola vigilia / d’i nostri sensi ch’è del rimanente / non
vogliate negar l’esperienza, / di retro al sol, del mondo sanza gente. /
Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per
seguir virtute e canoscenza’. / Li miei compagni fec’io sì arguti, / con questa
orazion picciola, al cammino / che a pena poscia li avrei ritenuti» (Inferno, XVI, vv. 112-123). Certo, il
contesto è più che mai diverso – sia per autore, che per periodo storico, che
per contenuti – ma è il tono concitato usato da Leopardi per il personaggio di
Machiavelli a ricordare l’Ulisse di Dante, secondo il quale, naturalmente (e in
maniera del tutto opposta rispetto a Machiavelli o a Bruto ecc.), il
perseguimento della virtù e della scienza sono i grandi ideali, grandi
obiettivi dell’uomo, che solo così si distingue dai bruti.
[89] Commento a G. Leopardi, Novella: Senofonte e Niccolò Machiavello,
in G. Leopardi, Poesie e prose vol. II,
cit., p. 1378. 95 Ivi, p.
265.
[90] Entrambe le citazioni
sono prese da G. Singh, La novella Senofonte
e Niccolò Machiavello, cit., p. 283. Si veda anche ivi, p. 287: «Le basi più profonde del pensiero leopardiano,
infatti, riguardano il concetto dell’uomo, della natura, dell’arte, del destino
umano e della natura umana, dell’universo, dell’essenza e del perché delle
cose, nonché l’arcano mistero della vita, il tempo, lo spazio, l’infinito, la
felicità o l’infelicità, e la natura del pensiero stesso. […] Nel trattare
questi temi, il pensiero di Leopardi a volte raggiunge altezze più ardite, e si
trasforma in un tipo di saggezza al tempo stesso filosofica e morale. E quindi
il peso che in un dato contesto letterario, come quello di questa novella,
viene dato al machiavellismo di società, o all’arte di regolarsi nella società,
deriva in gran parte la sua giustificazione dal carattere fondamentalmente
satirico della novella».
[91] Entrambe le citazioni
sono prese da ivi, p. 284.
[92] Entrambe le citazioni
sono prese da M. Marcazzan, op. cit.,
p. 227. Quanto alle «esasperate confessioni del 1819», il critico fa
riferimento specialmente alla lettera a Broglio d’Ajano, sulla quale si
ritornerà nel paragrafo successivo (cfr. § 1.3).
[93] Entrambe le citazioni
sono prese da ivi, p. 221.
[94] G. Leopardi, Bruto minore, rispettivamente v. 31 e v.
19, in G. Leopardi, Canti,
introduzione e commento di M. Fubini, cit., p. 75.
[95] Lettera A Giuseppe Melchiorri, Roma (Recanati 5
Marzo 1824), in G. Leopardi, La vita
e le lettere, cit., p. 268: «Io non ho scritto in vita mia se non
pochissime e brevi poesie. Nello scriverle non ho mai seguito altro che
un’ispirazione (o frenesia), sopraggiungendo la quale, in due minuti io formava
il disegno e la distribuzione di tutto il componimento. Fatto questo, soglio
sempre aspettare che mi torni un altro momento, e tornandomi […] mi pongo
allora a comporre, ma con tanta lentezza, che non mi è possibile di terminare una
poesia, benché brevissima, in meno di due o tre settimane».
[96] Lettera A Pietro Giordani, Piacenza (Recanati 17 Decembre 1819), in ivi, pp. 137-138: «Io tengo afferrati
con ambe le mani questi ultimi avanzi e queste ombre di quel benedetto e beato
tempo, dov’io sperava e sognava la felicità, e sperando e sognando la godeva;
ed è passato, né tornerà mai più».
[97] S. Solmi, Studi leopardiani. Note su autori classici
italiani e stranieri, a cura di G. Pacchiano, Milano, Adelphi, 1987, p. 61:
«Lo Zibaldone, come s’è detto, è
l’esemplare, unico nella nostra letteratura, di un pensiero in movimento, il quale,
tenendo fermo ad alcune grandi persuasioni radicate nell’esperienza vitale, e
tuttavia imprecisate nelle loro conclusioni ultime, riflette alla luce di esse
il rapporto fra un microcosmo esistenziale e il macrocosmo del mondo e della
natura in tutta la folta, se pur coerente e sorvegliata, tortuosità del suo
svolgersi».
[98] Ivi, pp. 59-60: «Per quanto egli evidentemente presumesse,
elaborando e di continuo aggiustando e sviluppando e spostando le complesse
linee del “sistema”, di ricondurre ogni oggetto di meditazione al medesimo lume
razionale, la frattura rimane aperta fra Ragione e Natura, Realtà e Illusione,
mondo delle cose e mondo dei valori. Ed è qui che comincia a svelarsi il
rapporto necessario che intercede fra Leopardi pensatore e Leopardi poeta, la
compatta unicità di una esperienza nel suo sviluppo profondo».
[99] Si veda quanto scrive W.
Binni, La protesta di Leopardi, cit.,
p. 66: «Tanto che, molto più tardi, lo stesso Leopardi nella celebre lettera al
De Sinner del 24 maggio 1832 poté citare il Bruto
minore (e non senza forzature rispetto alle proprie posizioni del ’32 tanto
diversamente maturate) come testo fondamentale per comprendere la natura non
religiosa del suo pensiero e il suo atteggiamento eroico e protestatario di
fronte “à la destinée”».
[100] C. Genetelli, L’Epistolario, in Leopardi, a cura di F. D’Intino, M. Natale, Roma, Carocci, 2018, p.
142. 109 Lettera A Luigi De
Sinner, Parigi (Firenze 24 Maggio 1832), in G. Leopardi, La vita e le lettere, cit., pp. 514-515,
continua così: «ç’a été par suite de ce même courage, qu’étant amené par mes
recherches à une philosophie déspérante, je n’ai hésité a l’embrasser tout
entière», ecc. In nota, la traduzione del curatore: «Quali siano le mie
sventure, che si è voluto ostentare e che forse si sono un po’ esagerate in
questo giornale, ho abbastanza coraggio per non cercare di diminuirne il peso
né con frivole speranze d’una pretesa felicità futura e ignota, né con una vile
rassegnazione. I miei sentimenti verso il destino sono stati e sono sempre
quelli da me espressi nel Bruto minore.
Come conseguenza di questo coraggio, essendo stato condotto dalle mie ricerche
a una filosofia disperante, non ho esitato di abbracciarla tutta intera».
[101]
G. Barberi Squarotti, op. cit., p.
228.
[102] A. Frattini, L’opposizione antichi-moderni nelle tensioni
epico-liriche delle prime dieci canzoni del Leopardi, in Leopardi e il mondo antico, pp. 451-460,
cit., p. 458.
[103] B. Croce, Leopardi, in B. Croce, Poesia e non
poesia. Note sulla letteratura europea del secolo decimonono [1923], Bari,
Laterza, 1955, pp. 100-116, p. 102: «Si rammenterà il senso di delusione che l’Epistolario leopardiano produsse quando
venne a luce. Dunque (si disse), codeste dottrine alle quali avevamo attribuito
valore speculativo, non erano altro che il riflesso delle sofferenze e miserie dell’individuo?
Delle infermità che lo travagliarono, delle compressioni familiari ed angustie
economiche, del vano desiderio di un amore di una donna non mai ottenuto?». Si
veda quindi, di rimando, la sopracitata lettera al De Sinner: «tandis que de
l’autre côté ce n’a été que par effet de la lâcheté des hommes, qui ont besoin
d’être persuadés du mérite de l’existence, que l’on a voulu considérer mes
opinions philosophiques comme le résultat des mes souffrances particulières, et
que l’on s’obstine à attribuer à mes circonstances matérielles ce qu’on ne doit
qu’à mon entendement. Avant de mourir, je vais protester contre cette invention
de la faiblesse et de la vulgarité, et prier mes lecteurs de s’attacher à
détruire mes observations et mes raisonnements plutôt que d’accuser mes
maladies», in G. Leopardi, La vita e le
lettere, cit., p. 515.
[104]
C. Genetelli, op. cit., p. 129.
[105] Lettera A Pietro Giordani, Milano (Recanati 21 Marzo
1817), in G. Leopardi, La
vita e le lettere, cit., p. 16.
[106]
Lettera A Pietro Giordani, Venezia
(Recanati 8 Agosto [1817]), in ivi,
p. 51.
[107]
P. Citati, op. cit., p. 76: «Nelle
lettere a Giordani, questo desiderio lo riafferrò furiosamente […]: “Farò mai
niente di grande?” Sapeva benissimo che era il sogno di Achille. Come lui,
voleva vincere il tempo, e conquistare l’immortalità».
[108] Cfr. P. Citati, op. cit., pp. 71-72: «Quasi tre anni
dopo la conoscenza con Giordani, Leopardi ricordava nello Zibaldone che “l’eroismo è sparito dal mondo”: nei tempi moderni
non c’erano più Achille e Patroclo, la loro amicizia assoluta, il sentimento
paterno e materno di Achille verso l’amico, Patroclo che indossa le armi di
Achille, la morte, la vendetta, le ossa di entrambi sepolte nella stessa urna.
Oggi, l’amicizia eroica è morta per sempre. Nei tempi moderni è possibile
soltanto una forma di amicizia: quella fra un giovane e “un uomo di sentimento già
disingannato dal mondo, e disperato della sua propria felicità”; l’amicizia, appunto,
che legava Leopardi e Giordani».
[109]
Ivi, p. 74.
[110] Cfr. C. Genetelli, op. cit., p. 135: «Sono, le prime
[lettere] a Giordani, le più organiche al nascente Zibaldone e le più ricche sul fronte della comunicazione e dello
scambio letterario: più in là, la divaricazione delle due scritture si farà,
nel complesso, in modi più netti e determinati. Non è un caso se […] al calo vistoso
delle lettere fra i due amici negli ultimi mesi del 1820 e nel 1821,
corrisponde il massimo incremento dello Zibaldone».
[111]
Introduzione di U. Dotti in G. Leopardi, Canti,
a cura di U. Dotti, p. 26.
[112] Lettera A Pietro Giordani, Vicenza (Recanati 26
Aprile 1819), G. Leopardi, La vita e
le lettere, cit., p. 109. Contrariamente scriverà nello Zibaldone (Z 1594,2) due anni più tardi
(31 Agosto 1821): «La bellezza è naturalmente compagna della virtù», in G.
Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova
edizione tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., p. 55.
[113]
U. Dotti, op. cit., p. 80.
[114] Lettera A Saverio Broglio d’Ajano, Macerata (Recanati 13 agosto 1819), in G.
Leopardi, La vita e le lettere, cit.,
p. 126. Si veda quanto scrive Genetelli in C. Genetelli, op. cit., pp. 130-131: «Il testo della lettera a Broglio d’Ajano
nella copia di Paolina presenta addirittura alcuni passaggi in cui l’asprezza e
la radicalità degli assunti è più pronunciata di quanto sarà nella versione poi
realmente spedita: basti pensare al più vistoso, ossia al minaccioso paragrafo
sulla virtù […] abbandonato in extremis,
a capo di un ripensamento quasi postremo, a favore di un finale meno reciso, in
cui parzialmente, per una via stretta, rientra in campo l’affetto, sincero e
sofferto, per il padre».
[115]
M. Marcazzan, op. cit., p. 227.
[116] Si veda R. Damiani, Vita di Leopardi, Milano, Mondadori,
1992, p. 167: «Giacomo invitava il conte Broglio, noto per lo spirito liberale,
a non farsi ingannare da Monaldo, come capitava ad altri, che pure non convenivano
“interamente” con le sue idee. Doveva piuttosto ascoltare un giovane, che
conosceva, benché inesperto, il carattere delle persone con le quali era
convissuto sin dalla nascita».
[117] Lettera A Pietro Brighenti, a Bologna (Recanati 14 Agosto 1820), in G.
Leopardi, Opere, a cura di G. De
Robertis, Milano, Rizzoli, 1937, vol. II, p. 821.
[118] Lettera A Pietro Giordani, Vicenza (Recanati 21
Giugno 1819), in ivi, p. 115:
«Nel resto mi trovo bene del corpo, e dell’animo, ardentissimo e disperato
quanto mai fossi, in maniera che ne mangerei questa carta dov’io scrivo».
[119]
U. Dotti, op. cit., p. 77.
[120]
Ibidem.
[121] Lettera A Pietro Giordani, Piacenza (Recanati 4
settembre 1820), in G. Leopardi, La
vita e le lettere, cit., p. 171. Cfr. Introduzione di M. Fubini in G.
Leopardi, Operette morali seguite da una scelta dei “Pensieri”,
cit., p. 2: «L’apostasia di Bruto, prima di trovare la rappresentazione eroica
nella canzone del 1822, aveva cercato di esprimersi nella satira violenta e
amara di quelle “prosette”. Una sola infatti di quelle prose immaginate e
abbozzate nel settembre 1820 e poi meditate per parecchio tempo fino al 1822, è
estranea in fondo a quel proposito di vendetta e si ricongiunge piuttosto al
disegno dei dialoghi dei pesci, il Dialogo
fra due bestie […]: le altre, la novella Senofonte e Machiavelli, i dialoghi Galantuomo e Mondo e Murco,
senatore romano, filosofo greco, popolo, congiurati, restano l’espressione
di un momento di crisi dell’animo leopardiano, la reazione immediata e
irreflessa benché tenti di elevarsi a teoria, che il poeta, più giovane di
quanto crede essere, oppone agli eventi e alle persone ostili».
[122]
Lettera A Giulio Perticari, Pesaro
(Recanati 9 Aprile 1821), in G. Leopardi, La vita e le lettere, cit., p. 183.
[123] Lettera Ad A. Jacopssen, Bruges (Recanati 23
Juin 1823), in ivi, p. 249. In nota,
il curatore traduce l’intera lettera. In questo caso, p. 251: «Vi concedo che
la virtù, così come tutto quello che è grande e bello, sia soltanto
un’illusione».
[124] M.A. Rigoni, Il pensiero di Leopardi, prefazione di
E.M. Cioran, Milano, Bompiani, 1997, p. 29. 139 G. Leopardi, Bruto minore, vv. 112-116: «In peggio /
Precipitano i tempi; e mal s’affida / A putridi nepoti / L’onor d’egregie menti
e la suprema / De’ miseri vendetta», in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di M. Fubini, cit. p. 79.
[125]
Lettera A Pietro Giordani, a Piacenza
(Recanati 9 Giugno 1820), in G. Leopardi, Opere vol. II, cit., p. 818.
[126] F.A. Camilletti e M.
Piperno, L’antico e il moderno, in Leopardi, a cura di F. D’Intino [ec.],
cit., p. 265.
[127] Si fa qui riferimento al
titolo del saggio Leopardi e l’ombra di
Bruto di M. Marcazzan, op. cit.,
p. 189.
[128]
Ivi, p. 233.
[129] Cfr. Dialogo di Tristano e di un amico, in G.
Leopardi, Operette morali seguite da una scelta dei “Pensieri”,
studio introduttivo e commento di M. Fubini, cit., pp. 282-283: «Se questi
sentimenti nascano da malattia, non so: so che, malato o sano, calpesto la
vigliaccheria degli uomini, rifiuto ogni consolazione e ogni’inganno puerile,
ed ho il coraggio di sostenere la privazione di ogni speranza, mirare intrepidamente
il deserto della vita, non dissimularmi nessuna parte dell’infelicità umana, ed
accettare tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa, ma vera». 145
B. Biral, op. cit., p. 80.
[130] W. Binni, La protesta di Leopardi, cit., p. 37. 147
Ivi, p. 42.
[131] G. Leopardi, La ginestra o il fiore del deserto, vv.
123-125, in G. Leopardi, Canti,
introduzione e commento di M. Fubini, cit., p. 254: «ma dà la colpa a quella /
Che veramente è rea, che de' mortali / Madre è di parto e di voler matrigna».
[132]
S. Solmi, op. cit., p. 52.
[133] Ibidem e ivi, p. 53: «A
tale indagine dovrebbero, naturalmente, soccorrere anche le altre opere
leopardiane, in particolare le Operette
morali, i Pensieri, i Paralipomeni della Batracomiomachia, e
soprattutto i Canti: ma tenendo ben
fermo che il filone ad esse sotteso, che le spiega e le costituisce come loro
coscienza riflessa – anche se ad un certo punto viene a cessare – è pur sempre
lo Zibaldone».
[134] B. Biral, op. cit., p. 80: «Certo egli faticò
assai più ad estirpare l’ideologia cristiana che a dissipare il genuino
sentimento religioso; il quale dovette affievolirsi, soprattutto con la crisi
del 1819, che fu l’anno di logoranti, agghiaccianti noie, la noia che svuota le
cose di ogni significato, svuota anzitutto il cuore dal senso del divino».
[135]
P. Citati, op. cit., p. 82.
[136]
B. Biral, op. cit., p. 61.
[137] Lettera Di Pietro Giordani (Piacenza 5 Gennaio 1819),
in G. Leopardi, La vita e le lettere,
cit., p. 93. 155 Cfr. lettera A
Pietro Giordani, Piacenza (Recanati 18 Gennaio 1819), in ivi, p. 97: «quel nostro zio […] ha
avuto la sfacciataggine di dirmi più volte spontaneamente che sapeva di non
potere educar bene i suoi figli se non fuori di qui, e poi scrivermi una lunga
lettera per provarmi ch’io la fo da ignorante e da stolto pensando solamente
d’uscire di Recanati».
[138]
Lettera A Pietro Giordani, Vicenza
(Recanati 21 Giugno 1819) in ivi,
p. 115.
[139] B. Croce, op. cit., p. 105: «Che cosa fu la vita
del Leopardi? […] Fu, per dirla con un’immagine rozza ma efficace, una vita
strozzata». 158 B. Biral, op.
cit., p. 59.
[140]
P. Citati, op. cit., p. 84.
[141] Lettera A Monaldo Leopardi, Recanati (Recanati:
senza data, ma fine di Luglio 1819), in G. Leopardi, La vita e le lettere, cit., p. 123. Cfr. M. Ricciardi, Leopardi e il modello eroico: primi
attraversamenti critici, in Leopardi e il mondo antico, pp. 521-528,
cit., pp. 522-523: «La lettera al padre è la testimonianza più drammatica di
questo conflitto e racchiude in modo esemplare tutti questi motivi: la scoperta
nella famiglia di un’opposizione incredibile al desiderio di “gloria” del
giovane, il peso frenante degli interessi economici che impediscono
l’affrancamento e la liberazione dei figli dalla famiglia stessa, la necessità
di un’azione esemplare che sia al tempo stesso segno di indipendenza e ingresso
nella società civile; il fallimento di questa azione».
[142] G. Leopardi, Bruto minore, vv. 61-64, in G. Leopardi,
Canti, introduzione e commento di M.
Fubini, cit., p. 77. Commenta così Fubini in nota: «Non già innocenti, bensì
ignare di che sia colpa, di quel concetto di colpa che turba la coscienza degli
uomini persino nel momento in cui essi vogliono liberarsi della vita
intollerabile».
[143] F.A. Camilletti e M.
Piperno, op. cit., p. 266. Si veda
anche quanto illustrato da Luporini in C. Luporini, Decifrare Leopardi, Napoli, Macchiaroli, 1998, pp. 273-274: «La
contrapposizione è cruda, senza mediazione, nonostante che Leopardi abbia
sempre sottolineato gli elementi di continuità fra animale e uomo […]. Ciò che
li divide è la facoltà (acquisita) dell’uomo di darsi morte volontaria. In
verità, più sottilmente e nascostamente, vi è un altro punto di divisione e
contrapposizione, il senso della colpa
[144]
P. Citati, op. cit., p. 86.
[145]
Introduzione di N. Naldini in G. Leopardi, La
vita e le lettere, cit., p. XXXIX.
[146]
B. Biral, op. cit., p. 65.
[147] Z 271, 2 in G. Leopardi,
Zibaldone di pensieri. Nuova edizione
tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., pp. 178-179. Datato 11
Ottobre 1820. Cfr. A un vincitore nel
pallone, vv. 60-65, in G. Leopardi, Canti,
introduzione e commento di M. Fubini, cit., p. 71: «Nostra vita a che val? solo
a spregiarla: / Beata allor che ne’ perigli avvolta, / Se stessa obblia, nè
delle putri e lente / Ore il danno misura e il flutto ascolta; / Beata allor
che il piede / Spinto al varco leteo, più grata riede». Spiega Fubini in nota
che il vincitore «è ormai trasfigurato in un mitico eroe, simile ad un Ercole o
ad un Teseo trionfatori dell’Inferno e della morte».
[148] R. Damiani, op. cit., p. 169: «Lo psicodramma della
fuga inscenava la “mutazione totale”, che Leopardi, per sua ammissione, viveva
nel corso del 1819. La “conversione filosofica”, successiva a quella letteraria
che lo aveva trasformato da erudito in poeta, era provocata da un ulteriore
sprofondamento nelle tenebre, rese palpabili dai disturbi alla vista, e da uno
stato permanente di abbandono a se stesso, che lo portava a divenir “filosofo
di professione”».
[149] Introduzione di F.
Brioschi in G. Leopardi, Canti,
introduzione e note di F. Brioschi, Milano, Rizzoli, 1995, p. 12.
[150]
B. Croce, op. cit., pp. 106-107.
[151]
P. Citati, op. cit., p. 83.
[152] Ibidem: «Forse pensava che, da quella follia, avrebbe potuto
rinascere, per lui, una nuova vita: chissà quale, chissà dove. O pensava a sé
stesso come a un vagabondo romantico, mendicante e con l’arpa in mano come
Agostino nei Wilhelm Mesiters Lehrjahre
di Goethe. In realtà, sapeva di cercare la morte». 173 Lettera A Pietro Giordani, Milano (Recanati 20
Agosto 1819), in G. Leopardi, La vita
e le lettere, cit., p. 132. Corsivo mio.
[153]
B. Biral, op. cit., p. 63.
[154] Cfr. R. Damiani, op. cit., p. 170: «L’Infinito, cui si addice la data del
settembre 1819, è una percezione dell’abisso dello spazio e del tempo, un
naufragio “dolce” come l’istante della morte nel mare dell’essere: soddisfa
poeticamente il desiderio di un altrove e della vastità del visibile, che in un
senso relativo esprimevano le mire di evadere dalla famiglia e la lontananza
coatta dai libri».
[155]
P. Citati, op. cit., p. 93.
[156]
Ivi, p. 94.
[157] Cfr. Z 112,3, in G.
Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova
edizione tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., p. 133: «La
pazienza è la più eroica delle virtù proprio perché non ha nessuna apparenza d’eroico».
In nota, la curatrice dell’edizione riporta che «la Pazienza è vista come una virtù eroica. Il fatto, messo in rilievo
da Leopardi, che essa non possegga alcuna delle caratteristiche che connotano
l’essere umano, richiama il continuo atto di volontà che caratterizza chi
pratica questa virtù […]. L’aforisma è scritto fra il 30 aprile e il 31 maggio
1820».
[158]
R. Damiani, op. cit., p. 166.
[159]
Ibidem.
[160] Lettera A Pietro Giordani, Piacenza (Recanati 17
Decembre 1819), in G. Leopardi, La
vita e le lettere, cit., p. 137.
[161]
Introduzione di F. Brioschi in G. Leopardi, Canti,
introduzione e note di F. Brioschi, cit., p. 11.
[162]
Entrambe le citazioni sono prese da M. Marcazzan, op. cit., p. 220.
[163]
Ivi, p. 221.
[164]
B. Biral, op. cit., p. 75.
[165] Cfr. ivi, p. 74 e ibidem: «Spregiudicata e inesorabile è la condanna ai principi
etici cristiani quando siano assunti dagli individui come unica norma di vita:
in questi casi la religione ha un mostruoso potere deformante; come capita a
quella madre, quasi sicuramente Adelaide Antici, la quale considera la bellezza
corporale come una calamità e ringrazia Dio di averle donato figli brutti o
deformi: contenta di tutte le disavventure che possono avvilire e far soffrire,
se servono alla salute dell’anima».
[166]
Ibidem.
[167]
Z II, 201, 1, in G. Leopardi, Zibaldone
scelto, in G. Leopardi, Opere vol.
III, cit., pp. 287-288.
[168] Lettera A Luigi De Sinner, Parigi (Firenze 24 Maggio
1832), in G. Leopardi, La vita e le
lettere, cit., pp. 514-515. Cfr. C. Luporini, op. cit., p. 252: «D’altra parte è cruciale che, all’unisono con De
Sinner, il discorso di Leopardi sia come appeso a una questione di fondo,
quella religiosa, e che così nettamente egli respinga l’attribuzione ai suoi
scritti di “una tendenza religiosa”. […] Tali dunque sono le premesse di
carattere personale e insieme di pensiero, prive, ripeto, di riferimenti
propriamente letterari. Proprio per questo sorprende che, come risposta al
recensore tedesco e soprattutto come chiarimento al De Sinner, Leopardi si
appoggi alla canzone Bruto minore di
dieci anni prima».
[169] B. Biral, op. cit., p. 74. Continua: «Il
pessimismo storico, che portava il Leopardi ad esaltare la vita attiva e
mondana degli antichi, lo obbligava a svalutare il cristianesimo che aveva
imposto all’uomo le virtù dell’umiltà, della rassegnazione».
[170] M. Ricciardi, op. cit., p. 526. 194 B.
Biral, op. cit., p. 79.
[171] R. Damiani, op. cit., p. 174. 196 U.
Dotti, op. cit., pp. 51-52.
[172] Cfr. ibidem: «Il momento centrale e in certo
modo conclusivo, o provvisoriamente conclusivo, della meditazione del “giovane
Leopardi” – del suo “orribile fanatismo” – è sicuramente rappresentato dalla
canzone Bruto minore, “opera di 20
giorni” messa in carta nel dicembre 1821». 198 M. Marcazzan, op. cit.,
p. 229.
[173]
P. Citati, op. cit., p. 194.
[174] F. Bianconi, N. Contessa
(I Cani Baustelle), Nabucodonosor, 42
Records, distribuito da Sony Music Entertainment Italy S.p.A., 2024.
[175] Ci si potrebbe chiedere,
alla stregua di quanto ha fatto in maniera retorica Luporini per introdurre la
sua analisi sull’omologia Leopardi-Bruto a seguito del commento alla lettera a
De Sinner: «Che rapporto sussisteva fra Leopardi (la sua morale) e il contenuto
di quel testo? Questo rapporto in che misura è intrinseco al personaggio
rappresentato nella sua canzone? Una figura storica, non può dimenticarsi, che
è stata così significativa e discussa nella cultura morale e politica dal
Rinascimento al giacobinismo. Perché e come Leopardi se ne era appropriato?
Fino al punto da attribuirgli un’importanza personale permanente per lui?», in
C. Luporini, op. cit., p. 253.
[176]
Ivi, p. 261.
[177] P. Citati, op cit., pp. 194-195: «Per Plutarco,
Bruto era l’incarnazione della virtus
romana […]. Quanto a Shakespeare, nel Giulio
Cesare fece di Bruto una specie di fratello di Amleto: ammalato di passioni
discordi, di pensieri insoliti, di fantasie, di fantasmi, e di cure che gli
toglievano “la dolce e grave rugiada del sonno”. […] Rispetto alle fonti, il
personaggio di Bruto viene trasformato, non ci sono più Plutarco, né Floro, né
Cassio Dione, né Shakespeare».
[178]
Ibidem.
[179] C. Luporini, op. cit., p. 277: «Leopardi non intende
fargli perdere la sua circostanziatezza storica, ancorché sublimata
fantasticamente, perché questa storicità è ingrediente essenziale del dramma di
Bruto, così come accadeva nel teatro tragico ad argomento storico, di cui anche
la distanziazione temporale rispetto a noi è elemento caratterizzante».
[180] B. Biral, op. cit., p. 84: «Il Leopardi, che nel
1819 aveva abbozzato il disegno di alcuni Inni
cristiani, si trova ora alleato di Bruto nel rifiuto dell’intima
ingiustizia delle vicende umane. L’immedesimazione con Bruto gli infonde
risolutezza, ed insieme all’eroe è convinto che la divinità, se pur esiste, non
è affatto giusta e provvidente».
[181]
U. Dotti, op. cit., p. 53.
[182] Entrambe le citazioni
sono prese da M. Ricciardi, op. cit.,
p. 523: «Occorre però non sviluppare questo campo di esperienza sotto il segno
di una fase autobiografica particolare da cui derivino poi i temi della
protesta e del pessimismo del Leopardi; […] ma legarli dialetticamente a
modelli di esperienza, di comportamento a cui il Leopardi tende a assimilarsi e
ai tentativi artistici, alle prove di questo periodo. Per il primo campo
occorre sottolineare il valore storico, il nesso diretto tra esperienza
individuale e assimilazione di modelli culturali, mediati essenzialmente, quasi
unicamente, attraverso la lettura nella biblioteca paterna […]. Sono qui
presenti, in modo assai originale, e motivi della tradizione classica (la gloria,
la fama) e temi romantici in particolare conosciuti e fatti propri attraverso
la lettura dell’Alfieri (che per il giovane Leopardi è esperienza fondamentale
e poetica di vita. Due temi che caratterizzano proprio un’esperienza storica se
pensiamo alla forza di mutamento sociale, di cambiamento nel sistema di valori
vissuto che ha la tensione alla gloria […] e alla carica insieme di ribellione
e di conoscenza nuova, di modo di conoscere che ha l’istanza alfieriana di
apprendere attraverso un percorso materiale […] una conoscenza e una cultura
che abbisogna assolutamente di partecipazione alla società civile e di azione,
di movimento tra gli uomini».
[183]
Z I, 234, 1 in G. Leopardi, Zibaldone
scelto, in G. Leopardi, Opere vol.
III, cit., p. 111.
[184]
Lettera A Pietro Giordani, Piacenza
(Recanati 24 aprile 1820), in G. Leopardi, La vita e le lettere, cit., p. 156. Corsivi miei.
[185]
M. Ricciardi, op. cit., p. 526.
[186]
C. Luporini, op. cit., p. 277.
[187] C. Luporini, Leopardi progressivo. Il pensiero di
Leopardi. L’officina dello Zibaldone. Naufragio senza spettatore [1980],
Roma, Editori Riuniti, 1996, p. 109: «C’è una certa baldanzosità giovanile,
direi, in quel suo atteggiamento (essa si esprime anche nel sostenere, in quei
suoi privati pensieri, di aver riscoperto per conto proprio alcune delle idee
fondamentali della filosofia moderna, che egli peraltro conosceva per lo più indirettamente
e talvolta un po’ convenzionalmente), ma anche un elemento di autenticità».
[188] G. Leopardi, Bruto minore, vv. 31-35, in G. Leopardi,
Canti, introduzione e commento di M.
Fubini, cit., p. 75. Si veda quanto riporta Fubini in nota: «Questo
atteggiamento titanico si attenuerà negli anni
[189]
Ivi, p. 199.
[190] B. Zandrino, op. cit., p. 651-652: «La rivoluzione
francese ha generato con Napoleone anche l’“eccesso”, “l’esemplare della forse
ultima perfezione del dispotismo”, e nel presente i “nuovi progressi”, le
“nuove radici” del potere assoluto “per l’egoismo naturale dell’uomo, e
conseguentemente del principe”, per il fallimento dell’accordo generale tra i
capi di Stato al Congresso di Vienna e per l’oppressione dei principi
restauranti; ora, dopo il tentativo di ribellione e la sconfitta dei moti del
’20 e del ’21 (e la prova precedente nel maceratese del ’17) che, sommate
all’esperienza negativa del ’31, si farà sentire ancora nei Paralipomeni, tutto pare perduto».
[191]
Entrambe le citazioni sono prese da U. Dotti, op. cit., p. 69.
[192]
W. Binni, La protesta di Leopardi,
cit., p. 42.
[193]
Entrambe le citazioni sono prese da C. Luporini, Leopardi progressivo, cit., p. 69.
[194]
Ivi, p. 55.
[195]
C. Luporini, Decifrare Leopardi,
cit., p. 262.
[196] W. Binni, La protesta di Leopardi, cit., pp.
41-42: «Quella ragione ora così duramente attaccata era soprattutto (come ha
ben visto il Luporini) una “ragione storica”, una particolare forma di ragione-raison, un proliferante cancro di
razionalismo insensibile e mediocre, scettico e preclusivo di entusiasmo, di
vitalità piena, di piacere e di felicità sensisticamente intesi […]. Il
Leopardi estendeva a ritroso la sua polemica contro l’epoca “moderna” in cui la
raison, artificiosa e depauperante,
aveva preso il sopravvento sulla natura».
[197] Z III, 226, 1 in G.
Leopardi, Zibaldone scelto, in G.
Leopardi, Opere vol. III, cit., p.
362. Datato 23 agosto 1821.
[198]
Z II, 297 in ivi, p. 307. Datato 19
aprile 1821.
[199]
Z I, 107 in ivi, p. 25.
[200]
G. Leopardi, Zibaldone scelto, in G.
Leopardi, Opere vol. III, cit., pp.
210-211.
[201] Z 183, 3 in G. Leopardi,
Zibaldone di pensieri. Nuova edizione
tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., p. 20. Datato 23 Luglio
1820.
[202] C. Luporini, Leopardi progressivo, cit., p. 13. 230
Ivi, p. 83.
[203] Cfr. ibidem: «Questo motivo non sparisce mai
in Leopardi (la delusione storica è
fondamentale), ma si integra e si risolve nell’ulteriore svolgimento del suo
pessimismo, quando il nemico numero uno diventa l’indifferente natura. In verità l’autentico nemico del moralista
Leopardi (cioè dal punto di vista del valore) è l’indifferenza, sia l’indifferenza dell’egoista verso la società, sia
l’indifferenza della natura verso gli uomini: quell’indifferenza che sembra
esser stata sempre lo spettro angosciante di tutti i grandi spiriti italiani,
da Dante a Machiavelli a Parini a Alfieri a Foscolo, quell’indifferenza che
costituiva per Leopardi il male più intimo dei costumi degli italiani. La
continuità fra i due momenti, quello della storia e quello della natura, è
espressa, nella poesia leopardiana, dall’immagine del fato, contro cui appunto si erge l’ideale eroico. Solo l’eroismo
vince il fato, l’“acerbo fato”, il “fato ignaro”, la sua indifferenza, la sua
ostilità».
[204]
F.A. Camilletti e M. Piperno, op. cit.,
p. 265.
[205] Entrambe le citazioni
sono prese da C. Luporini, Decifrare
Leopardi, cit., p. 263: «Per capire quanto di innovativo e di diverso
Leopardi porti nell’interpretazione di questo Bruto (e quanto di afferente all’antico, e quanto al moderno) è necessario rifarsi a una tradizione culturale che al
tempo di Leopardi era ancora, comunque, presente e viva».
[206] L. Braccesi, Leopardi, Bruto e l’«inclinatio imperii»,
in M.A. Rigoni, a cura di, Leopardi e
l’età romantica, Venezia, Marsilio, 1999, p. 159: «L’inclinatio imperii indica, da Flavio Biondo in poi, il processo di
decadenza e di caduta dell’impero di Roma. Nella lirica italiana grandiosa e
superba è la scena di inclinatio offertaci
dal Leopardi in apertura del Bruto minore
(vv. 1-15)».
[207] Z I, 481, 3, in G.
Leopardi, Zibaldone scelto, in G.
Leopardi, Opere vol. III, cit., p.
223. Datato 23 dicembre 1820.
[208] L. Braccesi, op. cit., p. 171.
[209]
Ivi, p. 160.
[210] Ibidem. Cfr. Z 3107, 1 in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova edizione tematica condotta sugli Indici
leopardiani, cit., p. 80: «Altra proprietà dell’uomo si è che laddove la
superiorità; laddove la virtù congiunta colla fortuna non produce se non un
interesse debole, cioè l’ammirazione; per lo contrario la
[211]
L. Braccesi, op. cit., p. 163.
[212] Cfr. M. Marcazzan, op. cit., pp. 261-262: «“Fintantoché mi
sono stimato sono stato più cauto; ora che mi disprezzo non trovo altro
conforto che di gittarmi alla ventura, a cercar pericoli, come cosa di niun valore”.
Parole oscure, scritte verso la fine del Luglio del 19 al fratello Carlo,
quand’era sul punto di gettarsi davvero nella grande avventura che doveva
abortire miseramente. C’è fra quelle parole e la situazione idealizzata nel Bruto un lontano nesso, un remoto
parallelismo. L’anima del Leopardi è sempre prigioniera di quel nodo di cui
aveva disperatamente cercato di sciogliersi. La prigione gli si è configurata
diversamente, ha preso forma da una espansione fantastica, il distacco non sarà
più dalle persone o dalle cose che avevano costituito la cerchia dei suoi combattuti
e turbati affetti, o da una disciplina volta a volta accettata o subita, in cui
era venuta educandosi la sua vita morale, o da un mondo di sogni a cui dava ala
e respiro, come agli interminati spazi e ai sovrumani silenzi, l’angoscia al
limite del quotidiano».
[213]
Ibidem, p. 262.
[214] Ivi, p. 290: «Ciò che nel Leopardi rimane di questa esperienza
avventurosa è appunto il senso di qualche cosa che finisce irrevocabilmente con
Bruto, la chiara consapevolezza che il momento procellosamente gravatosi di
tanti contraddittori significati segna un displuvio ideale nel corso della sua
esistenza, al modo stesso che si è posto come displuvio ideale tra due epoche
storiche. Il Vossler ha espresso come meglio non si poteva questa verità: “Egli
sta sulla soglia: all’uscita dell’epoca che il Leopardi chiama poetica e all’ingresso
della prosastica”. Tutti gli altri significati del Bruto hanno, di fronte a questa verità, alcunché di precario, di
caduco, di occasionale».
[215]
Entrambe le citazioni sono prese da C. Luporini, Decifrare Leopardi, cit., p. 277.
[216] Z 618,2, in G. Leopardi,
Zibaldone di pensieri. Nuova edizione
tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., p. 144. Datato 6 Febbraio
1821.
[217]
M. Marcazzan, op. cit., p. 264.
[218] Z 66,1, in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova edizione
tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., p. 874. Senza data.
[219] Z 82,2, in ivi, p. 876. Senza data. Leopardi non è
l’unico autore a raccontare nelle sue memorie di un giovanile tentativo di
uccidersi. Con spirito opposto, ma forse sempre a causa della noia e dell’umor malinconico, anche l’Alfieri
riporta, nella sua Vita, un episodio
durante il quale, da bambino, tentò il suicidio mangiando fasci d’erba del suo
giardino presi per cicuta: «Io avea sentito dire non so da chi, né come, né
quando, che v’era un’erba detta cicuta che avvelenava e faceva morire; io non
avea mai fatto pensiero di voler morire, e poco sapea quel che il morire si
fosse; eppure seguendo così un non so quale istinto naturale misto di un dolore
di cui m’era ignota la fonte, mi spinsi avidissimamente a mangiar di
quell’erba, figurandomi che in essa vi dovesse anco essere della cicuta», in V.
Alfieri, Vita, a cura di M.
Cerruti [1987], Milano, Rizzoli, 2018, p. 57.
[220] Entrambe le citazioni
sono prese da M. Marcazzan, op. cit.,
p. 199.
[221] Cfr. F. De Sanctis, Leopardi, a cura di C. Muscetta e A.
Perna [1960], Torino, Einaudi, 1983, p. 187: «Quello che fa dire a Bruto, non
dee solo sembrar vero in bocca a Bruto, ma dee essere il vero. Opinioni che
possono sembrare naturali esagerazioni di un suicida, sono le opinioni sue, il
vero come l’intende lui, rivelato da una suprema infelicità a Bruto, perché
l’infelicità è rivelatrice. Poteva dunque ben dire: – Nel Bruto c’è tutto il mio pensiero».
[222]
Entrambe le citazioni sono prese da C. Luporini, Decifrare Leopardi, cit. p. 277.
[223]
L. Battisti, P. Panella, Hegel, in Hegel, Numero Uno, 1994.
[224] G. Leopardi, Ultimo canto di Saffo, vv. 6-7, in G.
Leopardi, Canti, introduzione e
commento di M. Fubini, cit., p. 98: «già non arride / spettacol molle ai
disperati affetti».
[225]
A. Vigorelli, op. cit., p. 58.
[226] Cfr. A. Ferraris, Alfieri e Leopardi: i regni della poesia,
in «Italianistica: Rivista di letteratura italiana», Vol. 22, No. 1/3
(Gennaio/Dicembre 1993), pp. 21-27, p. 23: «La voce antica della natura che
parla ancora al Bruto di Alfieri, ispirandogli la sublimità del tirannicidio,
tace invece per il leopardiano Bruto minore (1821). L’epilogo della sua storia
(quella di Roma repubblicana) non ammette né interlocutori né spettatori: è
oggetto di un canto che si sa esso stesso mortale (“E l’aura il nome e la
memoria accoglia”), partecipe del disinganno scaturito dalla scoperta
dell’ordine ‘altro’ delle cose».
[227] Z 3102, in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova edizione
tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., p. 797.
[228] A. Vigorelli, op. cit., pp. 97-98: «Una conferma di
tale ipotesi metafisica, è data dal carattere instabile di tale risoluzione virtuosa, pur sempre soggetta, nel
piano fenomenico, alla forza motivante delle passioni egoistiche».
[229] F. Cacciapuoti, L’Infinito e La Ginestra. Leopardi tra
disincanto e illusione, Roma, Donzelli, 2021, p. 108: «L’Iliade costituisce infatti una delle sue
letture d’infanzia, quella da cui l’immaginazione traeva nutrimento, quando la
storia e i personaggi diventavano parte dell’infanzia stessa, figure
fantastiche e familiari nello stesso tempo, e per questo indimenticabili».
[230] Cfr. S. Cro, La morte dell’eroe nel giovane Leopardi:
classicismo e risorgimento, in «Italica», Vol. 64, No. 2, 1987, pp.
223-243, p. 224: «Neuro Bonifazi ha avanzato una tesi suggestiva, facendo uso
del metodo psicanalitico, per spiegare come alla matrice della poesia di
Leopardi ci sia un’impressione infantile che lo stesso Leopardi ha documentato
nella prima prosa dello Zibaldone e
che Bonifazi definisce come l’immagine della “camera oscura”. Diciamo dunque
[…] che in questi ultimi trent’anni la critica leopardiana ha studiato con
grande attenzione gli scritti “puerili”, e ha rintracciato in questi scritti
dei motivi, o stilemi o perfino atteggiamenti psicologici di grande importanza
per il poeta maturo». Si veda dunque, di rimando, il capitolo Un’immagine antica: la «camera oscura»,
in N. Bonifazi, Lingua mortale. Genesi
della poesia leopardiana, Ravenna, Longo Editore, 1984, pp. 97-117.
[231]
S. Cro, op. cit., p. 229.
[232] G. Leopardi, La morte di Ettore, in G. Leopardi, Poesie e prose vol. II, cit., p. 691. 11
F. Cacciapuoti, op. cit., p. 108.
[233] Z 3113-14 in G.
Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova
edizione tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., pp. 800-801.
Cfr. F. Cacciapuoti, op. cit., p. 112
(in nota): «Palese è la polemica con Melchiorre Cesarotti, che aveva intitolato
La morte di Ettore la sua versione
dell’Iliade, rivelando così l’incomprensione
della necessità del doppio eroe nel poema omerico e negando l’importanza di
Achille, difficilmente valutato dai lettori e dai critici moderni, catturati
dalla sventura e dalla virtù di Ettore». 13 Ivi, pp. 110-111: «Omero e i suoi eroi rientrano così in un
discorso ampio, quello delle due “Teoriche”, in cui si tratta soprattutto dei
generi letterari: Leopardi riflette sull’epopea e sulle cosiddette regole del poema
epico, ne esamina l’impatto sui lettori; comincia il suo discorso da Omero e
giunge fino a Tasso. Nello stesso tempo, però, le ampie digressioni sulla
compassione, scelta da Omero come tramite di amore per l’eroe virtuoso e
sventurato, ricollegano il testo letterario ed estetico delle due “Teoriche” a
quello in cui l’autore analizza le passioni umane, individuando nel loro
incessante movimento l’essenza nascosta del comportamento sociale, mentre i
campi semantici, connotati dal porsi del soggetto di fronte alla lettura delle
gesta eroiche, rinviano alla sfera più profonda e privata del vissuto interiore
del poeta».
[234] Z 3159-3160 in G.
Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova
edizione tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., p. 813. Corsivi
miei. A conclusione di questo passo si avverte la netta concezione di uno stato
di perenne infelicità tipica dell’uomo maturata negli anni da Leopardi, che
sarà una delle tematiche centrali esposte nella retorica delle Operette morali, prima fra tutte la Storia del genere umano (1824).
[235] Entrambe le citazioni
sono prese da F. D’Intino, L’amore
indicibile. Eros e morte sacrificale nei Canti di Leopardi, Venezia, Marsilio, 2021, p. 27.
[236] F. Cacciapuoti, op. cit., p. 112. A p. 119 conclude il
concetto spiegando che «a fronte di un amor patrio inesistente, nel moderno
l’unico modo per mantenere l’interesse per il poema epico è la sventura, o,
meglio ancora, la virtù sventurata. La necessità del doppio eroe è così
ribadita, in quanto Ettore suscita compassione, poiché attrae il soggetto
moderno che fa di questo sentimento un elemento centrale del proprio
autocompiacimento».
[237] Z 3111-3112 in G.
Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova
edizione tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., p. 800.
[238]
F. D’Intino, op. cit., p. 28.
[239]
F. D’Intino, op. cit., p. 27.
[240] Entrambe le citazioni
sono prese da U. Bosco, Titanismo e pietà
in Giacomo Leopardi e altri studi leopardiani, Roma, Bonacci, 1980, p. 34. A
tal proposito, nel suo studio riporta parti del brano dello Zibaldone da cui ha tratto i termini del
binomio: «Dei nostri sommi poeti, due sono stati sfortunatissimi. Dante e il
Tasso. Di ambedue abbiamo e visitiamo i sepolcri: fuori delle patrie loro
ambedue. Ma io, che ho pianto sopra quello del Tasso, non ho sentito alcun moto
di tenerezza a quello di Dante: e così credo che avvenga generalmente. E
nondimeno non mancava in me, né manca negli altri, un’altissima stima, anzi ammirazione, verso Dante; maggiore forse
(e ragionevolmente) che verso l’altro. Di più le sventure di quello furono senza dubbio reali e grandi; di questo
appena siamo certi che non fossero, almeno in gran parte, immaginarie […]. Ma
noi veggiamo in Dante un uomo d’animo
forte, d’animo bastante a reggere e
sostenere la mala fortuna; oltracciò un uomo che contrasta e combatte con essa, colla necessità, col fato. Tanto più
ammirabile certo, ma tanto meno amabile e commiserabile. Nel Tasso
veggiamo uno che è vinto dalla sua
miseria, soccombente, atterrato, che ha ceduto all’avversità, che soffre
continuamente e patisce oltre modo. Sieno ancora immaginarie e vane del
tutto le sue calamità, la infelicità sua certamente è reale. Anzi senza fallo, se ben sia meno sfortunato di Dante, egli è
molto più infelice (Recanati. 14. Marzo. 1827)», Z 4255,6 in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova edizione
tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., pp. 116-117. Corsivi
miei.
[241]
Z 3112-15, in ivi, pp. 800-801.
[242] Z 164, 1 in ivi, p. 11. Datato 11 luglio 1820. Si
veda anche Z 3117, 1 in ivi, pp.
85-86: «Come la stima, così la compassione verso il nimico, ancorché vinto e
virtuoso era impropria di quei tempi. […] Gli animi naturali non provano nella
vittoria altro piacere che quello della vendetta. La compassione, anche
generalmente parlando (cioè quella ancora che cade sulle persone non inimiche)
nasce bensì […] dall’egoismo, ed è un piacere, ma non già propria né degli
animali né degli uomini in natura, né anche, se non di rado e scarsamente,
degli animi ancora quasi incolti (quali erano i più a’ tempi eroici). Questo
piacere ha bisogno di una delicatezza e mobilità di sentimento o facoltà
sensitiva, di una raffinatezza e pieghevolezza di egoismo, per cui egli possa
come un serpente ripiegarsi fino ad applicarsi ad altri oggetti e persuadersi
che tutta la sua azione sia rivolta sopra di loro, benché realmente essa
riverberi tutta ed operi in se stesso e a fine di se stesso, cioè
nell’individuo che compatisce. Quindi è che anche nei tempi moderni e civili la
compassione non è propria se non degli animi colti e dei naturalmente delicati
e sensibili, cioè fini e vivi. Nelle campagne dove gli uomini sono pur meno
corrotti che nelle città, rara, e poco intima e viva, e di poca efficacia e
durata è la compassione (5-11. Agosto 1823)».
24 F. Cacciapuoti, op.
cit., pp. 115-116.
[243] Cfr. F. Cacciapuoti, op. cit., p. 116: «Il piacere delle
lacrime, quello che Leopardi conosce sulla tomba di Tasso, è proprio del
moderno, ed è legato al grado di raffinatezza della sensibilità, direttamente proporzionale
al progredire della civiltà, la cui opposizione con la natura si riflette anche
sull’espressione poetica».
[244] Cfr. F. Spera, Le parabole della storia e le forme del
sublime tra Alfieri e Leopardi, in La
letteratura e la storia. Atti del IX Congresso Nazionale dell’ADI (Bologna-Rimini, 21-24 settembre 2005),
a cura di E. Menetti e C. Varotti. Prefazione di G.M. Anselmi, Bologna, Gedit,
2007, vol. 1, pp. 229-249, p. 228: in riferimento al Saul dell’Alfieri, Spera esprime parole che risultano adatte anche
per Bruto: «L’eroe tragico non può che parlare alla spada, lo strumento per
eccellenza dell’azione, che permette di attuare il progetto di lotta contro il
male e quindi la realizzazione di sé».
[245] U. Bosco, op. cit., p. 37: «Per questo il Tasso è
più “amabile”, cioè, in sostanza, più leopardianamente “poetabile” di Dante».
[246]
Cfr. Inferno XXVI, vv. 97-99: «l’ardore
/ ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto / e de li vizi umani e del valore». Al
contrario di Bruto, l’Ulisse di Dante raccoglie in sé molteplici aspetti
dell’eroe, dalla prudenza al coraggio all’intelligenza all’ardore. Ma se questi era divenuto esperto dei vizi e virtù propri dell’uomo, Bruto è, dall’altra
parte, inesperto nella sua battaglia
contro il fato, contro cui non vorrebbe cedere.
[247] G. Leopardi, Bruto minore, vv. 38-45, in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di M.
Fubini, pp. 75-76.
[248] Cfr. note di Fubini
riguardo al v. 40: «Per la costruzione grammaticale il L. cita in una nota
marginale
Dante, Purg., I, 132: “uom che di ritornar sia
poscia esperto”. Ma per l’espressione cfr. Orazio, (Carm., I, 6, 6): “Pelidae… cedere nescii”», in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di M.
Fubini, cit., p. 75. 32 Ibidem,
nota di M. Fubini.
[249] Cfr. V. Alfieri, Bruto secondo (IV, 4), v. 237, in V.
Alfieri, Tragedie, introduzione e
note di B. Maier [1989], Milano, Garzanti, 2010, p. 606.
[250]
F Spera, op. cit., p. 247.
[251] Introduzione di U. Dotti
in G. Leopardi, Canti, a cura di U.
Dotti, cit., p. 31: «Non certo per “spiriti grandi e forti” i quali, come Bruto
o i “sette a Tebe di Eschilo”, ebbero a cuore, nel tragico inganno della vita,
di fare “guerra feroce e mortale al destino” che li aveva condannati, dopo
averli dotati di un alto sentire, a esibirsi su un palcoscenico nudo e in un
teatro vuoto».
[252] Ivi, p. 108: «Morte di chi? non ha importanza. L’una morte vale
l’altra. Il suo male, i motivi del suo pianto poetico, del suo lutto, sono, nei
Canti, diversi. La prima a piangere è
l’Italia per la morte in estranee contrade […]; poi, dopo gli eroi antichi e i
grandi della patria, muoiono le eroine, Virginia, Saffo, e poi Bruto, e poi le
ninfe, e miti, la stessa santa natura, i fiori e l’erbe della primavera e delle
favole antiche, la prima donna amata e riapparsa in sogno dopo morta, le
fanciulle condannate dal male o sedotte e uccise, le donne morte e raffigurate
in bassorilievi e ritratti, e poi quelle che cantavano piene di speranza e
hanno nomi ancora arcadici come Silvia, Nerina, e anche Aspasia è morta, almeno
moralmente, e poi altri uomini, come Consalvo, o l’Uomo che finisce in un
abisso orrido e immenso, o la “gente morta” o gli “spenti” di Amore e morte o gli abitanti della campagna vesuviana, sommersi, e i
popolati seggi, i regni che cadono, le genti e i linguaggi che passano, e
persino il sole che tramonta e la luna che precipita».
[253] Entrambe le citazioni
sono prese da S. Cro, op. cit., p.
227: l’autore fa riferimento alla nota conversione del recanatese
“dall’erudizione al bello”: «L’adesione al classicismo si verifica in Leopardi
nel momento decisivo in cui lo “studio matto e disperatissimo” si trasforma da
lettera morta ed erudizione in sorgente di poesia».
[254] Z III, 133,2, in G.
Leopardi, Zibaldone scelto, in G.
Leopardi, Opere vol. III, cit., p.
337: «Cosí a scuotere la mia povera patria e secolo, io mi troverò avere
impiegato le armi dell’affetto e dell’entusiasmo e
[255] N. Bonifazi, op. cit., p. 101: «La familiarità dei
luoghi è diventata ostile dal tempo in cui, finita la fanciullezza coi suoi
giuochi e le sue illusioni, l’adolescente poeta si è ribellato chiudendosi in
se stesso, nel suo studio matto e disperatissimo».
[256] Entrambe le citazioni
sono prese da F. Cacciapuoti, op. cit.,
p. 114-115: «Una virtù immensa, esattamente, come speculare a quella di
Achille. Ettore è dotato di coraggio, di magnanimità come Achille, ma poi ha
altre qualità che lo rendono più vicino alla nostra sensibilità: “somma pietà
verso gli Dei, verso la patria, verso i parenti, somma affabilità, giovanezza,
e viril bellezza sopra ogni altra […] di più accortezza e destrezza nel
maneggio della guerra e nel governo delle battaglie, vigilanza, provvidenza,
cura degli amici, pazienza delle fatiche (Zib.
3112)”».
[257] A. Dolfi, Lo stoicismo greco-romano e la filosofia
pratica di Leopardi, pp. 397-427, in Leopardi
e il mondo antico, pp. 397-427, cit., p. 398: «Per Leopardi il giovane è
per natura portato all’estremizzazione dei sentimenti e delle passioni,
all’infelicità non sa vedere altra conclusione che la morte, ogni consolazione
gli si vieta, visto che nient’altro può sentire che “profondamente e
ostinatamente il suo male”».
[258] N. Bonifazi, op. cit., p. 101.
[259]
Entrambe le citazioni sono contenute in ivi,
p. 104.
[260] U. Foscolo, Dei sepolcri. Carme, ed. critica a cura
di G. Bianciardi e A. Cadioli [Milano, Il Muro di Tessa, 2010], Roma, Edizioni
di Storia e Letteratura, 2012, vv. 292-295, p. 18. 46 Ivi, vv. 220-221, p. 15.
[261] Ivi, vv. 97-100, p. 9 e 114-118, p. 10. In questa sezione del carme (vv. 91-150), Foscolo passa in
rassegna la funzione che le tombe hanno avuto dacché l’uomo ha iniziato a
nutrire un senso di profondo rispetto per i morti, organizzando in forme sempre
diverse i luoghi e i templi adibiti ad accogliere le salme degli avi. 48 Ivi, vv. 41-50, p. 7. Cfr. R. Rea, Bruto e la
sovversione dell’ideologia dei «Sepolcri», in «Italianistica: Rivista di
letteratura italiana», Vol. 28, No. 3, settembre/dicembre 1999, pp. 427-439, p. 428:
«Ci si vuole domandare se Leopardi costruisca intenzionalmente l’ultima strofa
del Bruto in funzione esplicitamente
antifoscoliana, oppure se le coincidenze semantiche e linguistiche con i Sepolcri siano solamente sporadici “accenti
involontari”, come aveva affermato Bigongiari, dovuti magari ad un pur comune
sostrato culturale e linguistico, e di conseguenza la polemica contro il
classicismo di Foscolo sarebbe stato un riflesso secondario delle parole di
Bruto». Dopo aver portato avanti la sua analisi, però, a fine saggio conclude
affermando che «le relazioni intertestuali fra il Bruto ed i Sepolcri
[sono] classificabili come vere e proprie “allusioni”, e [sono] quindi da
considerare diverse da quelle “reminiscenze” ed “imitazioni” che invece
“possono essere consapevoli” o che “il poeta può desiderare che sfuggano al
pubblico”». 49 G. Barberi Squarotti, op. cit., p. 230.
[262] G. Leopardi, Bruto minore, vv. 106-120, in G.
Leopardi, Canti, introduzione e
commento di M. Fubini, cit., p. 79.
[263] R. Rea, op. cit., p. 434: «Nell’ultimo verso del
Bruto ogni parola ha il suo preciso
referente nel carme foscoliano. Quello che interessa non è naturalmente la
semplice coincidenza lessicale – si tratta di vocaboli assai comuni – bensì il
fatto che ognuno degli ultima verba
pronunciati da Bruto è stato adoperato da Foscolo in un contesto semantico il
cui senso risulta perfettamente opposto a quello leopardiano».
[264] Ivi, p. 432: «Inoltre, l’ultimo verso del Bruto richiama ancora una volta, sempre a mo’ di negazione, i Sepolcri, in cui ai vv. 116-118 e vv.
184-185 si legge: «Perenne verde protendean su l’urne / per memoria perenne, e
preziosi / vasi accogliean le lacrime votive. […] Armi e sostanze t’invadeano
ed are / e patria e, tranne la memoria, tutto».
[265]
U. Foscolo, op. cit., vv. 180-185, p.
13.
[266] R. Rea, op. cit., p. 430. Rea aggiunge: «Mi
sembra lecito, infine, scorgere nelle “parole” rigettate da Bruto anche quella
“parola” rivendicata da Foscolo in Sepolcri
72-75 per Parini: “A lui ombre non pose / tra le sue mura la città, lasciva /
d’evirati cantori allettatrice / non pietra, non parola”».
[267]
G. Barberi Squarotti, op. cit., pp.
227-228.
[268]
U. Foscolo, op. cit., pp. 11-12, vv.
145-154. Corsivi miei.
[269] Cfr. R. Rea, op. cit., p. 432: «Non pare priva di
implicazioni foscoliane la parola “nepoti”, che Leopardi adopera nel ripudio
delle future generazioni. Sembrerebbe infatti rinviare ai “nepoti” di Sep. 261, che Cassandra “guidava” sulle
tombe dei padri: “E guidava i nepoti, e l’amoroso / apprendeva lamento a’
giovinetti”».
[270] G. Barberi Squarotti, op. cit., p. 228: «Gli intellettuali […]
che hanno fatto la rivoluzione si propongono come i veri eredi di Bruto:
incompreso e vinto ai suoi tempi, ma ora rinnovato come modello di azione efficace
contro la tirannia […]. La lezione di Bruto cadde nel vuoto, fra i
contemporanei che, come scrive il Leopardi, discutevano come e quando
condannare il tiranno Antonio invece di agire, e che, in ogni caso, avevano da
tempo rinunciato, per egoismo, a quei valori che il Leopardi chiama illusioni e
vanità, ma soltanto in rapporto con il giudizio razionalistico, nemico della
natura e, di conseguenza, della felicità privata e pubblica, e che avevano
retto i tempi positivi e liberi e gloriosi della repubblica romana: ma ora ha
trovato i veri, autentici eredi, che ne hanno ripreso l’azione, specchiandosi,
in più, nella sua lucidità di intellettuale in lotta contro il tiranno per i
principî di libertà e di dignità umana».
[271] Ibidem: «[…] con l’esperienza storica del dopo, cioè della nuova
sconfitta della rivolta antirannica, risoltasi nella fondazione di una nuova
tirannia e nella ripresa di forza della filosofia e della ragione contro la
natura che, all’inizio, la rivoluzione pareva aver resuscitato, almeno in
parte, di fronte all’assoluta barbarie dell’innaturalità del regime monarchico
assoluto».
[272] Entrambe le citazioni
sono prese da S. Cro, op. cit., p.
234. Cfr. anche p. 235: «Nella morte dell’eroe il ragazzo intuì come il primo
stadio di quella progressiva sublimazione poetica di esperienze autobiografiche
[273]
Ibidem, p. 229.
[274] Z 3160-62, in G.
Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova
edizione tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., p. 813. Corsivi
miei. Continua: «Chè in verità qualora leggendo i poeti (versificatori o
prosatori) o le storie noi ci sentiamo commuovere da quelle vere o finte
calamità, e ci lasciamo andare alle lagrime, crediamo forse di piangere le
miserie altrui ma più spesso e più veramente, o più intensamente piangiamo in
quel med. punto le nostre proprie, o mescoliamo il pensiero di queste al
pensiero di quelle, e questa mescolanza (ch’è vera e propria e debita arte, e
dev’esser scopo, del poeta l’occasionarla) è principal cagione di quelle nostre
lagrime. E ci accade allora (e così ne’ teatri ec.) come ad Achille piangente
sul capo di Priamo il suo vecchio padre e la breve vita a se destinata ec. ec.
sublimiss. e belliss. e naturaliss. quadro di Omero. Le sventure, quando sieno
nazionali, o in altra maniera più particolarm. appartenenti ai lettori,
interesseranno sempre più, per la maggior somiglianza e prossimità, che non è
quella dello sventurato in generale, e perché sarà tanto più facile e pronto il
passaggio dell’animo del lettore da quelle calamità alle sue proprie ec. Onde
sarà sempre importantiss. che il soggetto del poema sia nazionale, e questi
soggetti saranno sempre più preferibili agli altri, e la nazionalità conferirà
moltissimo all’interesse».
[275] S. Cro, op. cit., p. 229: «Questo classicismo
eroico fu sentito dall’adolescente poeta come un “alter-ego”, pregno di
fermenti artistici. Il momento della conversione è quello in cui Leopardi
percepisce il senso del proprio destino dando ad esso una dimensione lirica
scaturita dalle antitesi eroe-morte, illusione-delusione, donna-morte,
amore-morte, natura-inganno, storia-silenzio infinito, sogno-felicità terrena,
età dell’orodecadenza presente. Questo motivo si svolge con regolarità
graduale: dal Leopardi bambino e adolescente fino al Leopardi maturo».
[276]
Ibidem.
[277]
Ivi, p. 239.
[278]
V. Alfieri, Bruto secondo (III, 2),
vv. 322-323, in V. Alfieri, Tragedie,
cit., p. 589.
[279] G. Leopardi, Letta la vita dell’Alfieri scritta da esso,
vv. 2-5 e v. 15, in G. Leopardi, Opere
vol. II, cit., p. 215.
[280] G. Leopardi, Ad Angelo Mai, vv. 155-170, in ibidem e ivi, p. 70. Corsivi miei. Riguardo gli ultimi due versi, si può
riportare ciò che lo stesso Alfieri esprimeva con disprezzo attorno al suo
tempo nel sonetto CLXXIII Tacito orror di
solitaria selva, vv. 9-15: «Non ch’io gli uomini abborra, e che in me
stesso / Mende non vegga, e più che in altri assai; / Nè ch’io mi creda al buon
sentier più appresso: / Ma, non mi piacque il vil mio secol mai: / E dal
pesante regal giogo oppresso, / Sol nei deserti tacciono i miei guai», in V.
Alfieri, Rime, a cura di C. Cedrati,
Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2015, pp. 456-457. Nel commento, Cedrati
spiega: «Nelle terzine l’autore, che per il resto modella palesemente la sua
esperienza dell’isolamento nella natura come fuga dalla società su quella
petrarchesca […], giustifica invece la sua esigenza di solitudine radicandola
in un substrato politico-civile. Dichiarando di non essere un misantropo e, al
contrario, di trovare in se stesso molti più difetti di quanti ne possa
osservare negli altri, il poeta esprime il suo disgusto nei confronti del “vil suo secol” e afferma di riuscire ad
alleviare il peso del potere tirannico soltanto nei luoghi disabitati dagli
uomini, in sintonia con il bisogno di allontanamento dal mondo a favore di
un’esistenza a contatto con la natura già espresso nei sonetti della terza
lontananza». In nota, in riferimento ai versi sopracitati, Cedrati riporta:
«Con reminiscenza e, al contempo, sensibile scarto rispetto a RVF CCCXXXI, v. 25: “Mai questa mortal
vita a me non piacque”»; inoltre, precisa che il «buon sentier» del v. 11 è la
«via delle virtù».
[281]
U. Foscolo, op. cit., vv. 188-197,
pp. 13-14. Corsivi miei.
[282] V. Perdichizzi, Testi e avantesti alfieriani, Pisa-Roma,
Fabrizio Serra editore, 2018, p. 89: «Tale condizione è imputabile al
“tristissimo secolo di ragione e di lume”, il “secolo della mediocrità”, che
non lascia spazio all’immaginazione, vale a dire il Settecento illuminista,
alla cui scuola il poeta si era formato, confrontandosi però con il momento
declinante, quando la fiducia nelle conquiste della ragione si era volta in
amara illusione. I presupposti illuministici, che nel Leopardi sono frutto di
un’educazione non più al passo coi tempi, furono invece assunti nella fase
matura della loro elaborazione da Alfieri, che, senza accoglierli
integralmente, vi aderì associandoli alle nuove istanze, scaturite dalla crisi
della ragione».
[283] Z 2363 in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova edizione
tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., p. 738 (datato 27 gennaio
1822). Cfr. V. Perdichizzi, op. cit.,
p. 89: «Nello Zibaldone Leopardi
menziona i due predecessori – oltre che, con qualche riserva, Parini – per
argomentare che “dovunque non regna il malinconico nella letteratura moderna,
la sola debolezza n’è causa”».
[284] Cfr. introduzione di B.
Maier in V. Alfieri, Tragedie, cit.,
p. XVIII: «Nazionalismo vuol dire, per il nostro autore, consapevolezza della
necessità di una patria, e, in particolare, fiducia nell’avvenire dell’Italia
[…], e nel “popolo italiano futuro”, cui egli dedicò l’ultima delle sue
tragedie, il Bruto secondo (e si noti
che il pessimismo alfieriano si attenua e si placa quando il nostro autore,
straniandosi idealmente dal suo tempo […] si rifugia tra le grandi e solenni
ombre del passato o quando si rivolge, augurosamente, al futuro». 75
Ivi, p. XX.
[285]
W. Binni, La protesta di Leopardi, p.
44.
[286] V. Alfieri, Vita, cit., pp. 254-255: «Su l’ultimo Bruto rinnovai poi il giuramento ad
Apolline più solenne ch’io non l’avessi fatto mai, e questo io son quasi certo
di non l’aver più ad infrangere». Cfr. V. Perdichizzi, op. cit., p. 15: «Alfieri intende realizzare a sua volta un teatro
capace di “stupire, e atterrir l’uditore” – quindi di suscitare la meraviglia
oltre che il terrore – e di proporre caratteri esemplari, che incoraggino l’emulazione
degli spettatori, per cui si richiede sì che siano verosimili, ma di un
“verosimile colossale”, tale da rappresentare cioè una natura umana
idealizzata, all’apice delle sue possibilità. Sono pertanto privilegiati i
“soggetti Eroici” che si presentano alla monumentalizzazione, come nel caso del
Bruto
[287]
V. Perdichizzi, op. cit., p. 89.
[288]
F. Spera, op. cit., pp. 228-229.
[289] V. Alfieri, Saul (V, 5), vv. 220-225, in V. Alfieri,
Tragedie, cit., p. 452. In questo
caso (diversamente dal Bruto minore),
si tratta di un finale tragico che ricalca gli stilemi classici del
protagonista morente.
[290]
Ivi, (IV, 7), vv. 303-304, p. 439.
[291]
Ivi, introduzione di B. Maier, p.
XLII.
[292] Ivi, introduzione di B. Maier, p. XLIV.
[293] Ivi, introduzione di B. Maier, p. XXI: «Quella libertà che risulta
quasi incompatibile con la vita e cui la realtà funge da ostacolo o da
impedimento costante, viene esaltata nel momento supremo della morte o del suicidio.
[…] Né va dimenticato che è peculiare dell’Alfieri un alto afflato etico; ed è
per questo che gli eroi alfieriani, nel loro conflitto contro i tiranni,
appaiono sempre generosi e virtuosi, illuminati da un ideale sublime di
giustizia e di rettitudine».
[294]
Entrambe le citazioni sono prese da F. Spera, op. cit., p. 237.
[295]
Ibidem.
[296] Riguardo il disdegno e
il rammarico nei confronti del suo tempo, Alfieri fa esprimere al suo
interlocutore e amico Francesco Gori Gandellini un giudizio quanto mai
dissacrante, in apertura del dialogo La
virtù sconosciuta: «Privato ed oscuro cittadino nacqui io di picciola, e
non libera cittade; e, nei più morti tempi della nostra Italia vissuto, nulla
vi ho fatto né tentato di grande; ignoto agli altri, ignoto quasi a me stesso,
per morire io nacqui, e non vissi; e nella immensissima folla dei nati-morti non
mai vissuti, già già mi ha risposto l’oblio», in V. Alfieri, Della tirannide. Del principe e delle
lettere. La virtù sconosciuta, introduzione e nota bibliografica di M.
Cerruti, note di E. Falcomer [1996], Milano, Rizzoli, 2010, p. 367.
[297]
A. Ferraris, op. cit., p. 23.
[298] V. Alfieri, Bruto secondo (V, 3), vv. 254-255, in V.
Alfieri, Tragedie, cit., p. 623.
Precisa lo stesso Alfieri in nota: «Si muove Bruto, brandendo ferocemente la
spada; il popolo tutto a furore lo segue».
[299] V. Alfieri, Bruto secondo (III, 2), vv. 308-314, in ivi, p. 588. Corsivi miei. 91 V. Alfieri, Bruto secondo (IV, I), vv. 5-6, ivi, p. 592.
[300] V. Alfieri, Bruto secondo (IV, II), vv. 154-163, ivi, p. 601.
[301] V. Alfieri, Bruto secondo (V, 3), vv. 149-155, ivi, pp. 617-618. Corsivi miei. Si noti
la ripresa, nel Bruto minore, di
alcuni termini o concetti: «e non le tinte glebe, / non gli ululati spechi /
turbò nostra sciagura» (vv. 102-104); «quando nell’alto lato / l’amaro ferro
intride» (vv. 43-44); «fermo già di morir» (v. 12) che ricalca quel «morire io
vo’» del v. 618 sopracitato, come per evidenziare quella ferrea volontà di
Bruto a togliersi la vita di propria mano.
[302] V. Alfieri, Bruto secondo (V, 3), v. 243, ivi, p. 622. 95 Introduzione
di B. Maier, in ivi, p. XXXIII.
[303]
V. Alfieri, Filippo (III, V), vv.
83-94, ivi, p. 41. Corsivi miei.
[304] F. D’Intino, La caduta e il ritorno. Cinque movimenti
dell’immaginario romantico leopardiano, Macerata, Quodlibet, 2019, p. 214.
[305] Cfr. nota di B. Maier in
Saul (atto V, 5, vv. 220-225), in V.
Alfieri, Tragedie, cit., p. 452: «Nell’atto
ch’ei cade trafitto su la propria spada, soprarrivano in folla i Filistei
vittoriosi con fiaccole incendiarie, e brandi insanguinati. Mentre costoro
corrono con alte grida verso Saùl, cade il sipario».
[306] Cfr. G. Barberi
Squarotti, op. cit., p. 235: «Il
tragico esce fuori della scena, diviene un fatto assoluto, una testimonianza
incisa come verità vana non meno di quanto sia, per Bruto, della virtù, e il
compito del poeta tragico può essere soltanto quello di registrare
dichiarazioni e sentenze al di fuori di ogni comunicazione, di ogni rapporto
con il pubblico e anche con la funzione esemplare che l’eroe tragico ebbe e non
ha più dal momento in cui ha respinto da sé nome, fama, appello ai posteri».
[307] Ivi, p. 234. La versione leopardiana del fallimento del gesto
eroico di Bruto sovverte in tutto e per tutto l’autorità classica, come spiega
il critico a p. 230: «Il gesto di Bruto, che leva il pugnale contro il tiranno,
è sottilmente e indirettamente condannato lungo il romanzo manzoniano tutte le
volte che se ne ripropone l’immagine: nel borghese Lodovico che uccide il
prepotente e insultante aristocratico, in Renzo che mette la mano sul coltello
dichiarando che “infine c’è giustizia a questo mondo”. È l’immagine di un
classicismo vittorioso nella storia, attuato esattamente nei fatti e nelle
azioni, quella che desta Bruto dal sonno dei secoli e lo ripropone come esempio
e modello […]. Il Leopardi parte da un’analoga verifica del fallimento del modello
di Bruto come esempio consacrato dall’autorità della classicità e da tutta una
lunga tradizione storico-letteraria e da una cultura anche scolastica tutta
fondata sull’esemplarità di nomi e di gesta del tempo dei Greci e dei Romani.
Ma la rappresentazione leopardiana del fallimento del gesto eroico di Bruto è
molto più radicale di quella, pur così netta, del Manzoni».
[308]
F. Spera, op. cit., p. 246.
[309]
Entrambe le citazioni sono prese da G. Barberi Squarotti, op. cit., p. 233.
[310] Cfr. note al Bruto minore di M. Fubini in G.
Leopardi, Canti, introduzione e
commento di M. Fubini, cit., p. 79.
[311] Forse un’eco tematico-stilistica
per la leopardiana Sopra il ritratto di
una bella donna scolpito nel monumento sepolcrale della medesima, vv. 1-7:
«Tal fosti: or qui sotterra / polve e scheletro sei. Su l’ossa e il fango /
immobilmente collocato invano, / muto, mirando dell’etadi il volo, / sta, di
memoria solo / e di dolor custode, il simulacro / della scorsa beltá», in G.
Leopardi, Canti, introduzione e
commento di M.
[312]
V. Alfieri, La virtù sconosciuta, in
V. Alfieri, Della tirannide ec.,
cit., p. 367.
[313]
Ivi, p. 368.
[314]
Ivi, pp. 370, 372.
[315]
Ivi, p. 379-380.
[316] Cfr. A. Ferraris, L’ultimo Leopardi, Torino, Einaudi,
1987, pp. 140-141: «“Pensa coi classici; coll’intelletto e coll’anima spazia,
se il puoi, infra Greci e Romani”: il monito lanciato da Alfieri nel dialogo La virtù sconosciuta – estranea, cioè,
nella sua intima essenza, all’orizzonte etico-politico della civiltà moderna –
si traduce, nei Paralipomeni, nella
rivendicazione dell’esemplarità del comportamento morale degli antichi: “O
costanza, o valor de’ prischi tempi! / Far gran cose di nulla era vostr’arte, /
nulla far di gran cose età di scempi / apprese da quel dì che il nostro marte /
Costantin, pari ai più nefandi esempi, / donò col nostro scettro ad altra
parte. / Tal differenza insieme han del romano / vero imperio gli effetti, e del
germano.”».
[317] Ivi, p. 375. 111 Ivi,
p. 382.
[318] F. Spera, op. cit., pp. 238-239. L’intento si farà
esplicito e concreto nel 1824, con la pubblicazione del primo nucleo di Operette morali e del Discorso sopra lo stato presente del costume
degl’italiani. Cfr. V. Alfieri, La
virtù sconosciuta, in V. Alfieri, Della
tirannide ec., p. 383: «Di questo secolo servile ed ozioso,
[319]
F. Spera, op. cit., p. 248.
[320]
Ivi, pp. 232-233.
[321]
V. Alfieri, Filippo (III, V), vv.
160-161, in V. Alfieri, Tragedie,
cit., p. 45.
[322]
V. Alfieri, La virtù sconosciuta, in
V. Alfieri, Della tirannide ec.,
cit., p. 367.
[323]
Entrambe le citazioni sono prese da A. Ferraris, L’ultimo Leopardi, cit., p. 140.
[324] V. Alfieri, La virtù sconosciuta, in V. Alfieri, Della tirannide ec., cit., p. 366 e ibidem: «Comunque ciò fosse, morte ch’io
non temeva, né bramava; morte che a me dolse soltanto perché, senza neppur più
vederti negli ultimi miei momenti, io lasciava te immerso fra le tempeste di
mille umane passioni; ma pure, morte che al mio cuore e pensamento giovava,
poiché da tanti sì piccioli e nauseosi aspetti per sempre toglieami, ogni tuo
amichevole dubbio spettante a me disciolto ha per sempre».
[325] G. Leopardi, Il pensiero dominante, vv. 53-68, in G.
Leopardi, Canti, introduzione e
commento di M. Fubini, cit., pp. 201-202.
[326] Entrambe le citazioni
sono prese da A. Negri, Lenta ginestra.
Saggio sull’ontologia di Giacomo Leopardi, Milano, SugarCo, 1987, p. 195.
[327]
Ibidem.
[328]
G. Singh, op. cit., p. 77.
[329] Cfr. note di A. Campana,
in G. Leopardi, Canti, introduzione e
commento di A. Campana, cit., p. 378: «Qui la parola utile può valere – ambiguamente – sia come “profitto economico”,
sia come “utilità collettiva, sociale di ciò che si produce”, anche e
soprattutto in campo culturale. Non si può escludere nessuno dei due
significati, anche se è più probabile il secondo, viste le riflessioni svolte
da L. in favore di un’arte “inutile” ma dilettevole (cioè utile solo al
conforto dell’anima) nello Z e in
altri luoghi». 124 A. Negri, op.
cit., p. 194.
[330]
U. Bosco, op. cit., p. 72.
[331] Cfr. note di M. Fubini
in G. Leopardi, Canti, introduzione e
commento di M. Fubini, cit., p. 201. 127
Cfr. lettera A Fanny Targioni Tozzetti,
Firenze (Roma, 5 Dicembre [1831]), in G. Leopardi, La vita e le lettere, cit., p. 497: «Sapete che io abbomino la
politica, perché credo, anzi vedo che gli individui sono infelici sotto ogni
forma di governo, colpa della natura che ha fatto gli uomini all’infelicità; e
rido della felicità delle masse,
perché il mio piccolo cervello non concepisce una massa felice composta d’individui non felici».
[332] U. Bosco, op. cit., p. 23. 129 Ivi, p. 21.
[333] G. Leopardi, A se stesso, vv. 13-16, in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di M.
Fubini, cit., p. 213. Cfr. note di M. Fubini: «Il poeta accenna a quel potere
senza nome di cui la natura stessa è strumento e il cui fine, se altre volte
gli pare ignoto e incomprensibile, ora crede di poter intendere». 131
Cfr. commento introduttivo di M. Fubini, in ivi,
p. 212.
[334]
U. Bosco, op. cit., p. 15.
[335] M. Marcazzan, op. cit., pp. 193-194: «Per sempre, si
noti bene. Quante volte erano dunque rinate le vaghe illusioni, e quante volte
aveva il cuore eluso la fredda disciplina della mente? E avrebbe poi smesso davvero
il cuore stanco di palpitare, e si sarebbe davvero chiusa la fine di
quell’avventura come sull’ultima illusione una gelida pietra tombale?».
[336]
Cfr. note di A. Campana in G. Leopardi, Canti,
introduzione e commento di A. Campana, cit., p. 404: «La distinzione rispecchia
quella spinoziana fra Natura naturata
(gli enti) e Natura naturans (il
principio creatore/ordinatore)».
[337] Cfr. note di A. Campana
in ivi, p. 405: «vanità: inutile inconsistenza, ricordo certo di Qoelet 1 2 (“Vanitas vanitatum, dixit
Ecclesiastes, vanitas vanitatum et omnia vanitas”), ma qui incaricato di un sovrappiù
materialistico-meccanicistico». 136 G. Di Fonzo, op. cit., p. 27.
[338] Z 3291,1, in G.
Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova
edizione tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., pp. 80-81. Nell’introduzione,
a p. XXXV, Cacciapuoti precisa: «Il Trattato
delle passioni, qualità umane ec. si presenta […] come un’analisi dei moti
del profondo dell’animo, un vero percorso psicologico. Leopardi lemmatizza i
suoi brani proprio col nome delle passioni che vuole esaminare: passioni nere,
come l’odio, l’invidia, la vendetta, l’egoismo, o che sembrano positive, come
la compassione, la beneficenza, e forse non lo sono in quanto al fondo di
tutte, e quindi di ogni azione dell’individuo, c’è sempre l’amor proprio».
[339] A. Vigorelli, op. cit., p. 129. Cfr. C. Luporini, Leopardi progressivo, cit., p. 49:
«Tuttavia fra Leopardi e Rousseau la divergenza è sostanziale […]. Rousseau
vive ante rem e Leopardi vive post rem, e questa cosa, decisiva per la
posizione storica di ambedue, è stata la grande rivoluzione. Rousseau aveva
aperto la strada alla rivoluzione e aveva aperto la strada anche al
romanticismo. Ora, Leopardi che vive nel romanticismo, lo rifiuta e non si abbandona
alle sollecitazioni etiche e politiche che venivano da esso. E qui sta il punto
più delicato per intendere tutta la posizione di Leopardi, il suo dramma, il
suo intimo dissidio che non è tanto e soltanto un dissidio personale e
soggettivo, ma un dissidio storico».
[340] Z 108,1, in G. Leopardi,
Zibaldone di pensieri. Nuova edizione
tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., p. 8.
[341] Cfr. A. Vigorelli, op. cit., p. 129: «La spinta centrifuga
dell’amor proprio, e non l’istinto di autoconservazione, è ciò che qualifica
l’uomo e lo separa dalla animalità. Sentire la vita, e in conseguenza agire,
mossi dal conatus del piacere, è
proprio degli umani che, per tale via, si escludono dalla possibilità di
accesso ad una quieta felicità,
consistente nel passivo godimento di se stessi».
[342] Entrambe le citazioni
sono prese dall’introduzione di F. Cacciapuoti in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova edizione
tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., p. XXXVI. Alla pagina
seguente, continua: «Lo sguardo di Leopardi, che muove sempre da un’attenta e
fredda analisi di sé, evidente nelle Memorie
della mia vita e riportata nel Trattato
delle passioni con valenza generale, si volge quindi alla società,
guardando ai sentimenti che sottostanno all’agire umano».
[343]
G. Singh, op. cit., p. 74.
[344] Entrambe le citazioni
sono prese da M. Moneta, L’officina delle
aporie. Leopardi e la riflessione sul male negli anni dello Zibaldone,
Milano, Franco Angeli, 2006, p. 15: «All’uomo soltanto, dunque, è imputabile la
condizione di infelicità in cui versa. Dio e la natura, al contrario, restano
pienamente giustificate, e la loro giustificazione – assimilabile a una
teodicea o a una fisidicea – avviene sulla base di un modello
provvidenzialistico, a carattere latamente leibniziano».
[345] Z 72, 3, in G. Leopardi,
Zibaldone di pensieri. Nuova edizione
tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., p. 7.
[346]
M. Moneta, op. cit., p. 15.
[347]
Ibidem.
[348] M. Marcazzan, op. cit., p. 214: «Ma l’altro mito,
quello da cui non lo deviò neppure la suggestione dell’Alfieri e del Foscolo
coll’invito a conciliare l’amarezza del pensiero moderno colla dolcezza
dell’antica poesia, il mito che affiora nel Bruto
[…] sarà il mito che si spremerà dall’esteriorità, dall’indifferenza,
dall’assenza della natura: non più la grazia di un fiore educato da un vivo
anche se
[349]
Ivi, p. 201.
[350]
C. Luporini, Leopardi progressivo,
cit., p. 78.
[351] Z 108,1, in G. Leopardi,
Zibaldone di pensieri. Nuova edizione
tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., p. 8: «Ed ogni qualunque
operazione dell’animo nostro ha sempre la sua certa e inevitabile origine
nell’egoismo, per quanto questo sia purificato, e quella ne sembri lontana. Ma
la compassione che nasce nell’animo nostro alla vista di uno che soffre è un
miracolo della natura che in quel punto ci fa provare un sentimento affatto
indipendente dal nostro vantaggio o piacere, e tutto relativo agli altri, senza
nessuna mescolanza di noi medesimi. E perciò appunto gli uomini compassionevoli
sono sì rari, e la pietà è posta, massimamente in questi tempi, fra le qualità
le più riguardevoli e distintive dell’uomo sensibile e virtuoso. Se già la
compassione non avesse qualche fondamento nel timore di provar noi medesimi un
male simile a quello che vediamo».
[352]
C. Luporini, Leopardi progressivo,
cit., p. 25.
[353] Introduzione di F.
Cacciapuoti in G.
Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova
edizione tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., p. XXXVII.
[354]
C. Luporini, Leopardi progressivo,
cit., p. 25.
[355]
Introduzione di F. Cacciapuoti in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova edizione tematica condotta sugli Indici
leopardiani, cit., p. XXXVII: «C’è un delitto, addirittura un fratricidio,
alla base della società: quella cainità che non ha mai più trovato soluzione,
una colpa che ogni individuo si porta dentro come una condanna. E l’innocente?
Chi è innocente?».
[356] Z 669,1, in G. Leopardi,
Zibaldone di pensieri. Nuova edizione
tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., p. 39. Spiega Cacciapuoti
in nota: «L’orgoglio e l’amor proprio, passioni utili alla costruzione del sé,
possono divenire causa di disgregazione sociale: la selezione delle passioni è
volta anche alla definizione del ruolo dell’uomo nella società».
[357]
C. Luporini, Leopardi progressivo,
cit., p. 96.
[358] G. Leopardi, La ginestra, vv. 147-157, in G.
Leopardi, Canti, introduzione e
commento di M. Fubini, pp. 254-255.
[359]
Cfr. note di A. Campana in G. Leopardi, Canti,
introduzione e commento di A. Campana, cit., p. 495.
[360]
C. Luporini, Leopardi progressivo,
cit., p. 96.
[361] Nota al testo di F.
Cacciapuoti, in G. Leopardi, Zibaldone
di pensieri. Nuova edizione tematica condotta sugli Indici leopardiani,
cit., p. 39.
[362] W. Binni, La protesta di Leopardi, p. 53: «Proprio
da quel bisogno, configurato (entro la ripresa del sensismo settecentesco) come
“amor proprio”, “amor di sé”, senza cui non esiste vita e vitalità, deriva
infatti la sua biforcazione in eroismo (l’accettazione alta dell’amor proprio)
e in egoismo (l’accezione dell’amor proprio corrotto dalla gretta ragione
ingenerosa e calcolatrice). L’eroismo è la forma in cui l’amor proprio si
traduce nell’uomo intero, generoso, poetico, entusiastico, attivo, vicino alla
natura come fu soprattutto nelle epoche della classicità greca e latina.
L’egoismo è invece il vizio, la sigla abbietta dell’uomo contemporaneo, che,
con la sua gretta e calcolatrice ragione, riduce la sorgente energica e
generosa dell’amor proprio dal tornaconto individuale, al conformismo
interessato e impoetico. Sicché sulla via della natura e delle illusioni il
Leopardi mirava ad un uomo che, sulla radice energica dell’amor proprio-eroismo,
sia continuamente rivolto al bene pubblico, al bene della società e della
patria».
[363] Z 293,1, in G. Leopardi,
Zibaldone di pensieri. Nuova edizione
tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., pp. 20-21. Datato 22
ottobre 1820.
[364] Z II, 124 in G.
Leopardi, Zibaldone scelto, in G.
Leopardi, Opere vol. III, cit., pp.
264-265 (17 febbraio 1821). Corsivi miei. Cfr. C. Luporini, Leopardi progressivo, cit., p. 23: «Così
l’egoismo diventa necessariamente universale e l’egoismo universale condiziona quello individuale. L’egoismo
universale è la mancanza di qualsiasi solidarietà sociale».
[365] Ivi, p. 28. A rigore, a p. 29 il critico riporta una definizione
peculiare data da Leopardi nello Zibaldone:
«Barbarie è la corruzione della civiltà e quindi lo stadio più estremo, opposto
allo stato naturale. “Altro è primitivo, altro è barbaro. Il barbaro è già
guasto, il primitivo ancora non è maturo” (Zib.
118)».
[366]
A. Vigorelli, op. cit., p. 146. Cfr.
anche Z 3291,1 sopracitato.
[367] Ivi, p. 130: «È infatti nell’ambito del processo (non meramente
adattivo) dell’assuefazione, che si svolge la dinamica degli affetti, descritta
da Leopardi come una vera e propria fisica o fisiologia del comportamento. Come
la quantità di materia “è una grandezza costante in natura”, così l’amor
proprio, essendo materialmente infinito, come il piacere, rimane costante
nell’uomo e in ogni essere vivente: “la sua quantità, non è mai né cresciuta né
scemata di un nulla” (Z 2153-2154). La fenomenologia degli affetti, nella loro
sorprendente varietà di manifestazioni individuali e sociali, si riconduce a
questa dinamica fondamentale dell’amor proprio. Aumentata da una resistenza, “l’elasticità e la forza di
una molla” di questa passione elementare produrrà una intensificazione
dell’affetto, che si renderà più evidente, quanto più l’uomo o l’individuo si
collocano in prossimità della condizione naturale o primitiva. Viceversa,
diminuita dalla assuefazione e “depressa”, essa renderà l’individuo incapace di
azioni e sentimenti “vivi e forti” (Z 959), sia nei confronti di se stesso, che
di altri, arricchendo la fenomenologia dello “spirituale” nell’uomo, senza però
aggiungere nulla del suo conatus
materiale fondamentale e al desiderio inappagato di felicità».
[368] M. Marcazzan, op. cit., p. 258: «L’accento non è però
ancora sull’astrazione implicita nell’estremo risolversi di quest’urto in
distacco, e di quella solitudine in impassibilità, ma sull’umano ideale di una virilità […] ancor tutta intrisa e
penetrata di elementi passionali e affettivi».
[369]
Z III, 181, 2, in G. Leopardi, Zibaldone
scelto, in G. Leopardi, Opere vol.
III, cit., p. 346.
[370] Cfr. Frammento sul suicidio, in G. Leopardi, Poesie e prose vol. II, cit., p 275: «E pure il suicidio è la cosa più mostruosa
in natura ec. ec. Non è più possibile l’ingannarci o il dissimulare. La
filosofia ci ha fatto conoscer tanto che quella dimenticanza di noi stessi
ch’era facile una volta, ora è impossibile».
[371] Cfr. A. Vigorelli, op. cit., p. 107: «Leopardi non è un anti-moderno o un nichilista à la mode novecentesca,
ma il suo sguardo in profondità nella condizione metafisica dell’uomo, non
cessa di inquietare e scuotere la coscienza culturale contemporanea».
[372]
B. Croce, op. cit., p. 107.
[373] W. Binni, La protesta di Leopardi, cit., p. 67:
«Il linguaggio brunito e forzato, la sintassi risentita e inarcata, la stessa
metrica rarefatta di rime […] per far risaltare il ritmo sintattico e la sua forza
severa, scura, prepotente».
[374]
Ibidem.
[375] U. Bosco, op. cit., p. 16: «Il secondo momento del
titanismo leopardiano, che ha la sua massima espressione nella canzone su
Bruto, parte dunque da questa nuova concezione della virtù come di una “larva”.
E allora esso, originariamente alfieriano, assume una colorazione nettamente
romantica». Si badi, però, che qui non si sta dando del “romantico” a Leopardi
direttamente, ma si definisce “romantica” la connotazione di titanismo che si
differenzia da quella tipica di un Alfieri che «mosse guerra a’ tiranni». A p.
10, infatti, Bosco precisa che «essenziale caratteristica di questo [del
titanismo romantico] è la coscienza dell’ineluttabilità della sconfitta […]: al
titanismo dell’Alfieri – per protoromantico che questi sia stato – manca
infatti la coscienza di quella ineluttabilità».
[376]
Ibidem.
[377]
Ivi, p. 10.
[378]
G. Di Fonzo, op. cit., p. 24.
[379] G. Leopardi, Bruto minore, vv. 19-30, in G. Leopardi,
Canti, introduzione e commento di M.
Fubini, cit., pp. 74-75.
[380] G. Leopardi, Bruto minore, vv. 46-51, in G. Leopardi,
Canti, introduzione e commento di M.
Fubini, p. 76. Cfr. note di M. Fubini: «In questa e nella stanza seguente il L.
per bocca di Bruto combatte contro quelle credenze religiose (egli pensa al
Cristianesimo) per le quali il suicidio è considerato colpa e peccato. La
polemica in questo senso contro la religione cristiana compare già esplicita in
un passo dello Zibaldone del 19 marzo
1821 (814-8), ma solo nell’ipotesi che la religione non sia “vera”, bensì essa
stessa un prodotto della misera ragione umana. E ancora poche settimane prima
della composizione del Bruto minore,
il L. […], pur polemizzando contro i filosofi che consideravano illegittimo il
suicidio, ammette tuttavia la condanna della religione (“Non v’è dunque che la
religione che possa condannare il suicidio”; 1981). Solo più tardi, sei mesi
dopo la composizione del Bruto minore,
sembra cadere ogni riserva nei confronti della religione».
[381]
L. Felici, op. cit, p. 30.
[382] G. Singh, op. cit., p. 73: «Un così alto concetto
d’uomo non è per il Leopardi un’astrazione o un ideale platonico, ma qualcosa
di concretamente realizzabile – non certo da tutti gli uomini e neanche dalla
stragrande maggioranza di essi, ma da pochi, pochissimi. Tuttavia questo
concetto serve al Leopardi come contrappeso al suo pessimismo circa la natura
dell’uomo in genere, e circa il suo posto nell’universo». 185 Ivi, p. 75. Si veda anche p. 76: «Un’altra
cosa che, secondo il Leopardi, caratterizza la maggior parte degli uomini – e
anche in questo l’uomo leopardiano si distingue – è che non amano conoscere la
verità assoluta, ma solo quella parte di essa che loro conviene. “La verità
assoluta”, commenterà il Leopardi, “e
[383] L. Battisti, P. Panella,
La bellezza riunita, in Hegel, Numero Uno, 1994. Cfr. A. Negri, op. cit., p. 92: «Agli antipodi del
restauratore Hegel, tale è Leopardi, un sovvertitore dell’essere. La chiave del
sovvertimento è il dolore, ne segue l’affermazione di un essere ribaltato, la
tensione del mito, il desiderio di realizzare una negatività inesausta».
[384]
G. Leopardi, Frammento sul suicidio,
in G. Leopardi, Poesie e prose vol. II, cit., p. 275.
[385] L. Blasucci, Profilo dell’“Ultimo canto di Saffo”, in
«Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di Lettere e Filosofia»,
Vol. 17, No. 3, 1987, pp. 827-845, p. 833.
[386]
F. De Sanctis, op. cit., p. 188.
[387] G. Di Fonzo, op. cit., p. 24. Riguardo lo stoicismo
di Bruto, la critica non ha però mantenuto sempre la stessa linea di pensiero.
Cfr. F. De Sanctis, op. cit., p. 185:
«Bruto era un filosofo stoico e poneva il supremo bene nella virtù, ma la
vittoria dei ribaldi a Filippi e la sua sconfitta, e con la sua rovina di Roma,
gli ispirano un altro aspetto del mondo, dove la virtù è vanità e tutto è
vanità. E questo nuovo aspetto esce fuori accompagnato con tutti i sentimenti
che lo fecero nascere».
[388]
M. Marcazzan, op. cit., p. 239.
[389] Ivi, p. 241: «Ma il tema del suicidio era già inquinato da fermenti
di natura non precisamente morale, anteriori ai pensieri nei quali il Leopardi
dovette sulle prime educarsi a vincere la riluttanza che in lui suscitava tale
materia, troppo intima per ragionarne pacatamente e con distacco».
[390] Anche in questo aspetto
di Bruto si può leggere un’eco biografica che lo avvicina a Leopardi: «Malgrado
il suo amore intermittente per la solitudine, Leopardi era più absent di quanto affermasse. Il suo
spirito era assuefatto da un lunghissimo tempo alla solitudine e al silenzio,
ed era “pienamente ed ostinatissimamente nullo” nella società degli uomini. Era
cacciato via, espulso, escluso. Nessuno, egli diceva, si occupava di lui: tutto
lo contraddiceva, tutto lo respingeva; bastava che egli desiderasse una cosa
perché accadesse il contrario. I parenti e i conoscenti lo disprezzavano.
Questa condizione di “disprezzato e vilipeso” distruggeva in lui ogni
sentimento, ogni slancio di entusiasmo, fantasia e compassione, ogni immagine nobile
e dolce; e faceva sì ch’egli si considerasse un nulla. Così diventava apatico, vuoto, indifferente. Il
[391] L’ispirazione letteraria
a cui Leopardi deve il componimento è da riconoscersi, secondo sua stessa testimonianza,
nella quindicesima delle Heroides di
Ovidio, l’epistola Sappho Phaoni.
Basandosi su un’interpretazione di G. Lonardi (L’ultimo canto, in «Rivista di letteratura italiana», X
(1992), 1-2), L. Felici spiega che «l’osservazione è acuta nel rilevare il
carattere di “ultimo canto” comune all’epistola ovidiana e alla canzone
leopardiana; ciò però non riduce la distanza fra i due “ultimi canti”, sia per
lo spostamento del nucleo psicologico e poetico che Leopardi opera, con lucida
consapevolezza, rispetto alla leggenda (al centro della tragedia di Saffo c’è
l’esclusione dalla bellezza, non più il delirio della passione), sia per
l’altrettanto consapevole determinazione con cui egli piega l’“antico” a
significati appunto “esistenziali”, tipici della moderna poesia sentimentale»,
in L. Felici, op. cit., p. 95.
[392]
G. Singh, op. cit., p. 81.
[393] L. Felici, op. cit., p. 99: «Con la Corinne si entra nel territorio delle
fonti “nascoste”, non dichiarate, sulle quali la critica si è a lungo
esercitata con una sovrabbondanza di ipotesi e congetture che, avvolgendo il
testo della canzone dentro una spessa coltre di “referenti” piò o meno attendibili,
rischiano di farne smarrire i significati e gli esiti formali più propri e
originali».
[394] Ibidem: «Ma più importante è notare che qui Leopardi prende spunto
dal romanzo della Staël per “storicizzare” natura ed effetto del dolore: una
“storicizzazione” che, come vedremo, verrà estesa, con argomenti analoghi e
consequenziari, al tema del suicidio».
[395]
M. Marcazzan, op. cit., p. 254.
[396] Cfr. commento di G.
Rosati in P.O. Nasone, Lettere di eroine,
introduzione, traduzione e note di G. Rosati. Testo latino a fronte [1989],
Milano, Rizzoli, 2018, p. 278: «Intorno alla personalità di Saffo fiorì nell’antichità
una ricca tradizione di leggende biografiche, fra le quali quella, su cui la
nostra epistola si fonda, dell’amore infelice per Faone, un traghettatore di
Lesbo che aveva ricevuto da Venere […] un unguento capace di fornirgli
un’eccezionale bellezza e un fascino irresistibile sulle donne. L’associazione con
Saffo (originata evidentemente dalla comune patria di Lesbo), infelicemente
innamorata di lui fino a gettarsi, per disperazione, dalla rupe di Leucade, è
documentata dalla commedia attica in poi».
[397] G. Leopardi, Ultimo canto di Saffo, vv. 67-72, in G.
Leopardi, Canti, introduzione e
commento di M. Fubini, pp. 101-102. Cfr. note di Fubini: per gelida si intende «“non in quanto uccide
per sempre; ma in quanto uccide nell’uomo la vita, le ragioni della vita, e pur
lo lascia in vita” (De Robertis)».
[398] I confronti linguistici
col Bruto minore sono molti, ma non
si ritiene di portarli in questa sede poiché l’analisi è incentrata
maggiormente su un raffronto tematico e ideologico. Per un’accurata rassegna linguistica
sugli usi dell’Ultimo canto di Saffo si
veda L. Blasucci, Profilo dell’“Ultimo
canto di Saffo”, cit., pp. 840-844: «Il confronto col Bruto risulta illuminante anche sul piano linguistico. L’Ultimo canto rientra ancora, per molti
aspetti, nel classicismo ‘ardito’ delle odi-canzoni, di cui il Bruto minore rappresentava il frutto
estremo, con la ricchezza dei suoi latinismi e arcaismi, con le sue costruzioni
latineggianti, con le sue inversioni, con le varie riprese virgiliane e
oraziane in chiave espressionistica [ecc.]».
[399]
L. Felici, op. cit., p. 30.
[400] Z 516,2 in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova edizione
tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit. pp. 27-28: «Oltre la
compassione, si può notare come indipendente affatto dall’amor proprio, un
altro moto naturale, che sebbene somiglia alla compassione, non per ciò è la
stessa cosa. Ed è quella sensibilissima pena che noi proviamo nel vedere p. e.
un fanciullo fare una cosa la quale noi sappiamo che gli farà male: un uomo che
si esponga a un manifesto pericolo; una persona vicina a cadere in qualche precipizio,
senz’avvedersene. E simili. Questo dei mali non sono ancora accaduti. Allora
proviamo ancora un’assoluta necessità d’impedirlo, se possiamo, e se no una
pena assai maggiore. Certo è che il veder uno che si fa male o sta per
soffrire, o volontariamente, o non sapendo ec. il vederlo, e non impedirlo, o
non sentirsi accorare non potendo, è contro natura. Nell’atto dei mali
parimente, vedendo qualcuno cadere ec. ancorché quel male non sia degli
orribili e stomachevoli all’apparenza, contuttociò ne proviamo naturalmente e indeliberatamente gran pena. […]
proviamo lo stesso sentimento doloroso, la stessa necessità di esclamare, d’impedirlo potendo […].
(17. Gen.1821)».
[401] Cfr. Postilla ai versi 68-70 in G. Leopardi, Poesie e prose vol. I, cit., p. 681: «Il
Tartaro è forse una palma, o un error dilettoso? Tutto l’opposto, ma ciò
appunto dà maggior forza a questo luogo, venendoci ad entrare una come ironia.
Di tanti beni non m’avanza che il Tartaro, cioè un male. Oltracciò si può spiegare
questo luogo anche esattamente, e con un senso molto naturale. Cioè, queste
tante speranze e questi errori così piacevoli si vanno a risolvere nella morte:
di tanta speranza, e di tanti amabili errori, non esce, non risulta, non si
realizza altro che la morte».
[402] Z 712, 1 in G. Leopardi,
Zibaldone di pensieri. Nuova edizione
tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., pp. 181-182. Datato 3
marzo 1821
[403] Cfr. F. Cacciapuoti, op. cit., p. 122: «Egli le affida,
infatti, il tormento che in quegli anni lo segna profondamente: l’essere, in un
certo qual modo, cacciato dalla natura».
[404] Lettera A Pietro Giordani, Vicenza (Recanati 26
Aprile 1819), G. Leopardi, La vita e
le lettere, cit., p. 109: «Io non trovo cosa desiderabile in questa vita,
se non i diletti del cuore, e la contemplazione della bellezza, la quale m’è
negata affatto in questa misera condizione. Oltre ch’i libri, particolarmente i
vostri, mi scorano insegnandomi che la bellezza appena è mai che si trovi
insieme colla virtù, non ostante che sembri compagna e sorella [ecc.]».
[405] Entrambe le citazioni
sono prese da L. Blasucci, Profilo
dell’“Ultimo canto di Saffo”, cit., p. 828. 213 L. Felici, op. cit., p. 28: «Queste due canzoni,
perciò, non sono mitologiche; piuttosto esse denunciano il divorzio definitivo
del divino dall’umano e anche dalla natura». 214 L. Blasucci, Profilo dell’“Ultimo canto di Saffo”,
cit., p. 836.
[406]
F. De Sanctis, op. cit., p. 189.
[407] A. Negri, op. cit., pp. 97-98: «L’esperimento
lirico del ’20-’21 è un esempio significativo di questo muoversi in avanti del
mondo della vita leopardiana. Con la sua complessità, le sue qualificazioni, la
sua crisi. È il movimento di uno spiazzamento globale. […] Ciò non vale solo
per la poesia: ogni aspetto della vita è costretto a questa rigidità».
[408] Cfr. P. Citati, op. cit., pp. 33-34: «Leopardi non
diventò gobbo a causa del rachitismo. La sua malattia era infinitamente più
grave e complicata: la tubercolosi ossea (o “morbo di Pott”), come per primo
suppose Giovanni Pascoli: una malattia metamorfica, mimica, che assume tutti
gli aspetti e forma un sistema saldissimo; il primo dei sistemi che distrussero la vita di Leopardi, colpendolo nelle
“apparenze”, che tanto amava. In una data che non possiamo precisare, il suo
corpo cominciò a non crescere più: la statura si fermò a 1 metro e 41
centimetri: la parte alta rimase esilissima; i femori e le gambe si
svilupparono, mentre due grosse gibbosità si formarono sia nella parte
anteriore sia in quella posteriore del corpo. Attorno a queste gobbe si
sviluppò il mostruoso sistema della tubercolosi. I nomi delle malattie si
accumulano come in un’enciclopedia degli orrori […]. Nulla, della vita di
Leopardi quei venti terribili anni –, obbedì al caso, o all’estro di qualche
piccola, indifferente malattia. Tutto era sistema. Nessun medico tentò
un’analisi o un rimedio qualsiasi. […] La cosa più grave è che Leopardi si
sentiva colpevole della propria malattia […] Verso la fine della sua vita pensò
che tutti i suoi mali fossero fantasie e fantasmi del suo fertilissimo sistema
nervoso». Per un quadro completo della descrizione fisica ed emotiva del
giovane recanatese, si veda l’intero capitolo L’infanzia e l’adolescenza, in ivi,
pp. 19-36.
[409] G. Leopardi, Annotazioni alle dieci canzoni stampate a
Bologna nel 1824, in G. Leopardi, Poesie
e prose vol. I, p. 163. Continua: «soggetto così difficile, che io non mi
so ricordare né tra gli antichi né tra i moderni nessuno scrittor famoso che
abbia ardito di trattarlo, eccetto solamente la signora di Staël, che lo tratta
in una lettera in principio della Delfina,
ma in tutt’altro modo».
[410] A.M. Ortese, Pellegrinaggio alla tomba di Leopardi.
Nell’imminenza della traslazione dei resti gloriosi, in A.M. Ortese, Da Moby Dick all’Orsa bianca. Scritti sulla
letteratura e sull’arte, a cura di M. Farnetti, Milano, Adelphi, 2011, p.
11: «Così ho pensato di andare verso la Grotta, in fondo alla quale, in un
paese di luce, dorme da cento anni il giovane favoloso».
[411] A. Ranieri, Sette anni di sodalizio con Giacomo
Leopardi. Con appendice di lettere di Antonio Ranieri al conte Monaldo Leopardi,
a cura di R. Bertazzoli, Milano, Mursia, 1995, p. 92.
[412]
F. Cacciapuoti, op. cit., p. 127.
[413] Cfr. ibidem: «Da questa esclusione si mettono
a fuoco due temi fondamentali per il Leopardi di questi anni, cioè la colpa e
il fato. La domanda di Saffo sull’eventuale colpa commessa per meritare una
tale infelicità si collega direttamente all’idea propria del mondo antico, che
abbiamo già individuato nell’analisi dei personaggi di Ettore e di Achille, per
cui l’infelice, come il vinto, è colpevole in quanto causa diretta della
propria infelicità e, di conseguenza, rifiutato dagli stessi dei, contro i
quali, comunque, egli scaglia la sua protesta».
[414]
F. De Sanctis, op. cit., p. 190.
[415] Commento introduttivo di
A. Campana, in G. Leopardi, Canti,
introduzione e commento di A. Campana, cit., pp. 195-196: «Ricordiamo poi che
l’attribuzione di bruttezza ad un sapiente è topica: si trova, solo per fare un
es., già in Platone a proposito di Socrate […]. L. aveva altresì già affermato
nello Z (1975, 23 ott. ’21) che le
disgrazie fisiche sono un forte strumento conoscitivo, perché rendono più acuti
nella comprensione delle cose: “Un uomo di forte e viva immaginazione, avvezzo
a pensare ed approfondare, in un punto di straordinario e passeggero vigore
corporale, di entusiasmo, di disperazione, di vivissimo dolore o passione
qualunque, di pianto, insomma di
quasi ubbriachezza, e furore, ec. scopre la verità che molti secoli non bastano
alla pura e fredda e geometrica ragione per scoprire”. Chi è brutto è quindi
più agevolato degli altri a comprendere che l’umanità non ha compassione né
interesse per la bruttezza, e che tende anzi a squalificare l’opera, pur bella,
di poeti e artisti brutti (Z 220-1, 21
ago. ’20); a comprendere insomma che i brutti e i deformi sono per natura
esclusi dal piacere e dal successo fra gli uomini».
[416]
F. De Sanctis, op. cit., p. 190.
[417] L. Blasucci, Profilo dell’“Ultimo canto di Saffo”,
cit., p. 830. 229 P. Citati, op.
cit., p. 20.
[418] L. Blasucci, Profilo dell’“Ultimo canto di Saffo”,
cit., p. 832: «In una siffatta visuale, l’infelice amore per un uomo si pone
come puro corollario sentimentale di una tragedia consumatasi ancor prima». 232
G. Leopardi, Ultimo canto di Saffo,
vv. 20-27, in G. Leopardi, Canti,
introduzione e commento di A. Campana, cit., pp. 199-200. Cfr. note del
critico: «Si osserva in questi versi un accento di “protesta”, che ricorda le feroci note di BM 14».
[419] F. Cacciapuoti, op. cit., p. 125: «Saffo, invece, è
fuori da ogni schema, perché non assimilabile alla tipologia del suo genere, e
quindi volta a un destino di esclusione proprio per la sua diversità, per la
mancanza di bellezza che la spinge ai margini della natura armoniosa e
perfetta».
[420] A. Negri, op. cit., pp. 105-106: «Di contro, qui è
la coscienza che si fa, senza voler essere divina, senza voler scivolare in
abissi di idealistica mistificazione – che si fa in quanto potenza finita e
critica, senza superbia e senza viltà. Il regno del senso scopre un soggetto
etico. Il dolore lo organizza e lo incarna. “Morremo”: ma la morte è ingiusta e
il dio “cieco dispensator de’ casi”. moriremo, così come soffriamo, ma
l’ingiustizia della morte e del dolore non può essere tolta alla coscienza».
[421] Z 2607, 1, in G.
Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova
edizione tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., p. 185: «Così
tosto il bambino è nato, convien che la madre che in quel punto lo mette al mondo,
lo consoli, accheti il suo pianto, e gli alleggerisca il peso di
quell’esistenza che gli dà. E l’uno dei principali uffizi de’ buoni genitori
nella fanciullezza e nella prima gioventù de’ loro figliuoli, si è quello di consolarli,
d’incoraggiarli alla vita; perciocché i dolori e i mali e le passioni riescono
in quell’età molto più gravi, che non a quelli che per lunga esperienza, o
solamente per esser più lungo tempo vissuti, sono assuefatti a patire. E in
verità conviene che il buon padre e la buona madre studiandosi di racconsolare
i loro figliuoli, emendino alla meglio, ed alleggeriscano il danno che loro
hanno fatto col procrearli. Per Dio!
perché dunque nasce l’uomo? [ecc.]. (13. Agosto. 1822)».
[422] Oltre ad essere un
richiamo all’«amaro ferro» che Bruto «intride» nel suo fianco, si vedano le
note di A. Campana in G. Leopardi, Canti,
introduzione e commento di A. Campana, cit., p. 201: «Il filo (lat. stamen) della mia vita, dal colore
oscuro (in questo caso, ferrigneo per
“color del ferro”) o – secondo un’altra plausibile esegesi – fatto di ferro,
quindi duro, disagevole, nel senso che la vita di Saffo non è morbida lana, ma
fil di ferro»
[423] L. Blasucci, Profilo dell’“Ultimo canto di Saffo”,
cit., p. 854.
[424] F. De Sanctis, op. cit., p. 189: «La disperazione di
Bruto nasce dalla piena orchestra di una vita virile, l’amore della virtù, il
desiderio della gloria, la libertà della patria, la grandezza di Roma, la fede
negli Dei, nella natura e nelle sorti umane. E quando conosce la vanità di
tutti questi amori, rimane nel vuoto. Quando ha scoperto la vanità della vita,
si toglie la vita. Ma in Leopardi di tutta questa orchestra solo una corda
vibrava, la corda femminile. E doveva sentirsi più vivo in Saffo, che in Bruto».
[425]
F. Cacciapuoti, op. cit., p. 129.
[426] A.M. Ortese, op. cit., p. 17. 242 L.
Felici, op. cit., p. 29.
[427]
Z III, 473, 1, in G. Leopardi, Zibaldone
scelto, in G. Leopardi, Opere vol.
III, cit., p. 430.
[428] F. De Sanctis, op. cit., p. 193: «Nel Bruto è una terribilità, che se conviene
a romano animo, è poco nel genio delicato del poeta, e v’è insieme una
sottigliezza di pensiero e di argomentazione che se è nel genio del poeta non è
appropriata all’Eroe. Qui, al contrario, malgrado che il colore locale abbondi
e simuli vita greca, e malgrado che la verità individuale sia perfetta, la
situazione in cui è stata immaginata Saffo, corrisponde così appuntino collo
stato d’animo del poeta e col suo genio, che hai fusione compita. E in verità
in Leopardi ci è più di Saffo che di Bruto, più del delicato e del tenero che
del terribile e del pomposo, e quando vuol bruteggiare appariscono durezze,
latinismi e oscurità». 245 U.
Bosco, op. cit., p. 31.
[429] Si veda anche Z I, 188,
3, in G. Leopardi, Zibaldone scelto,
in G. Leopardi, Opere vol. III, cit.,
pp. 7980: «L’espressione del dolore antico, per esempio nel gruppo di Niobe,
nelle descrizioni di Omero ec., doveva essere per necessità differente da
quella del dolor moderno. Quello era un dolore senza medicina, come ne ha il
nostro: non sopravvenivano le sventure degli antichi come necessariamente
dovute alla nostra natura, ed anche come un nulla in questa misera vita, ma
come impedimenti e contrasti a quella felicità che gli antichi non pareva un
sogno come a noi pare, […] come mali inevitabili e non evitati. Perciò la
vendetta del cielo, le ingiustizie degli uomini, i danni, le calamità, le
malattie, le ingiurie della fortuna, pareano mali tutti propri di quello a cui
sopravvenivano: in fatti il disgraziato, al contrario di adesso, solea per la
superstizione che si mescolava ai sentimenti e alle opinioni naturali, esser
creduto uno scellerato e in odio agli Dei, e destar più l’odio che la
compassione. Quindi il dolor loro era disperato, come suol essere in natura,
[ecc.]».
[430] A. Vigorelli, op. cit., pp. 51-52: «Come è tipico del
Leopardi “diaristico” dello Zibaldone,
l’espressione passionale del dolore antico viene “esercitata” nella intuizione
psicologica vissuta e personale. […]
Poiché il suicidio è “la cosa più contro natura che si possa immaginare”,
opponendosi direttamente al conatus fondamentale
dell’amore di sé, a indurne il
desiderio può essere solo una modificazione del sentimento d’odio e di
vendetta, che si distoglie dal suo soggetto naturale, per ritorcersi contro l’io stesso. Non lo trattengono i moniti e la
condanna morale della religione cristiana, che anzi gli appare come una concessione
fatta alla “debolezza” dei moderni».
[431] F. Cacciapuoti, op. cit., p. 128: «Un ordine che
rispecchiava la natura stessa degli dei: inesorabile, indifferente, ricca di
bene come di male, inaccessibile al dolore e alle preghiere degli uomini».
[432] E. Severino, Il nulla e la poesia. Alla fine dell’età
della tecnica: Leopardi, Milano, Rizzoli, 1990, p. 87: «Nella antica
sapienza dei Greci, la contentezza della vita “in genere” corrisponde cioè
all’“accidentalità” del dolore, ossia alla capacità del “genere” di librarsi al
di sopra del divenire e del dolore – sì che il piacere ha “un’estensione quasi illimitata”: lascia fuori di sé
soltanto il piacere accidentale di cui gli individui possono restar privi
quando sono colpiti da dolori accidentali». 250 Ivi, p. 54.
[433] Tutti e tre i passi
riportati corrispondono a Z 503,1, in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova edizione tematica condotta sugli Indici
leopardiani, cit., pp. 182-183. Datato 15 gennaio 1821. Corsivi miei.
Commenta Cacciapuoti: «L’idea del Suicidio,
implicita nelle Memorie della mia vita
e causata dal sentirsi responsabile della propria infelicità al di là di
qualunque Necessità indipendente dal
soggetto, si oppone in maniera speculare alla Consolazione che gli Antichi
traevano dalla loro resistenza al fato. Alla capacità antica di non cedere,
quindi al titanismo, si sostituisce la condizione dell’io moderno che vede se stesso
come autore del male e, contemporaneamente, come vittima. Soggetto forte e
soggetto debole in Leopardi coincidono».
[434]
E. Severino, op. cit., p. 53.
[435]
A. Vigorelli, op. cit., p. 57.
[436] C.E. Gadda, La cognizione del dolore, a cura di P.
Italia, G. Pinotti e C. Vela [2017], Milano, Adelphi, 2019, p. 146. Cfr. P.
Citati, op. cit., p. 59: «Lo Zibaldone era lì, sotto i suoi occhi,
come un’immensa e mostruosa rovina, a dimostrargli quale forza di dissoluzione
lo possedesse. Senza saperlo, Leopardi parlava di Flaubert, di Kafka, di Musil,
di Gadda e di molti scrittori del ventesimo secolo, divorati dallo spirito di
incompiutezza e dallo spirito di infinito».
[437]
U. Bosco, op. cit., p. 31.
[438] Per il significato di
«ferrata necessità» cfr. note di L. riportate nella sezione Note, prefazioni, dedicatorie dei canti
in G. Leopardi, Canti, a cura di U.
Dotti, pp. 516-520: «Ferrata cioè ferrea». Leopardi riporta numerosi
esempi, tratti dalla letteratura latina e italiana, che attestino questo tipo
di utilizzo, riflettendo anche sui casi di catacresi e metafore. Alla fine, si
congeda affermando che «da tutte le sopraddette cose conchiuderemo, a parer
mio, che la voce ferrata posta per ferreo, non tanto che si debba
riprendere, ma nella poesia specialmente, s’ha da tenere per una dell’eleganza
della nostra lingua».
[439] A. Ranieri, op. cit., p. 49: «Io ho lasciato, le
risposi, in Firenze, un immortale uomo, ma un mortale malato, a protrarre la
cui vita le mie fraterne cure sono di assoluta necessità!...».
[440] Ivi, p. 36. Cfr. P. Citati, op.
cit., pp. 26-27. In queste pagine il critico ben illustra quanto la
biblioteca paterna fosse per Leopardi quella sorta di «odiato sepolcro»:
«Monaldo voleva sottolineare che la biblioteca di palazzo Leopardi era il luogo
sacro, che corrispondeva al tempio: Giacomo […] era Gesù; e Monaldo impersonava
la parte di Dio. Monaldo non poteva tollerare che Giacomo restasse lontano da
Recanati, e da
[441] U. Bosco, op cit., p. 31: «Al di là di questo
atteggiamento non ci può essere che il dolore, quella dolente pensosità che
trova la sua espressione poetica soprattutto nei grandi Idilli».
[442]
F. Cacciapuoti, op. cit., p. 132.
[443]
U. Bosco, op. cit., p. 16.
[444] Entrambe le citazioni
sono prese da A. Negri, op. cit., p.
223. 263 W. Binni, La protesta
di Leopardi, cit., p. 56.
[445] Z III, 118, 2: «Non
solamente tutte le facoltà dell’uomo sono una facoltà di assuefarsi, ma la
stessa facoltà di assuefarsi dipende dall’assuefazione. A forza di assuefazioni
si piglia la facilità di assuefarsi, non solo dentro lo stesso genere di cose,
ma in ogni genere. Il fanciullo non ha ancora un abito di assuefazioni, e
perciò è difficile ad assuefarsi e ad imparare. Chi ha molto imparato più
facilmente impara (22 luglio 1821), in G. Leopardi, Zibaldone scelto, in G. Leopardi, Opere vol. III, cit., p. 333.
[446] Entrambe le citazioni
sono prese da C. Luporini, Leopardi
progressivo, cit., p. 59. Corsivo mio. Così continua: «Ma questa
insoddisfazione dell’elemento volontaristico, pur così diffuso ed evidente in
Leopardi (esso è in sostanza […] la base della sua morale eroica, della morale
che si oppone al fato);
l’impossibilità di concretarsi in cui esso viene obiettivamente a trovarsi, è
appunto, accanto alla delusione storica e in connessione con questa, il
fondamento di quello che è stato detto il “pessimismo storico” di Leopardi». 266
G. Leopardi. Bruto minore, vv. 31-35,
in G. Leopardi, Canti, introduzione e
commento di M. Fubini, cit. p. 75. Cfr. note di A. Campana, in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di A.
Campana, cit., p. 157: «L’uomo volgare, di animo vile (il plebeo, in senso fig., non sociale), si consola dicendo che
contro i mali non si può più nulla».
[447] M. Moneta, op. cit., pp. 132-133: «C’è anche il
gesto di Bruto, uomo morale che apprende tragicamente la vanità della virtù, di
togliersi la vita in segno di protesta contro l’immoralità del destino […].
L’oggetto polemico del canto appare dunque piuttosto esplicito, e l’estensione
dell’imputazione a nuovi imputati sembra sbiadire l’ipotesi della colpevolezza
dell’uomo».
[448] Z 112, 3 in G. Leopardi,
Zibaldone di pensieri. Nuova edizione
tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., p. 133. Scrive
Cacciapuoti in nota: «La Pazienza è
vista come una virtù eroica. Il fatto, messo in rilievo da Leopardi, che essa
non possegga alcuna delle caratteristiche che connotano l’essere eroico,
richiama il continuo atto di volontà che caratterizza chi pratica questa
virtù».
[449]
U. Bosco, op. cit., p. 16.
[450]
A. Vigorelli, op. cit., p. 103.
[451] Z 188, 2, in G.
Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova
edizione tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., p. 12: «Nessun
dolore cagionato da nessuna sventura, è paragonabile a quello che cagiona una
disgrazia grave e irrimediabile, la quale sentiamo ch’è venuta da noi, e che
potevamo schivarla, in somma al pentimento vivo e vero». Spiega Cacciapuoti in
nota: «Il Pentimento implica la
colpa: il soggetto individua se stesso quale autore del male. Su questa
consapevolezza si svolgeranno molti pensieri sia del Trattato delle passioni, qualità umane ec., sia del Manuale di filosofia pratica, i due
percorsi che racchiudono l’area morale della scrittura dello Zibaldone. Brano scritto tra il 26 e il
28 luglio 1820». 272 A.
Ferraris, L’ultimo Leopardi, cit., p.
162.
[452]
M. Moneta, op. cit., p. 128.
[453]
G. Singh, op. cit., p. 80.
[454]
L. Felici, op. cit., p. 29.
[455] C. Luporini, Leopardi progressivo, cit., p. 84: «Ma
già abbiamo visto che fin dai primi pensieri, nella giusta società, nella
democrazia e uguaglianza, soggetto delle “grandi azioni” era il popolo, e i
singoli lo erano non in quanto a lui contrapposti, ma in quanto sua espressione
[…]. L’uomo veramente uomo è quello che non si piega a nessuna schiavitù, uomo
libero e quindi “renitente al fato”. Il fato sta diventando sempre più il
“comun fato” della Ginestra, quello
che si deve combattere in comune».
[456]
Entrambe le citazioni sono prese da G. Singh, op. cit., p. 30.
[457] Ibidem e ivi, p. 31: «La
sua arte è insieme personale ed impersonale, contingente ed universale, perché
egli non sarebbe riuscito a contemplare i valori universali e le applicazioni
pratiche senza immedesimarvisi o sentirli a livello personale, proprio in forza
della sua profonda passione per la verità. […] Le riflessioni e le conclusioni
di Leopardi sul “perché delle cose”, sull’infelicità del genere umano, sulla
natura “madre di parto e di voler matrigna” e sui primi e ultimi inganni della
vita lo ossessionavano come una passione». 279 G. Leopardi, Bruto minore, vv. 101-105, in G.
Leopardi, Canti, introduzione e
commento di M. Fubini, cit., p. 79. Per contrasto, precisa Fubini in nota che
«eppure gli uomini favoleggiarono gli astri impalliditi per umani delitti o per
umane sciagure. L’immagine è simile a quella di Alla primavera, 76: “e d’ira e di pietà pallido il giorno”».
[458]
G. Singh, op. cit., p. 72.
[459] G. Leopardi, Ultimo canto di Saffo, vv. 46-58, in G.
Leopardi, Canti, introduzione e
commento di M. Fubini, cit., pp. 100-101.
[460]
A. Negri, op. cit., p. 105.
[461]
Cfr. note di M. Fubini, in G. Leopardi, Canti,
introduzione e commento di M. Fubini, cit., p. 101.
[462] Cfr. note di A. Campana,
in G. Leopardi, Canti, introduzione e
commento di A. Campana, cit., p. 55: «Non vale Satana, come in Dante; non c’è
in questo Dite alcun senso punitivo:
il suo regno accoglie anzi quasi amorevolmente l’anima disincarnata (ignudo) di Saffo. Il suicidio,
contrariamente all’etica cattolica, non è infatti visto come peccato mortale da
L.».
[463] A. Negri, op. cit., p. 105: «Ciò che in questo
Canto colpisce è lo scuotersi interno di un mondo che sembrava ormai fissato.
Esso, questo mondo della trama del senso, è assunto come tale ma percorso,
vivificato da soggetti indistruttibili. Se la trama è quella della notte, la
voce lirica e il dolore e l’amore sono termini di identificazione soggettiva
irrinunciabile».
[464] Commento introduttivo di
A. Campana, in G. Leopardi, Canti,
introduzione e commento di A. Campana, cit., p. 373.
[465] Cfr. note di A. Campana,
in G. Leopardi, Canti, introduzione e
commento di A. Campana, cit., p. 377: «Il poeta, ora che è innamorato, non è
più dunque solo bendisposto (al contrario degli uomini volgari) o solo
intrepido, fermo (com’era del resto già prima di innamorarsi) di fronte
all’eventualità del morire: egli ora attende addirittura la morte con ansia, la
ammira e la saluta con gioia, come fosse un evento gradevolmente atteso».
[466] Z 107, 1 in G. Leopardi,
Zibaldone di pensieri. Nuova edizione
tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., p. 215.
[467]
A. Ferraris, L’ultimo Leopardi, cit.,
p. 38.
[468]
Ibidem.
[469]
Entrambe le citazioni sono prese da M. Marcazzan, op. cit., p. 223.
[470] G. Leopardi, Ad Arimane, in Argomenti e abbozzi di poesie, in Poesie e prose vol. I, cit., p. 685: «Perché, dio del male, hai tu
posto nella vita qualche apparenza di piacere? l’amore…? Per travagliarci col
desiderio, col confronto degli altri, e del tempo nostro passato ec.?». La
domanda che il poeta rivolge alla divinità riprende l’invettiva dell’Islandese
contro la Natura nell’omonimo dialogo.
[471]
G. Leopardi, Ad Arimane, in Argomenti e abbozzi di poesie, in Poesie e prose vol. I, cit., p. 685.
[472] Cfr. il VI dei Pensieri, in G. Leopardi, Operette morali seguite da una scelta dei “Pensieri”, cit., p. 291: «La morte non è
male: perché libera l’uomo da tutti i mali, e insieme coi beni gli toglie i
desideri. La
[473] Cfr. note in G.
Leopardi, Poesie e prose vol. I,
cit., p. 1099: «Arimane, (Ahriman, Angra Mainyu) è nel mazdeismo o
zoroastrismo, la religione dell’Iran preislamico, lo spirito divino del Male.
L’abbozzo dell’Inno interessa anzitutto come testimonianza o conferma dell’idea
leopardiana dell’assoluta sovranità del male nell’universo: non prevedendo
l’opposizione di Arimane ad alcun Ormuzd (Ohrmazd, Ahura Mazdah), la concezione
professata da Leopardi assume infatti, a partire da un certo momento, il
carattere di un nero monismo. […] Ma l’abbozzo è altresì importante in
relazione ad alcuni luoghi dei Canti,
che ad esso riconducono: A se stesso,
vv. 14-5; Sopra un basso rilievo, v.
47; Palinodia al Marchese Gino Capponi,
vv. 154-64; La ginestra, vv. 124-5. Ad Arimane è di poco anteriore al 29
giugno 1835 (dato che vi si legge: “concedimi ch’io non passi il settimo
lustro”) e fu pubblicato per la prima volta dal Carducci, 1898, Spiriti e forme».
[474]
A. Ferraris, L’ultimo Leopardi, cit.,
p. 40.
[475]
Ivi, p. 39.
[476]
Ivi, p. 40.
[477] Cfr. A. Dolfi, op. cit., p. 408: «Scartato quel
suicidio che lo stoicismo poneva come ultima ratio dinanzi alla costruzione esterna, alla logica stessa
dell’imperturbabilità del vero e del giusto, l’urgenza (non per sé
[478] M. Marcazzan, op. cit., p. 267-268: «E certo, come
dato reale, il suicidio avrebbe potuto esser taciuto o commentato sommessamente
(si pensi all’Ultimo Canto di Saffo)
se dietro l’impassibilità dello stoico e la lucida consapevolezza
dell’illuminista non avesse trovato credito la tragedia della libertà […] la suggestione
del Saul alfieriano, e l’ombra di
quel Cecco Nerva che aveva saputo nei mali della repubblica morire
incontaminato».
[479]
L. Battisti, P. Panella, Tubinga, in Hegel, Numero Uno, 1994.
[480] E. Severino, In viaggio con Leopardi. La partita sul
destino dell’uomo, Milano, Rizzoli, 2015, p. 137. All’interno del capitolo Felice infelice: l’uomo (pp. 137-145),
Severino espone una disamina attorno alla presenza del contraddittorio in
Leopardi, quando si affida alla tesi aristotelica secondo cui la verità
rispetta il principio di non contraddizione. Eppure, «egli afferma che con
l’accadimento della ragione il “principio contraddittorio” diventa reale – riesce
a “stare in natura” – perché l’uomo è, essenzialmente, desiderio di essere e di
essere felice, e ciò nonostante l’uomo è infelice e desidera di non esser più e
si uccide. È felice e infelice». (p. 143). Secondo l’analisi di Severino,
dunque, Leopardi trova un senso compiuto pure nella contraddizione, poiché
riuscirebbe, attraverso le sue ampie riflessioni esposte nello Zibaldone, nei Pensieri, ecc. a giustificare la «realtà dell’assurdo»: infatti,
continua il critico, «se l’uomo è felice e infelice in tempi diversi, tuttavia
è nello stesso tempo che egli si
trova ad avere la possibilità reale, la reale capacità di diventare felice e
infelice» (p. 144).
[481] Z I, 249, 3, in G.
Leopardi, Zibaldone scelto, in G.
Leopardi, Opere vol. III, cit., pp.
122-123. Corsivi miei. Cfr. F.A. Piperno, M. Camilletti, op. cit., p. 260: «L’equivalenza fra antichi e fanciulli, adulti e moderni
è un principio molto antico, risalente almeno a Esopo. In Leopardi questa idea
è centrale perché su di essa si fonda l’esperienza personale del soggetto: non
solo Leopardi la vive in prima persona, ma la mette continuamente al centro
della propria riflessione filosofica ed estetica».
[482] N. Bellucci, Itinerari leopardiani, Roma, Bulzoni,
2012, p. 167: il brano «segna la presa d’atto di un evento irreversibile […];
il tempo verbale dell’enunciazione è quello della storia, il passato remoto,
che evidenzia il distacco totale rispetto a un’epoca della propria vita, a una
parte di sé legata alla sensibilità, all’immaginazione, alla fantasia».
[483]
Ibidem.
[484] Ivi, p. 168: non solo nell’immaginario poetico leopardiano Roma è,
in quel momento, un luogo centralissimo, ma anche in vista del suo tentativo di
fuga la città «da anni rappresenta l’unica meta praticabile per un
trasferimento».
[485]
S. Timpanaro, op. cit., pp. 162-163.
[486] F.A. Camilletti, M.
Piperno, op. cit., pp. 260-261: «Nell’individuo
come nella specie è possibile identificare un periodo ante mutazione e un periodo post
mutazione; una frattura drastica separa l’asse del tempo in antico e nuovo,
prima e dopo. L’esperienza della mutazione è un’esperienza di “caduta”, in cui
si riflettono modelli biblici […] e letterari».
[487] U. Dotti, op. cit., p. 54: «La virtù di Bruto non
era che un idolo, e un idolo di sangue, […] uno sconfitto che non accetta la
sconfitta – un capoparte vinto che protesta con gli dei».
[488]
B. Zandrino, op. cit., p. 638.
[489] G. Leopardi, A Silvia, in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di M.
Fubini, cit., p. 170, vv. 6063: «All’apparir del vero / tu, misera, cadesti: e
con la mano / la fredda morte ed una tomba ignuda / mostravi di lontano».
[490]
U. Dotti, op. cit., p. 47.
[491] Z III, 291, 3, in G.
Leopardi, Zibaldone scelto, in G.
Leopardi, Opere vol. III, cit., p. 380. Cfr. G. Leopardi, Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, a cura di A.
Ferraris, Torino, Einaudi, 2003, p. 239: «La credulità è, e sarà sempre, come
sempre è stata, una sorgente inesauribile di pregiudizi popolari». E, poco più
avanti, a p. 243: «Più tosto concederò che talvolta e anco spesse volte sia
vantaggio a non sapere il vero. Benché certamente l’ignoranza è vicinissima
all’errore, anzi cagione sicura e madre dell’errore». 14 Z I, 478,
1, in G. Leopardi, Zibaldone scelto,
in G. Leopardi, Opere vol. III, cit.,
p. 221: «Questa dev’essere la base di tutta la metafisica (22 dicembre 1820)».
[492] Z 375, 1, in G.
Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova
edizione tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., p. 294. Corsivi
miei.
[493] U. Dotti, op. cit., p. 55: «Il primo è capace di
guardare alle cose con tutta l’energia della verità; il secondo è colui che,
anziché spalancare gli occhi su un mondo disumano traendone le conseguenze, si
consola vilmente con ciò che non è per il solo terrore di affrontare virilmente
ciò che è».
[494]
S. Timpanaro, op. cit., pp. 170-171.
[495] «Il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, composto all’inizio
del ’15, rappresenta il risultato ultimo e, a suo modo, perfetto di quel tipo
di divulgazione illuministico-cattolica verso cui, come abbiamo visto, il
Leopardi era stato orientato inizialmente dai libri della biblioteca paterna.
Appare ancora ben salda in quest’opera la convinzione che religione cattolica e
conoscenza razionale coincidono, che gli “errori popolari” sono contrari al
dogma cristiano non meno che alla sana filosofia. Quindi i filosofi antichi a
volte sono biasimati per esser rimasti essi stessi vittime dei pregiudizi
popolari, o addirittura per essersene fatti promotori», ivi, p. 188.
[496]
G. Leopardi, Saggio sopra gli errori
popolari degli antichi, cit., p. 243.
[497] B. Biral, op. cit., p. 64: «Egli crede il suo
Sistema parallelo e non contrapposto all’insegnamento cristiano, che è vero».
Cfr. anche S. Timpanaro, op. cit., p.
196: «Gran parte dei pensieri leopardiani del 1820-22 rivelano questa
oscillazione tra il tentativo di metter d’accordo il cristianesimo col suo
“sistema” e la ripugnanza, che infine prevalse, ad accettare quel tipo di
illusioni negatrici della vita attiva, della felicità terrena, del
patriottismo, che erano le illusioni cristiane, ben diverse da quelle dei Greci
e Romani antichi». 21 U. Dotti, Riflessioni
sul comico e sull’ironia leopardiana, in Il riso leopardiano. Comico, satira, parodia, pp. 1-8, cit., p.
4.
[498] Commento introduttivo di
M. Fubini all’Elogio degli uccelli,
in G. Leopardi, Operette morali seguite da una scelta dei “Pensieri”,
cit., p. 216.
[499]
U. Dotti, Riflessioni sul comico e
sull’ironia leopardiana, cit., p. 5.
[500] G. Leopardi, Elogio degli uccelli, in G. Leopardi, Operette morali seguite da una scelta dei “Pensieri”, p. 221.
[501]
Ibidem e ivi, p. 222.
[502]
G. Marzot, Storia del riso leopardiano,
Firenze, Casa editrice G. D’Anna, 1966, p. 15.
[503]
G. Leopardi, Elogio degli uccelli, in
G. Leopardi, Operette morali seguite da una scelta dei “Pensieri”, p.
222. Corsivi miei.
[504]
Tutte le citazioni sono prese da ivi,
p. 221.
[505]
G. Marzot, op. cit., p. 17.
[506] U. Dotti, Riflessioni sul comico e sull’ironia
leopardiana, cit., p. 7. Si veda quanto scrive a p. 9: «Il riso
leopardiano, oltre che esercitare la sacrosanta funzione di smascheramento dei
vizi sociali, adempie ad una di consolazione e di autodominio: conforta delle
“indegnità della fortuna” e dà una padronanza di sé e degli altri non diversa
da quella che è posseduta da chi è preparato a morire».
[507] M.A. Rigoni, op. cit., p. 44, spiega: «L’estetizzazione
dell’antico è la conseguenza di una trasformazione estetica di tutta la
conoscenza e, insieme, il momento centrale e privilegiato di questo processo».
[508]
Ivi, p. 23.
[509] Ibidem: «Di fronte alla totalità materiale della natura e dell’uomo
antico, la ragione si pone come principio di quella “spiritualizzazione” che è
l’essenza stessa della civiltà moderna: pratica della separazione, del distacco
e dell’arbitrio metafisico. La
ragione, che ha insediato nel luogo dell’esteriorità, dell’immaginazione, della
bellezza e della poesia primitiva il dominio dell’interiorità, della verità,
della riflessione e della scienza, non solo è causa di infelicità al vivente,
ma costituisce anche, d’altra parte, l’organo più recente e più debole della
conoscenza».
[510] M. Gigante, Leopardi e l’antico, Bologna, Il Mulino,
2002, p. 123.
[511] M.A Rigoni, op. cit., p. 23. Il critico rimanda alla
polemica religiosa con Lamennais. A tal proposito, cfr. anche B. Biral, op. cit., p. 63: «Dunque per gli
entusiasmi che suscita e non già per il suo contenuto di verità egli prende la
difesa della religione; e difatti il dissenso con il Lamennais scoppia quando
il poeta, maturatosi alla scuola del dolore, colloca sullo stesso piano verità
ed errore; anzi, preferisce senz’altro l’errore se questo serve, come servì, a
render l’uomo più attivo, più appassionato. Se l’uomo tende alla felicità come
la fame tende al cibo, l’uomo ha bisogno non di conoscere, ma di sentire infinitamente».
[512]
Cfr. C. Fenoglio, Leopardi moralista [2020],
Venezia, Marsilio, 2021, p. 41: «In quel periodo Leopardi sta compulsando in
modo sistematico l’Essai sur
l’indifférence en matière de religion di Lamennais, sulla scorta del quale
comincia a far interagire storia e religione».
[513]
Cfr. B. Biral, op. cit., p. 63: «Il
Leopardi sembrerebbe destinato a cader nelle braccia del Lamennais, che nella
filosofia moderna indica la fonte di ogni egoismo. Ma con il passar dei mesi ci
accorgiamo che la sua attenzione si rivolge non alla verità ma alle azioni e alle conseguenze che questa produce nella
vita reale; e alla fine religione e illusione vengono considerate equivalenti».
[514]
S. Timpanaro, op. cit., p. 189.
[515] B. Biral, op. cit., pp. 60-61: «Lo stesso
cristianesimo è la fondamentale componente storica che ha generato la
contraddittoria situazione dell’uomo moderno travagliato dalla consapevolezza
della propria miseria. Al cristianesimo attribuirà in seguito la responsabilità
di aver potentemente ingigantito, attraverso le dispute teologiche e i
ragionamenti su enti astratti, la facoltà razionale che ha alterato lo spirito
e il volto della società umana preparando il terreno al sorgere dello stesso
ateismo».
[516] C. Fenoglio, op. cit., p. 41: «Ma nello Zibaldone quest’ultima [la religione] è
collocata sotto le insegne dell’errore benefico, della fertile illusione, e non
sotto quelle della Verità, come invece avveniva nel razionalismo cattolico di
Lamennais».
[517] S. Timpanaro, op. cit., pp. 194-195: «Tuttavia, di
fronte all’uso apologetico, filocattolico che il Lamennais della prima maniera
faceva delle osservazioni di Montesquieu, si ribellava la profonda onestà e
chiarezza del Leopardi, convinto della dolorosità del vero, ma non per questo
disposto a gabellare il falso per vero e a credere nella obiettiva verità delle
illusioni religiose».
[518] B. Biral, op. cit., p. 61.
[519] Z I, 479, 3, in G.
Leopardi, Zibaldone scelto, in G.
Leopardi, Opere vol. III, cit., p.
222. Datato 23 dicembre 1820.
[520]
S. Timpanaro, op. cit., p. 204.
[521] G. Leopardi, Zibaldone scelto, in G. Leopardi, Opere vol. III, cit., p. 243. Datato 21
gennaio 1821. 47 M.A. Rigoni, op.
cit., p. 34.
[522]
Z, 315, 1 in G. Leopardi, Zibaldone
scelto, in G. Leopardi, Opere vol.
III, cit., p. 150.
[523] Ibidem. Come si è esposto nel capitolo precedente, Leopardi trova
una giustificazione al suicidio nel momento in cui questo è compiuto in qualità
di atto eroico, come avviene, appunto, nel Bruto
minore. Ma prima di arrivare a questa giustificazione, che rendeva
senz’altro lecite così le sue molteplici tentazioni di cercare la morte, vive
dentro di sé un diverbio travagliato. Spiega Biral: «Contro la morale cristiana
si profila e s’impone un gravissimo problema che affatica l’animo del Leopardi
durante il 1821: il suicidio. Non è questo per il Leopardi un problema di
estrazione libresca […]. Gli viene dal cuore ulcerato. Ne ha più volte patito
il desiderio: “…e provava una gioia feroce ma somma nell’idea del suicidio”. Il
suicidio è una sua tentazione, non solo per sfuggire alle sofferenze reali, ma
anche per vendicarsi della fortuna ed evitare il pericolo di cadere nella
inerzia della rassegnazione: quella rassegnazione così raccomandata dagli
esempi familiari».
[524]
F.A. Camilletti e M. Piperno, op. cit.,
p. 258.
[525] F. D’Intino, L’immagine della voce. Leopardi, Platone e
il libro morale, Venezia, Marsilio, 2009, p. 93: «Fu su questo terreno che
si innestò l’influsso decisivo della Staël. Lo dice Giacomo in una pagina dello
Zibaldone: a indurlo a passare “dalla
poesia alla prosa”, dalla “bella letteratura” “alla ragione, alla filosofia,
alla matematica delle astrazioni”, fu la lettura di “alcune opere di Mad. di
Staël”».
[526]
F.A. Camilletti e M. Piperno, op. cit.,
p. 258.
[527] F. D’Intino, L’immagine della voce. Leopardi, Platone e
il libro morale, cit., p. 97: «“Gli antichi prendevano spesso il loro punto
d’appoggio in alcuni errori, spesso in
idee fittizie; ma finalmente sagrificavano
se stessi a ciò che riconoscevano per virtù; e quello che ci manca in oggi,
è una leva per rialzare l’egoismo:
tutte le forze morali di ciascun uomo si trovano concentrate nell’interesse
personale”. Non sappiamo con certezza se Leopardi abbia letto questa frase; ma
vi avrebbe trovato un’idea capace di stimolare potentemente la sua
immaginazione: l’idea di una leva che potesse “rialzare” (cioè risollevare a un
orizzonte etico comune) l’egoismo, sacrificando l’“interesse personale”. […] A
muovere gli uomini saranno anche, come dice la Staël, “idee fittizie”, ma è
grazie a esse (Leopardi le chiamerà poi “larve” nella Storia del genere umano) che gli Antichi potevano dimenticare il
proprio interesse personale e vivere moralmente il momento presente, in vista
dell’immortalità».
[528]
Z I, 315, 1 in G. Leopardi, Zibaldone
scelto, in G. Leopardi, Opere vol.
III, cit., p. 151.
[529] Entrambe le citazioni
sono prese da M.A. Rigoni, op. cit.,
p. 32. 56 S. Timpanaro, op.
cit., p. 195.
[530] Z I, 197, 1 in G.
Leopardi, Zibaldone scelto, in G.
Leopardi, Opere vol. III, cit., p.
85. Corsivi miei. Si noti la ripresa del sintagma «di quel maligno amaro e ironico sorriso» nel Bruto minore, quando il suicida «maligno alle nere ombre sorride»
(v. 45).
[531] Entrambe le citazioni
sono prese da F. D’Intino, Leopardi:
eccezione, esempio e persuasione. La funzione dei volgarizzamenti in prosa tra
1822 e 1827, in «Bollettino di italianistica», vol. 12, No. 1, 2015, pp.
3851, p. 48.
[532] Entrambe le citazioni
sono prese da ibidem. Continua: «La
vera alternativa alla “moralità pratica” non è, secondo Leopardi, la “morale
teorica”, bensì la morte, che con essa coincide».
[533]
Entrambe le citazioni sono prese da C. Luporini, Decifrare Leopardi, cit., p. 245.
[534] Ibidem. Il concetto di «zona» è espresso a p. 253: «Con questi
interrogativi la lettera a De Sinner ci fa rimbalzare indietro nel tempo
leopardiano, in zona “Bruto minore”. Che è proprio una “zona”».
[535] E. Montale, In limine, vv. 11-14, in E. Montale, Tutte le poesie, a cura di G. Zampa
[1984], Milano, Mondadori, 2001, p. 7.
[536] B. Zandrino, op. cit., p. 639.
[537] Ivi, p. 642. Zandrino spiega che Bruto, nelle fonti, è «confortato
nella morte dalla contemplazione del cielo stellato, dal ricordo degli amici
morti in battaglia, dalla constatazione di non essere stato deluso da nessuno
di loro, ma solo dalla fortuna, dalla speranza della salvezza di coloro che gli
sono intorno e dalla certezza di essere più felice dei vincitori, non solo
rispetto al passato, ma anche rispetto al presente, per il ricordo della virtù
che i nemici non possono lasciare con l’aiuto delle armi e delle ricchezze, con
la conquista ingiusta e malvagia del potere, con il sacrificio degli uomini
giusti e onesti (Bruto, 52, 4-8; 51,
1-2)».
[538]
G. Leopardi, Comparazione delle sentenze
ec., in G. Leopardi, Poesie e prose
vol. II, cit., p. 267.
[539] Ibidem. In riferimento ad altre fonti, Zandrino nota che Leopardi
capovolge «la magnanima immagine di Bruto che, nelle Storie romane di Dione Cassio (XLVII, 49, 1-2), persa ogni speranza
di recuperare ogni cosa, di potersi salvare e ritenendosi immeritevole di
cadere vivo in potere dei nemici, dopo aver ad alta voce abiurato la virtù,
ordina a uno dei suoi di ammazzarlo».
[540] Entrambe le citazioni
sono prese da G. Leopardi, Frammento sul
suicidio, in G. Leopardi, Poesie e
prose vol. II, cit., p. 276.
[541]
M.A. Rigoni, op. cit., p. 31.
[542]
Ivi, p. 32.
[543] C. Luporini, Decifrare Leopardi, cit. p. 253: il
critico rileva che confrontando la Comparazione
con i passi zibaldoniani del ’20 dedicati a Teofrasto «ci si rende subito
conto che essi ben poco hanno a che fare col personaggio Bruto, e seguivano un
percorso problematico proprio, il quale non richiedeva per nulla detta
comparazione: essi sono andati a costituire il corpo principale del testo in
questione (mentre nello Zibaldone non
c’è praticamente nulla su Bruto suicida)». 71 Ibidem.
[544]
Z I, 386, 2, in G. Leopardi, Zibaldone
scelto, in G. Leopardi, Opere vol.
III, cit., pp. 194-195.
[545] G. Leopardi, Comparazione delle sentenze ec., in G.
Leopardi, Poesie e prose vol. II,
cit., p. 266. Corsivo nel testo.
[546]
Ivi, p. 269.
[547] C. Luporini, Decifrare Leopardi, cit., p. 266: «Ci si
potrebbe domandare che cosa hanno in comune essi, nella presentazione fattane
da Leopardi, oltre il fatto di appartenere ambedue, benché in tempi storici diversi,
alla dimensione dell’antico, così acutamente percepita e scrutata da Leopardi
nel suo contrasto col moderno».
[548]
G. Leopardi, Comparazione delle sentenze
ec., in G. Leopardi, Poesie e prose
vol. II, cit., pp. 268-269.
[549]
C. Luporini, op. cit., p. 255.
[550]
B. Zandrino, op. cit., pp. 643-644.
[551] G. Leopardi, Comparazione delle sentenze ec., in G.
Leopardi, Poesie e prose vol. II,
cit., p. 270: «E questa scienza universale non fu subordinata da lui, come da
Platone, all’immaginativa, ma solamente alla ragione e all’esperienza, secondo
l’uso d’Aristotele; e indirizzata, non allo studio né alla ricerca del bello,
ma del suo maggior contrario, ch’è propriamente il vero».
[552]
S. Timpanaro, op. cit., p. 200.
[553] G. Leopardi, Comparazione delle sentenze ec., in G.
Leopardi, Poesie e prose vol. II,
cit., p. 267. Corsivo nel testo. Cfr. Z I, 386, 1, in G. Leopardi, Zibaldone scelto, in G. Leopardi, Opere vol. III, cit., p. 194:
«Teofrasto, notato dagli antichi per uomo laboriosissimo e infaticabile negli
studi, venuto a morte nell’estrema vecchiezza per l’assiduità dello scrivere,
[…] e interrogato dagli scolari se lasciasse loro nessun precetto o ricordo,
rispose: Nient’altro se non che l’uomo disprezza molti piaceri a causa della
gloria. [ecc.]». Si veda in proposito S. Timpanaro, op. cit., p. 201: «Certo, noi oggi sappiamo che le ultime parole di
Teofrasto, dato e non concesso che siano almeno in parte autentiche, non
autorizzano a fare un pessimista di un pensatore così pieno di aristotelico
equilibrio e di lieta curiosità empirica come egli fu; e non dobbiamo
dimenticare che a quell’epoca il Leopardi non aveva ancora letto i Caratteri né alcun altro degli scritti
teofrastei a noi giunti».
[554]
G. Leopardi, Comparazione delle sentenze
ec., in G. Leopardi, Poesie e prose
vol. II, cit., p. 268.
[555]
Z I, 387, 2, in G. Leopardi, Zibaldone
scelto, in G. Leopardi, Opere vol.
III, cit., p. 195.
[556] «Ma di suo fato ignara /
e degli affanni suoi, vota d’affanno / visse l’umana stirpe; alle secrete /
leggi del cielo e di natura indutto / valse l’ameno error, le fraudi, il molle
/ pristino velo; e di sperar contenta / nostra placida nave in porto ascese»:
così è descritta l’ignoranza sopra il destino umano – poiché velata dalle
illusioni e alterata da false credenze – dei «nostri progenitori» (Fubini) nell’Inno ai Patriarchi, vv. 97-103, in G.
Leopardi, Canti, introduzione e
commento di M. Fubini, cit., pp. 93-94.
[557]
C. Luporini, Decifrare Leopardi,
cit., p. 255.
[558]
G. Leopardi, Comparazione delle sentenze
ec., in G. Leopardi, Poesie e prose
vol. II, cit., p. 269.
[559]
Ivi, p. 268.
[560] Cfr. U Dotti, Lo sguardo sul mondo. Introduzione a
Leopardi, cit., p. 55: «Ma ci sono altre ed estremamente importanti
divergenze tra l’uomo antico e il moderno: la non rassegnazione del primo ai
dolori e alle miserie del mondo; la sua convinzione di una possibile felicità
dell’uomo e della sua società su questa terra; il suo abito eroico e non
avvezzo ad accogliere passivamente la “scoperta” di quanto in realtà la natura
sia ostile ai desideri umani».
[561] S. Timpanaro, op. cit., p. 198: «E tuttavia l’elemento
fantasioso, irrazionale, di questa “mezza filosofia” antica, se giovava a tener
vive le illusioni, costituiva un ostacolo obiettivo al raggiungimento della
verità. Per un verso le filosofie degli antichi avevano serbato una funzione
sociale, di stimolo alla virtù, che mancava alle aride filosofie moderne; per
un altro verso, giudicate da un punto di vista strettamente scientifico, esse
erano “le pazze filosofie degli antichi”, inferiori alle moderne proprio perché
avevano preteso di “insegnare e fabbricare”, mentre oggi la ragione umana aveva
acquistato coscienza del proprio compito esclusivamente negativo».
[562] Entrambe le citazioni
sono prese da L. Neri, La responsabilità
della prosa. Retorica e argomentazione nelle «Operette morali» di Leopardi,
Milano, LED, 2008, p. 64.
[563] Cfr. note di M. Fubini
alla Storia del genere umano, in G.
Leopardi, Operette morali seguite da una
scelta dei “Pensieri”, cit., p. 67: «In questo discorso di Giove, che
descrive con tanta pacatezza e lucidità nei suoi aspetti e nelle sue cause
l’infelicità degli uomini, dopo la scomparsa delle benefiche illusioni, il Leopardi
ha rielaborato la materia di numerosissimi passi dello Zibaldone, nonché di passi delle sue lettere».
[564]
Cfr. note di Galimberti in G. Leopardi, Operette
morali, a cura di C. Galimberti, Napoli, Guida, 1986,
p. 463: «La canz. Bruto
minore e la Comparazione presentano
uno dei tentativi più determinati di fissare nel tempo quel diaframma tra mondo
“antico” e mondo “moderno” che è centrale nella problematica del primo L.;
finché […] nella St. d. gen. um. la
vecchiezza del mondo sarà fatta coincidere col progrediente involversi del
tempo storico, e la felicità del vivere con lo spazio astorico del mito».
[565] Commento e note alla Comparazione delle sentenze ec., in G.
Leopardi, Poesie e prose vol. II,
cit., p. 1379.
[566] Entrambe le citazioni
sono prese da S. Campailla, La vocazione
di Tristano. Storia interiore delle “Operette morali”, Bologna, Pàtron,
1977, pp. 105-106.
[567] G. Leopardi, Comparazione delle sentenze ec., in G.
Leopardi, Poesie e prose vol. II,
cit., p. 268. 97 Cfr. L. Neri, op.
cit., p. 58: «La facoltà immaginativa permette l’ingresso nel sistema della
natura, inaccessibile alla pura e fredda ragione. Suo oggetto è anche la
rappresentazione del vero: che siano poi la realtà e le circostanze a rivelare
sempre più frustrante quella stessa attitudine sentimentale, quell’ansia di
ricerca della felicità che appartengono tipicamente all’uomo, risulta palese
nella scrittura delle Operette morali».
[568]
S. Campailla, op. cit., p. 106.
[569]
G. Leopardi, Comparazione delle sentenze
ec., in G. Leopardi, Poesie e Prose
vol. II, cit., p. 270.
[570]
Ivi, p. 271.
[571]
W. Binni, Lettura delle Operette morali,
cit., p. 27.
[572] G. Leopardi, Storia del genere umano, in G. Leopardi,
Operette morali seguite da una scelta dei
“Pensieri”, cit., p. 68.
[573]
Cfr. C. Luporini, Decifrare Leopardi,
cit., p. 257.
[574] M.A. Rigoni, op. cit., pp. 21-22: «La ragione non è,
in tale condizione, uno strumento di conoscenza, ma un organo materiale della
natura predisposto all’economia e al mantenimento dell’esistenza […]. La volontà
di verità è verità suicida e forma il vero contenuto della colpa originaria,
che non rappresenta quindi l’“offuscazione dell’intelletto”, come sostiene
l’esegesi teologica, ma anzi la nascita stessa dell’Aufklärung: “la degradazione dell’uomo non fu quella della ragione
né della cognizione, né l’offuscazione dell’intelletto. Anzi dopo il peccato, e
mediante il peccato l’uomo ebbe
l’intelletto rischiaratissimo” (Zib.
434)».
[575] G. Leopardi, Cantico del gallo silvestre, in G.
Leopardi, Operette morali seguite da una scelta dei “Pensieri”,
cit., p. 230.
[576] L. Neri, op. cit., p. 33.
[577]
A. Vigorelli, op. cit., p. 189.
[578]
Lettera A Melchiorre Missirini, a Roma (Recanati
15 Gennaio 1825), in G. Leopardi, Opere
vol. II, cit., pp. 861-862. Corsivi miei.
[579]
A. Vigorelli, op. cit., p. 190.
[580]
Entrambe le citazioni sono prese da S. Timpanaro, op. cit., p. 200.
[581]
Ivi, p. 201.
[582] E. Montale, Piove, in E. Montale, Satura, a cura di R. Castellana. Con un
saggio di R. Luperini e uno scritto di F. Fortini [2009], Milano, Mondadori,
2018, pp. 137-138, vv. 41-53.
[583] Lettera a Carlo Bunsen, Roma (Bologna 1° Febbraio 1826), in G.
Leopardi, La vita e le lettere, cit.,
p. 328: «Spero di poterle, di qui a non molto, mandare un esemplare del Manuale
di Epitteto che si stamperà presto in Milano, tradotto da me ultimamente con
tutto l’amore e lo studio possibile. Vi ho premesso un brevissimo preambolo
sopra la filosofia stoica, che io mi trovo avere abbracciato naturalmente, e
che mi riesce utilissima».
[584] Lettera Ad Antonio Fortunato Stella – Milano
(Bologna 4 Febbraio 1826), in G. Leopardi, Tutte le opere, con introduzione e a cura di W. Binni, con la
collaborazione di E. Ghidetti [1969], Firenze, Sansoni, 1976, pp. 1236-1237,
vol. I.
[585] Cfr. A. Dolfi, op. cit., pp. 418-419: «Scrivendo a
Giacomo, che aveva da poco compiuto l’Epitteto, Carlo Antici, informato da
amici di una nuova raccolta leopardiana, richiamava il nipote a quei moniti più
volte avanzati nelle lettere del ’25, soprattutto ripetendo la sua preoccupazione
per le liriche e il discorso intorno a Bruto […]. In particolare la sua
apprensione per la fama di Giacomo a Roma, negli ambienti ecclesiastici, gli
faceva ricordare ancora una volta quanto la figura di Bruto fosse contraria al
“divino Vangelo”, come il colpevole comportamento dell’eroe romano fosse stato
determinato dall’“essere egli allievo soltanto dell’orgogliosa Stoa”».
[586]
Entrambe le citazioni sono prese da ivi,
p. 420.
[587]
S. Timpanaro, op. cit., p. 218.
[588] G. Leopardi, Detti memorabili di Filippo Ottonieri,
in G. Leopardi, Operette morali seguite da una scelta dei “Pensieri”,
cit., pp. 190-191.
[589] Cfr. note di M. Fubini
in ibidem: «Vero è che, interpreti
più o meno rettamente le dottrine degli stoici come quelle degli epicurei,
affatto estranei al suo spirito sono i dettami della saggezza antica, e certo
ideali non potevano essere per lui né l’apatia
degli stoici né l’atarassia degli
epicurei: nello stoicismo perciò egli vide soltanto la filosofia dei deboli,
nell’epicureismo la dottrina che consiglia l’ozio e la negligenza e l’uso di
quelle voluttà del corpo, che paiono consolare della mancanza della felicità,
che sola appagherebbe l’anima».
[590]
U. Dotti, Riflessioni sul comico e
sull’ironia leopardiana, cit., p. 5.
[591] Manuale di Epitteto, introduzione e commento di P. Hadot. Testo
greco a fronte, Torino, Einaudi, 2006, p. 138.
[592]
A. Vigorelli, op. cit., p. 194.
[593] Lettera A Giampietro Vieusseux, a Firenze
(Bologna 4 Marzo 1826), in G. Leopardi, Opere
vol. II, cit., pp. 880-882.
[594] L. Cellerino, L’io del topo. Pensieri e letture
dell’ultimo Leopardi, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1997, p. 9.
[595]
Manuale di Epitteto, cit., p. 138.
[596]
G. Leopardi, Manuale di Epitteto, in
G. Leopardi, Poesie e prose vol. II,
cit., pp. 1046-1047.
[597] Lettera A Giampietro Vieusseux, a Firenze (Bologna
4 Marzo 1826), in G. Leopardi, Opere vol.
II, cit., p. 881: «La mia vita, prima per necessità di circostanze e contro
mia voglia, poi per inclinazione nata dall’abito convertito in natura e
divenuto indelebile, è stata sempre, ed è, e sarà perpetuamente solitaria, anche
in mezzo alla conversazione, nella quale, per dirlo all’inglese, io sono più absent di quel che sarebbe un cieco e
sordo. Questo vizio dell’absence è in
me incorreggibile e disperato».
[598] C. Fenoglio, op. cit., p. 23: «Ma è una solitudine
popolata di libri, che consente di studiare i costumi degli uomini, di
analizzarne le passioni, comportamenti e modelli di riferimento rimanendo
sostanzialmente estraneo alla società del proprio tempo».
[599] Lettera A Giampietro Vieusseux, a Firenze (Bologna
4 Marzo 1826), in G. Leopardi, Opere vol.
II, cit., p. 881: «Da questa assuefazione e da questo carattere nasce
naturalmente che gli uomini sono a’ miei occhi quello che sono in natura, cioè
una menomissima parte dell’universo, e che i miei rapporti con loro e i loro
rapporti scambievoli non m’interessano punto, e non interessandomi, non gli
osservo se non superficialmente. Bensì sono assuefatto ad osservar di continuo
me stesso, cioè l’uomo in se, e similmente i suoi rapporti col resto della
natura, dai quali, con tutta la mia solitudine, io non mi posso liberare».
[600]
C. Fenoglio, op. cit., p. 20.
[601] Si fa riferimento al
titolo del capitolo Una morale fragile,
in C. Fenoglio, op. cit., pp. 9-29.
Cfr. S. Timpanaro, op. cit., p. 220:
«In questo senso anche lo stoicismo era una “morale dei deboli”».
[602] Entrambe le citazioni
sono prese dall’introduzione di M.A. Rigoni in G. Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei costumi
degl’Italiani, cit., pp. 9-10.
[603]
Ivi, p. 52. Corsivi miei.
[604]
C. Fenoglio, op. cit., p. 27.
[605]
F. Cacciapuoti, op. cit., p. 135.
[606] Cfr. S. Timpanaro, op. cit., pp. 218-219: «Alla possibilità
di raggiungere la perfetta atarassia il Leopardi, come già sappiamo, non
credette mai; e nella chiusa del preambolo […] ritorna il concetto, già svolto
nell’Ottonieri, che
l’imperturbabilità non dipende solo dal nostro volere […]. Ciò non toglie che
l’interesse per Epitteto, e per la filosofia ellenistica in generale, si
accordi realmente con una fase di disimpegno politico e di tentativo di
adattamento alla realtà della vita, che il Leopardi attraversò all’incirca dal
’24 al ’27)».
[607]
G. Leopardi, Manuale di Epitteto, in
G. Leopardi, Poesie e prose vol. II,
cit., p. 1045. Corsivi miei.
[608]
Commento e note al Manuale di Epitteto
in ivi, p. 1454.
[609] C. Fenoglio, op. cit., p. 21: «Il moralista a cui si
palesa l’inutilità della morale finisce così per ricostruirla ponendo alla sua
base non più i principi di virtù e di gloria, bensì quello della consolazione:
ed è nel segno della consolazione e dell’affetto reciproci che Leopardi integra
morale e poesia, recuperando il valore dell’illusione e del nascondimento della
verità».
[610] G. Leopardi, Disegni letterari, in G. Leopardi, Poesie e prose vol. II, cit., p. 1218, §
XI. 145 A. Dolfi, op. cit., pp. 398-399.
[611]
G. Leopardi, Manuale di Epitteto, in
G. Leopardi, Poesie e prose vol. II,
cit., p. 1046. Corsivi miei.
[612]
Ivi, p. 1045.
[613]
A. Dolfi, op. cit., p. 421.
[614]
G. Leopardi, Discorso sopra lo stato
presente dei costumi degl’Italiani, cit., pp. 52-53. Corsivi miei.
[615]
A. Dolfi, op. cit., p. 407.
[616] G. Leopardi, Disegni letterari, in ivi, p. 1217, § XI. 152 Cfr. F. Cacciapuoti, op. cit., pp. 135-136.
[617]
Ibidem.
[618]
G. Leopardi, Manuale di Epitteto, in
G. Leopardi, Poesie e prose vol. II,
cit., p. 1046.
[619] Cfr. commento e note in
G. Leopardi, Manuale di Epitteto, in ivi, p. 1454: «La “guerra feroce e
mortale al destino” appartiene a un mondo “eschileo”, in cui il pensiero è
ancora sotto la tutela della poesia e del mito, ma laddove esso,
filosoficamente emancipato, abbia prodotto la “cognizione della imbecillità
naturale e irreparabile dei viventi”, non vi sono che deboli alla ricerca,
contro le tribolazioni dell’esistenza, di un ragionevole “stato di pace, e
quasi soggezione dell’animo, e di servitù tranquilla”. Questo rovesciamento
della condizione di “continua guerra” che è la vita […] rappresenta, nella sua
innaturalezza filosofica e morale, il vertice della conoscenza». 156
A. Vigorelli, op. cit., p. 195.
[620] Cfr. S. Timpanaro, op. cit., p. 220: «Il Leopardi,
spingendo lo sguardo più a fondo, vide ciò che la morale stoica e le altre
morali ellenistiche avevano in comune col cristianesimo: la rinuncia a dominare
il mondo esterno. Egli comprese perfettamente che il concetto di libertà interiore,
per quanto orgogliosamente affermato e vissuto, nasceva pur sempre dalla
consapevolezza dell’impossibilità di conquistarsi la libertà esteriore, sia sul
piano politico, sia su quello del rapporto uomo-natura».
[621]
G. Leopardi, Manuale di Epitteto, in
G. Leopardi, Poesie e prose vol. II,
cit., p. 1045.
[622]
Entrambe le citazioni sono prese da A. Dolfi, op. cit., pp. 422-423.
[623] E a distanza di pochi
anni, nel 1829, la riflessione del recanatese attorno alle civiltà antica e
moderna permane, quasi come un’ossessione, tant’è che nei Disegni letterari si legge: «Parallelo della civiltà degli antichi
(cioè Greci e Romani) e di quella dei moderni. Considerata l’origine e la
natura sua, la civiltà moderna è un risorgimento; e gran parte di quello che in
questo genere noi chiamiamo acquistare, non è che un ricuperare. La civiltà
nostra ha le sue radici nell’antica; e da questa può tuttavia prendere accrescimento,
come può una lingua figlia dalla lingua madre; come la lingua italiana dalla
latina. In tutti i modi, non può essere di piccolo rilievo, sì alla filosofia
speculativa, e sì all’uso pratico, l’investigare accuratamente quella civiltà
che è madre della nostra, e paragonarla alla figliuola. Risultato da questo
Parallelo, che a noi resta molto a ricuperare della civiltà degli antichi», in
G. Leopardi, Disegni letterari, in G.
Leopardi, Poesie e prose vol. II,
cit., p. 1217, § XI.
[624] A. Huxley, Il mondo nuovo. Ritorno al mondo nuovo,
traduzione di L. Gigli e L. Bianciardi [1971], Milano, Mondadori, 199, p. 31.
[625]
C. Fenoglio, op. cit., p. 24.
[626]
Ibidem e ivi, p. 25.
[627]
A. Negri, op. cit., p. 222.
[628] Ibidem. Si veda quanto scrive Negri a p. 227: «La virtù, la potenza
di rottura non trovano in ciò nutrimento. Ma vi è una seconda via attraverso la
quale la virtù cerca di riconquistare il suo nome e la rottura un progetto
potente: è la via nella quale il paradosso non viene posto nell’etica ma nel
rapporto fra etica e mondo – e l’immaginazione si confronta all’etica e cerca
di farsi, con essa, un tutt’uno materiale».
[629] C. Fenoglio, op. cit., p. 46: nel raffronto tra il
pensiero di Leopardi e quello di Montesquieu, Fenoglio spiega che per il
recanatese la decadenza storica «è frutto non di specifici eventi, ma di un
mutamento civile e culturale – ossia morale – che riveste il rapporto fondamentale
fra l’uomo e la natura».
[630]
A. Negri, op. cit., p. 223.
[631] Tutte le citazioni
presenti in questo segmento sono prese dal commento introduttivo ai Paralipomeni della Batracomiomachia, in
G. Leopardi, Poesie e prose vol. I,
cit., p. 1006.
[632]
C. Fenoglio, op. cit., p. 123.
[633]
A. Ferraris, L’ultimo Leopardi, cit.,
p. 129.
[634] Cfr. ivi, p. 131: «Com’è noto, le rane e i
granchi adombrano, sotto il velo del travestimento zoomorfo, i papalini e gli
austriaci, sullo sfondo della libera rievocazione storica della situazione
politica italiana dopo i moti del 1831, con ampiezza di riferimenti alle
vicende del regno di Napoli tra il 1815 e il 1821».
[635]
Ibidem.
[636]
Commento introduttivo di F. Russo in G. Leopardi, I Paralipomeni, a cura di F. Russo, Milano, Franco Angeli, 1997,
pp. 17-18.
[637]
G. Marzot, Storia del riso leopardiano,
Firenze, Casa editrice G. D’Anna, 1966, p. 78.
[638] Entrambe le citazioni
sono prese da A. Negri, op. cit., p.
221: «Questo è il secondo nucleo insistente dei pensieri, ed è a partire da
esso che il quadro della riflessione leopardiana si apre, dal contrasto cioè
che, contro questa machiavellica figura della società e del sapere, impone la
potenza della virtù». 176 C. Fenoglio, op. cit., p. 124.
[639]
A. Negri, op. cit., p. 224.
[640]
Commento introduttivo di F. Russo in G. Leopardi, I Paralipomeni, cit., p. 19.
[641]
Commento introduttivo ai Paralipomeni
della Batracomiomachia in G.
Leopardi, Poesie e prose vol. I,
cit., pp. 1005-1006.
[642] Z VII, 329, 3, in G.
Leopardi, Zibaldone scelto, in G.
Leopardi, Opere vol. III, cit., p.
837: «Ridete franco e forte, sopra qualunque cosa, anche innocentissima, con
una o due persone, in un caffè, in una conversazione, in via: tutti quelli che
vi sentiranno o vedranno rider cosí, vi rivolgeranno gli occhi, vi guarderanno
con rispetto, se parlavano taceranno, resteranno come mortificati, non
ardiranno mai rider di voi, se prima vi guardavano baldanzosi o superbi,
perderanno tutta la loro baldanza e superbia verso di voi. In fine il semplice rider alto vi dà una decisa superiorità
sopra tutti gli astanti o circostanti, senza eccezione. Terribile ed awful è la potenza del riso: chi ha il
coraggio di ridere, è padrone degli altri, come chi ha il coraggio di morire».
[643]
Commenta così Fabio Russo in G. Leopardi, I
Paralipomeni, cit., p. 153: «Espressione assai felice, con l’efficace
effetto buffo di mostrare una situazione di riso più che di pietà, propria dei
Topi sbandati sotto il controllo di Camminatorto».
[644] Commento introduttivo ai
Paralipomeni della Batracomiomachia in G. Leopardi, Poesie e prose vol. I, cit., p. 1007.
[645]
Nota al testo in G. Leopardi, I
Paralipomeni, cit., p. 147.
[646] Commento introduttivo ai
Paralipomeni della Batracomiomachia in G. Leopardi, Poesie e prose vol. I, cit., p. 1004.
[647] A. Ferraris, L’ultimo Leopardi, cit., p. 138. 186
Ibidem.
[648] Ivi, p. 139: «La virtù repubblicana rivela, nell’antagonismo con la
“ferrata necessità”, un’effettiva capacità di presa sulla realtà politica
circostante, particolarmente là dove lo scontro tra l’ideale di libertà e il
dispotismo assume contorni più netti e drammatici».
[649]
G. Leopardi, I Paralipomeni, cit., p.
147 (V, 47-48).
[650]
A. Negri, op. cit., p. 251.
[651] Cfr. A. Ferraris, L’ultimo Leopardi, cit., p. 138: «A
differenza dell’Ettore foscoliano, […] Rubatocchi non avrà “onore di pianti”,
giacché l’età moderna ha sperimentato l’eclissi dell’amor patrio: e su di lui
si posa non la luce radiosa del Sole, che accompagna idealmente nel tempo la
memoria del vinto dei Sepolcri, ma
l’ombra notturna di un cielo senza dei».
[652]
A. Negri, op. cit., p. 252.
[653] Cfr. ibidem: «Con ciò, un momento
fondamentale di rottura metafisica entra nell’opera politica di Leopardi. La
gentilezza dell’esposizione ontologica della rottura non inganni sulla sua
radicalità. Con l’inizio del Canto VI finisce così quella che si può certamente
chiamare la prima parte dei Paralipomeni,
e cioè la costruzione poetica attorno a una trama storica – fino al momento in
cui la trama storica si dirompe e alla sua miseria, al suo infame tempo si
oppongono virtù e un “altro” tempo. Di qui alla fine del poemetto, d’altronde
incompiuto, la trama storica non riemerge più».
[654]
Commento introduttivo di F. Russo in G. Leopardi, I Paralipomeni, cit., p. 29.
[655] A. Negri, op. cit., p. 251: «Questa verità teorica
ha un immediato risvolto poetico; essa esige che un’estrema violenza del
chiaroscuro, della scrittura eroica attraversi il tessuto sarcastico della
documentazione dell’esistente. Da questo punto di vista il canto V è al centro
della Batracomiomachia».
[656]
A. Ferraris, L’ultimo Leopardi, cit.,
p. 137.
[657] Nota al testo in G.
Leopardi, I Paralipomeni, cit., p.
146: Russo parla di una «mossa tragica ed estrema di un crescendo drammatico»
che descrive la scena, in cui si fa spazio, nell’immaginario del lettore, il momento
in cui «cognati petti il vincitor calpesta» (v. 80).
[658]
Ibidem (V, 45-46).
[659] Cfr. nota al testo in ibidem: «C’è una concomitanza tra il
calar del sole con il conseguente farsi notte e il venir meno del valoroso
Rubatocchi, per il quale anche si può accostare l’inciso “densato della notte
il velo”. Allora “cadde”, detto con questa mesta solennità, ma il “cielo”
equivalente a “Natura” non lo vede forse anche perché scuro, buio, e quindi
l’atto del “cader” rimane diremmo non visto alla luce del giorno». 199 Ivi, p. 23.
[660]
Entrambe le citazioni sono prese dal commento introduttivo in ivi, p. 29.
[661]
Entrambe le citazioni sono prese da ibidem.
[662]
A. Negri, op. cit., p. 254.
[663]
Ibidem.
[664]
Commento introduttivo di F. Russo in G. Leopardi, I Paralipomeni, cit., p. 38.
[665]
Ivi, p. 37.
[666] G. Leopardi, Detti memorabili di Filippo Ottonieri,
in G. Leopardi, Operette morali seguite
da una scelta dei “Pensieri”, cit., p. 208.
[667]
P.P. Pasolini, intervista a G. Ungaretti in Comizi
d’amore, 1965. Trascrizione mia dal video https://youtu.be/ypFcFh98vME.
[668] «Nel marzo del 1921 la
famigliola parte per l’Italia, dove amici comuni, i signori Fasola, hanno preso
in affitto per loro un appartamento a Firenze. […] Ha inizio da quest’anno un
rapporto con l’Italia affatto speciale, destinato ad essere interrotto solo
dalla morte», in S. Manfrelotti, Invito
alla lettura di Aldous Huxley, Milano, Mursia, 1987, p. 24.
[669] Tutte le citazioni
presenti in questo segmento sono prese da R. Pieraccini, Aldous Huxley e l’Italia, Napoli, Liguori, 1998, pp. 191-192.
[670] Cfr. note di S.
Manfrelotti, op. cit., p. 67: «La
cosiddetta era di Ford (numerosi quanto strampalati i tentativi critici di fissarne
le precise coordinate temporali) prende il nome dall’industriale americano
Henry Ford (1863-1947). Il segno T, che nell’Inghilterra del futuro viene usato
come novello segno di croce, è la trasposizione criptica del “modello T”, la
vettura Ford di cui vennero venduti sino a tutto il 1926 quindici milioni di
esemplari».
[671] Elencando le tre
alternative proposte da Bertrand Russel in merito al futuro dell’uomo, Huxley
spiega che «la terza alternativa, che Lord Russell auspica, è che venga creato
uno stato sovrannazionale, il che potrebbe avvenire in due modi: con la forza,
[…] oppure sotto minaccia della forza, mossi dal timore di ciò che potrebbe
accadere, e come conseguenza dell’uso della ragione e del rispetto dei propri
interessi e degli ideali umanitari. Questa, naturalmente, sarebbe il modo
auspicabile di creare quello che Wendell Willkie ha chiamato “un solo mondo”;
ma bisogna ammettere che i precedenti storici non sono molto incoraggianti», in
A. Huxley, La condizione umana, a
cura di R. Carretta, Pavia, Liber, 1995, p. 105.
[672] Cfr. A. Huxley, Fini e mezzi. Indagine sulla natura degli
ideali e sui metodi adottati per realizzarli, Milano, Mondadori, 1947, p.
215: «Accettato il fatto che gli esseri umani appartengono a tipi diversi, sono
dotati di attitudini diverse e possiedono dei diversi gradi di intelligenza,
dobbiamo tentare di dare ad ognuno di essi l’educazione meglio calcolata per
sviluppare al massimo le sue capacità».
[673]
A. Huxley, Il mondo nuovo, cit., p.
14.
[674] S. Manfrelotti, op. cit., p. 65. Cfr. A. Huxley, Il mondo nuovo, p. 5: «e in uno stemma
il motto dello Stato Mondiale: “Comunità, Identità, Stabilità”».
[675]
Il riferimento corrisponde al VI dei Pensieri,
in G. Leopardi, Opere vol. II, cit.,
pp. 288-289.
[676] G. Leopardi, Storia del genere umano, in G. Leopardi,
Operette morali seguite da una scelta dei “Pensieri”, cit., p. 62.
[677]
S. Manfrelotti, op. cit., p. 65.
[678]
A. Huxley, Il mondo nuovo, cit., p.
17.
[679] Ivi, p. 33: «“Voi tutti ricordate” disse il Governatore, con voce
forte e profonda “voi tutti ricordate, suppongo, quel bellissimo e ispirato
detto del Nostro Ford: “La storia è tutta una sciocchezza”. […] Agitò la mano;
ed era come se, con un invisibile piumino, egli avesse spazzato via un po’ di
polvere, e la polvere era Harappa, era Ur dei Caldei; delle ragnatele, ed esse
erano Tebe e Babilonia e Cnosso e Micene. Una spolveratina, un’altra, e dov’era
più Odisseo, dov’era Giobbe, dov’erano Giove e Gotamo e Gesù? Una spolveratina…
e quelle macchie di antica sporcizia chiamate Atene e Roma, Gerusalemme e
l’Impero di Mezzo, erano tutte scomparse. Una spolveratina… il posto dov’era
stata l’Italia eccolo vuoto. Una spolveratina, via le cattedrali; una
spolveratina, un’altra, via Re Lear e
i Pensieri di Pascal. Una
spolveratina, via la Passione; una
spolveratina, via il Requiem; e
ancora via la Sinfonia, via…». Cfr.
S. Manfrelotti, op. cit., p. 69: «In Music at Night compaiono invece i
riferimenti al piacere sfrenato, le critiche all’eugenetica ed ai
condizionamenti neopavloviani e, soprattutto, il tetro apoftegma
dell’industriale Henry Ford: History is
bunk, “la Storia è tutta una sciocchezza”, riproposto pari pari in Brave New World».
[680] M.A. Iannaccone, Aldous Huxley. Profeta del “Mondo nuovo”,
Milano, Ares, 2023, p. 206. Continua: «Con questo romanzo, [Huxley] non
intendeva fare delle profezie precise – anche se negli ambienti scientisti e
fabiani che aveva frequentato aveva sentito parlare di simili progetti, – ma
ragionare sui possibili effetti dell’applicazione della scienza, della
tecnologia, della medicina e della farmacologia da parte di uno stato
totalitario».
[681] A. Huxley, Il mondo nuovo, cit., p. 23. 16
Ivi, p. 37.
[682] M. Moneta, op. cit., p. 138, corsivi nel testo: «L’Inno, in accordo con le numerose pagine
dello Zibaldone dedicate al tema
della “degenerazione” e dell’infelicità dell’uomo, sostiene che tale origine
non sia in natura – né, tanto meno, nell’“autor della natura”, negli Dèi, nel
fato – ma sia il risultato dell’attività dell’uomo». 18 G. Leopardi,
Inno ai Patriarchi (o de’ principii del
genere umano), in G. Leopardi, Canti,
introduzione e commento di M. Fubini, cit., p. 89, vv. 19-21. Cfr. l’abbozzo in
prosa all’Inno: «Perocché alla pietà
del creatore certamente non piacque che la morte fosse all’uomo assai migliore
della vita, o che la condizione della vita nostra fosse tanto peggior di quella
di ciascuno degli altri animali e degli altri esseri che ci sottomise in questa
terra. E sebbene la fama ricorda un antico vostro fallo cagione delle nostre
calamità, pur la clemenza divina non vi tolse che la vita non fosse un bene; e
maggiori assai furono i falli de’ vostri nepoti, e i falli nostri che ci
ridussero in quest’ultimo termine d’infelicità», in G. Leopardi, Tutte le opere vol. I, cit., p. 74.
[683] G. Leopardi, Inno ai Patriarchi (o de’ principii del
genere umano), in G. Leopardi, Canti,
introduzione e commento di M. Fubini, cit., p. 90, vv. 36-42. 20 M.
Moneta, op. cit., p. 140.
[684] Commento introduttivo di
M. Fubini in G. Leopardi, Inno ai
Patriarchi (o de’ principii del genere umano), in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di M.
Fubini, cit., p. 88. 22 A.
Huxley, Fini e mezzi, cit., p.
69.
[685]
Ivi, p. 66.
[686] Cfr. A. Huxley, Il mondo nuovo, cit., pp. 26-27: «“I
bambini Alfa sono vestiti di grigio. Lavorano molto più di noi, perché sono
tanto tanto intelligenti. Sono veramente contento di essere un Beta perché non
sono costretto a lavorare così duro. E poi, noi siamo superiori ai Gamma e ai
Delta. I Gamma sono stupidi. Essi sono vestiti tutti di verde, e i bambini
Delta sono vestiti di kaki. Oh no, non voglio giocare coi bambini Delta. E gli
Epsilon sono ancora peggio. Sono troppo stupidi per…”». 25 A.
Huxley, Fini e mezzi, cit., p.
68.
[687] G. Leopardi, Dialogo di Tristano e di un amico, in G.
Leopardi, Operette morali seguite da una scelta dei “Pensieri”,
studio introduttivo e commento di M. Fubini, cit., p. 281.
[688]
S. Manfrelotti, op. cit., p. 68.
[689]
A. Huxley, Il mondo nuovo, cit., p. 202.
[690] G. Leopardi, Comparazione delle sentenze di Bruto minore
e di Teofrasto vicini a morte, in G. Leopardi, Poesie e prose vol. II, cit., p. 270: «E questa scienza universale
non fu subordinata da lui, come da Platone, all’immaginativa, ma
solamente alla ragione e all’esperienza, secondo l’uso d’Aristotele;
e indirizzata, non allo studio né alla ricerca del bello, ma del suo maggior
contrario, ch’è propriamente il vero. Atteso queste particolarità, non è
maraviglia che Teofrasto arrivasse a conoscere la somma della sapienza, cioè la
vanità della vita e della sapienza medesima; essendo che le molte scoperte
fatte da’ filosofi degli ultimi secoli circa la natura degli uomini e delle
cose, vengano principalmente dal confrontare e dal rapportare che s’è fatto le
diverse scienze, e quasi tutte le discipline tra loro, e dall’averle collegate
l’une coll’altre, e per questo mezzo considerate le relazioni che intervengono
tra le varie parti della natura, ancorché lontanissime, scambievolmente».
[691] M. Balzano, I confini del sole. Leopardi e il Nuovo
Mondo, Venezia, Marsilio, 2008, p. 99. Cfr. Z 375, 1, in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova edizione
tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., p. 294: «Nemico della
natura è quell’uso della ragione che non è naturale, quell’uso eccessivo ch’è
proprio dell’uomo corrotto: nemico della natura, perciò appunto che non è
naturale, né proprio dell’uomo primitivo».
[692]
A. Huxley, Il mondo nuovo, cit., p.
46.
[693] C. Battisti, Cultura e civiltà in Aldous Huxley, in
«Il lettore di provincia», aprile 2000, pp. 59-69, p. 66.
[694] A. Huxley, Il mondo nuovo, cit., p. 203. 34 Ivi, p. 39.
[695] Ivi, p. 211. 36 Ivi,
p. 212.
[696]
Z I, 360, 1 in G. Leopardi, Zibaldone
scelto, in G. Leopardi, Opere vol.
III, cit., p. 176.
[697]
C. Luporini, Leopardi progressivo,
cit., p. 20.
[698]
Z 1566, in G. Leopardi, Tutte le opere
vol. II, cit., p. 442.
[699]
C. Luporini, Leopardi progressivo,
cit., p. 20.
[700]
Ivi, p. 21.
[701]
A. Huxley, Il mondo nuovo, cit., p.
84.
[702] Z II, 274, 1 in G.
Leopardi, Zibaldone scelto, in G.
Leopardi, Opere vol. III, cit., p.
302. Corsivi nel testo. Si veda quanto scritto nel maggio 1822, in Z IV, 239,
1: «Il mondo o la società umana, nello stato di egoismo (cioè di quella
modificazione dell’amor proprio così chiamata) in cui si trova presentemente,
si può rassomigliare al sistema dell’aria […] Dal che risulta un equilibrio
prodotto da una qualità distruttiva, cioè dall’odio e invidia e nemicizia
scambievole di ciascun uomo contro tutti e contro ciascuno, e dal perenne esercizio
di queste passioni, cioè in somma dell’amor proprio puro, in danno degli altri.
[…] Lo stato d’egoismo puro, e quindi di puro odio verso altrui, che ne segue
essenzialmente, è lo stato naturale dell’uomo. Ma ciò non è maraviglia,
spiegandosi esso e dovendosi necessariamente spiegare col negar la pretesa
destinazione naturale dell’uomo allo stato sociale stretto (cioè diverso da quello ch’hanno fra loro quasi tutte le
bestie, massime le più svegliate); al quale stato ripugnano per natura loro le
dette qualità naturalissime e assolutamente proprie dell’uomo. […] La
maraviglia è ch’essendo tornato l’uomo allo stato naturale per questa parte
(mediante l’annichilamento delle antiche opinioni e illusioni, frutto delle
prime società e relazioni contratte scambievolmente dagli uomini), la società
non venga a distruggersi assolutamente, e possa durare con questi principii
distruttivi per natura loro. […] E questo equilibrio, certo
[703]
A. Huxley, Il mondo nuovo, cit., p.
40.
[704] Z 172,1 in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova edizione
tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., p. 128.
[705] A. Huxley, Il mondo nuovo, cit., p. 41-42: «“Considerate
le vostre esistenze” disse Mustafà Mond. “Nessuno di voi ha mai incontrato un
ostacolo insormontabile?”. La domanda ricevette in risposta un silenzio
negativo. “Nessuno di voi è mai stato costretto a subire un lungo intervallo di
tempo tra la coscienza di un desiderio e il suo compimento?” “Veramente…”
cominciò uno dei giovani, ed esitò. “Parlate” disse il Direttore “non fate
aspettare Sua Forderia”. “Una volta dovetti attendere quasi quattro settimane
prima che una ragazza ch’io desideravo mi si concedesse.” “E avete provato, di
conseguenza, una forte emozione?” “Orribile!” “Orribile, precisamente” disse il
Governatore. “I nostri antichi erano talmente stupidi e corti di vista che,
quando vennero i primi fondatori e si offersero di salvarli da quelle orribili emozioni,
non vollero aver niente a che fare con essi.”».
[706] G. Leopardi, Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio
familiare, in G. Leopardi, Operette
morali seguite da una scelta dei
“Pensieri”, studio introduttivo e commento di M. Fubini, cit., p. 140.
[707] Z 1815, 1 in G.
Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova
edizione tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., p. 62: «La noia
è la più sterile delle passioni umane. Com’ella è figlia della nullità, così è madre
del nulla: giacché non solo è sterile di per sé, ma rende tale tutto ciò su cui
si mesce o avvicina ec. (30. Sett. 1821)».
[708] Entrambe le citazioni
sono prese dal commento introduttivo di Fubini al Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare, in G.
Leopardi, Operette morali seguite da una scelta dei “Pensieri”,
studio introduttivo e commento di M. Fubini, cit., p. 135.
[709] Z I, 271, 3 e Z I, 273
in G. Leopardi, Zibaldone scelto, in
G. Leopardi, Opere vol. III, cit.,
pp. 129-130. 51 Cfr. Z 1017,
1 in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri.
Nuova edizione tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., p. 47:
«Dalla mia teoria del piacere seguita che l’uomo, desiderando sempre un piacere
infinito e che lo soddisfi intieramente, desideri sempre e speri in una cosa
ch’egli non può concepire. E così è infatti. Tutti i desideri e le speranze
umane, anche dei beni ossia piaceri i più determinati, ed anche già
sperimentati altre volte, non sono mai assolutamente chiari e distinti e
precisi, ma contengono sempre un’idea confusa, si riferiscono sempre ad un
oggetto che si concepisce confusamente. E perciò e non per altro, la speranza è
meglio del piacere, contenendo quell’indefinito, che la realtà non può
contenere».
[710] A. Huxley, op. cit., p. 199. L’espressione «andare
in vacanza» si riferisce, nel romanzo, alle pause lavorative concesse grazie
all’assunzione del soma, una droga
distribuita a tutta la comunità affinché il suo effetto generi un torpore
equivalente alla sensazione di felicità e svago, nonché un lungo sonno nel
momento in cui viene presa in dosi maggiori.
[711]
Ivi, p. 119.
[712]
G. Leopardi, Frammento sul suicidio,
in G. Leopardi, Poesie e prose vol. II,
cit., p. 276.
[713] Z 172, 1 in G. Leopardi,
Zibaldone di pensieri. Nuova edizione
tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., pp. 128-129.
[714] Lettera A Fanny Targioni Tozzetti, Firenze (Roma, 5
Dicembre [1831]), in G. Leopardi, La
vita e le lettere, cit., p. 497.
[715]
A. Huxley, Il mondo nuovo, cit., p.
39.
[716] G. Leopardi, Storia del genere umano, in G. Leopardi,
Operette morali seguite da una scelta dei
“Pensieri”, cit., p. 66. Così è descritta la condizione degli
uomini all’insorgere dell’età moderna, quando «il totale rivolgimento della
loro fortuna e l’ultimo esito di quello stato che oggi siamo soliti chiamare antico»
combacia con la discesa in Terra della larva della Sapienza.
[717] Ivi, p. 63. Scrive Fubini in nota: «Anche nell’Inno ai patriarchi dopo aver ricordato e interpretato a suo modo,
scostandosi più che in questo luogo dai poeti antichi, il mito dell’età
dell’oro, il Leopardi accenna al popolo di California, che, per le sue letture,
egli si era immaginato vivesse come quegli uomini leggendari». 60 M.
Balzano, op. cit., pp. 21-22: «I
patriarchi, i poeti, gli antichi, i fanciulli si allineano insomma così lungo
un unico asse, che è quello della natura. I loro contrari vanno invece a
comporre un altro asse, quello del pensiero (modernità, adulti, ragione,
civiltà ecc.). Questa disposizione assiologica accompagnerà ogni ragionamento
leopardiano, dai suoi primi passi fino agli ultimi approdi, perché è parte
stessa della sua forma mentis. Su
questo primo polo il poeta aggiunge fin da qui, nel 1818, un altro elemento: il
primitivo». 61 M. Moneta, op.
cit., p. 142.
[718] M.A. Rigoni, op. cit., p. 29. Cfr. ivi, p. 28: «Leopardi tiene lo sguardo
continuamente rivolto all’Atlantide dell’antichità: dietro l’orizzonte
filosofico che rinchiude il moderno, egli cerca ancora, ciecamente, la classicità
sprofondata e, date le premesse teoriche, si capisce come la raffigurazione leopardiana
dell’antico non possa che avere caratteri inconsueti rispetto a ogni altra,
tradizionale concezione».
[719] G. Leopardi, Inno ai Patriarchi (o de’ principii del
genere umano), in G. Leopardi, Canti,
introduzione e commento di M. Fubini, pp. 93-94, vv. 97-103. Precisa Fubini in
nota: «Ignara non della morte, come intendono alcuni commentatori, sì del
destino umano, della fatale infelicità dell’uomo, celata dall’ignoranza e dalle
illusioni».
[720]
A. Negri, op. cit., p. 107.
[721]
M. Moneta, op. cit., p. 141.
[722]
Ivi, p. 142.
[723] Cfr. M. Balzano, op. cit., p. 92: «Le famose “californie
selve” (v. 104) rappresentano, a livello filosofico, l’acme della prima fase di
riflessione sui selvaggi, di quella prima teorizzazione che li ha visti
animati, oltre che dalla diversa eccezione che ho cercato di seguire volta per
volta, da una positività e da un benessere dati direttamente dalla natura,
contro la quale non si è diretto l’“irrequieto ingegno” dell’uomo».
[724] G. Leopardi, Inno ai Patriarchi (o de’ principii del
genere umano), in G. Leopardi, Canti,
introduzione e commento di M. Fubini, pp. 94-95, vv. 104-117.
[725] Note di M. Fubini in ibidem: «Si può osservare che la parola felicità ha in tutti i versi del L. la
stessa collocazione: è posta sempre all’inizio del verso, separata con un forte
enjambement dall’aggettivo che
l’accompagna, quasi il poeta voglia farci sentire l’irraggiungibile lontananza
del bene da tutti agognato». 70 Cfr. M. Balzano, op. cit., p. 36: «Ciò che è toccato
dalla ragione – dunque anche tutto ciò che ne è solo mediamente invischiato – è
destinato a rivelare corruzione e contraddizioni insanabili, dando così spazio
a una concezione in cui si contrapporranno sempre più chiaramente due blocchi
netti, uno del mondo asociale, immune dal sapere, e l’altro sociale e
filosofico, abusivo della ragione». 71 A. Huxley, Il mondo nuovo, cit., pp. 178-179.
[726] M. Balzano, op. cit., pp. 49-51. A p. 96, Balzano
conclude il capitolo con un’importante osservazione, a scanso di equivoci: «I
Californiani non rappresentano il primitivo leopardiano. Leopardi, innanzi
tutto, non chiama mai i Californiani “primitivi”: egli nelle cinque note li
chiama due volte “selvaggi” (pp. 2712 e 3179-3180) e tre volte semplicemente
“Californi” (pp. 3304, 3360 e 3801). Abbiamo poi visto che il primitivo
leopardiano non esiste: mentre Leopardi, finché nomina questi uomini li insegue
e propone, come fa coi selvaggi, come un’effettiva realtà: realtà che è degna,
oltreché di elogio, di rimanere intoccata dall’esecranda fame dell’oro e di
conquista degli Europei. Invece il primitivo sempre gli sfugge, e Leopardi è da
subito rassegnato a riconoscere questo momento come “aureo” e quest’uomo come
in “balia della favola” e dell’“opinione”; ad ammettere senza opposizione che
sullo stato di natura vero e proprio, ossia la sede del primitivo, l’“uomo
pochissimo sa”».
[727] A. Huxley, Il mondo nuovo, cit., p. 212: «Ma voi
non fate né l’una né l’altra cosa. Voi né sopportate né affrontate. Abolite
semplicemente i colpi e le frecce. È troppo facile». Benché nel romanzo non sia
esplicitato, si tratta di una citazione quasi letterale dell’Amleto di Shakespeare (autore che
ritorna molte volte nel romanzo poiché studiato da John). Siamo alla scena II
dell’atto III, al monologo di Amleto: «È forse più nobile soffrire, nell’intimo
del proprio spirito, le pietre e i dardi scagliati dall’oltraggiosa fortuna, o
imbracciar l’armi, invece, contro il mare delle afflizioni, e combattendo
contro di esse metter loro una fine?».
[728]
Z IV, 239, 1 in G. Leopardi, Zibaldone
scelto, in G. Leopardi, Opere vol.
III, cit., p. 491.
[729]
A. Huxley, La condizione umana, cit.,
p. 103.
[730] Ivi, pp. 116 e 121.
[731] Z 579, 2 in G. Leopardi,
Zibaldone di pensieri. Nuova edizione
tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., pp. 311-312. Cfr. nota di
F. Cacciapuoti: «Il brano costituisce la parte iniziale [549,1-548] di un
micro-trattato sulle forme di governo, composto tra il 22 e il 29 gennaio 1821,
che si conclude a 579,1».
[732] A. Huxley, La condizione umana, cit., pp. 117-119.
Scrive a p. 118: «Ma se l’influenza dell’Occidente sulle altre culture è
davvero il dato storico fondamentale della nostra epoca, allora nessuno di noi
è nella storia. Perché noi non siamo consapevoli direttamente degli effetti
provocati dalla cultura occidentale sulle altre o dalle altre culture sulla nostra».
[733]
Ivi, p. 120.
[734]
S. Manfrelotti, op. cit., p. 67.
[735]
G. Leopardi, Zibaldone scelto, in G.
Leopardi, Opere vol. III, cit., pp.
285-287.
[736] Il tema del suicidio
“per noia”, tipico dell’uomo moderno, viene trattato da Leopardi in diverse
sedi. Esemplare è il finale della Scommessa
di Prometeo, in cui Prometeo e Momo, giunti in una Londra odierna, si
trovano di fronte allo spettacolo suicida di un gentiluomo che, per
disperazione e «tedio della vita», aveva ucciso non solo sé stesso, ma anche i
due figli. Cfr. G. Leopardi, La scommessa
di Prometeo, in G. Leopardi, Operette
morali seguite da una scelta dei
“Pensieri”, cit., pp. 114-124.
[737] S. Manfrelotti, op. cit., p. 75. 84 M. Balzano, op. cit., p. 45.
[738] A. Huxley, Fini e mezzi, cit., pp. 306-307. Si
ricordi la già citata Lettera A Pietro Giordani, Vicenza (Recanati 26
Aprile 1819), G. Leopardi, La vita e
le lettere, cit., p. 109, in cui Leopardi scrive: «i libri, particolarmente
i vostri, mi scorano insegnandomi che la bellezza appena è mai che si trovi
insieme colla virtù, non ostante che sembri compagna e sorella. Il che mi fa
spasimare e disperare». 86 A. Huxley, Il mondo nuovo, cit., p. 158.
[739]
M.A. Rigoni, op. cit., p. 31.
[740] A. Huxley, Il mondo nuovo, cit., pp. 26-27. Si
tratta di una voce registrata diffusa da un altoparlante nel Corso Elementare
di Coscienza di Classe, durante il quale ai bambini viene impartito l’ordine
sociale su cui è strutturata la società (dai più intelligenti Alfa, ai minori
Epsilon), di modo che si abituino fin da subito ad essere contenti della loro posizione: «Ma il condizionamento senza parole
è rude e grossolano; non può mettere in rilievo le distinzioni più sottili; ma
può inculcare i modi di comportamento più complessi. Per questo sono necessarie
le parole, ma senza ragionamento. Vale a dire, l’ipnopedia: la massima forza moralizzatrice
e socializzatrice che sia mai esistita».
[741] Entrambe le citazioni
sono prese dal commento introduttivo di M. Fubini al Dialogo di Tristano e di un amico, in G. Leopardi, Operette morali seguite da una scelta dei “Pensieri”, studio introduttivo e
commento di M. Fubini, cit., p. 279. 90 Ivi, p. 286.
[742] Ivi, p. 284: «Tristano.
Appunto. Credo ed abbraccio la profonda filosofia de’ giornali, i quali
uccidendo ogni altra letteratura e ogni altro studio, massimamente grave e
spiacevole, sono maestri e luce dell’età presente. Non è vero?».
[743]
S. Manfrelotti, op. cit., p. 67.
[744] Commento introduttivo di
M. Fubini al Dialogo di Tristano e di un
amico, in G. Leopardi, Operette
morali seguite da una scelta dei
“Pensieri”, studio introduttivo e commento di M. Fubini, cit., p. 279. 94
A. Huxley, Il mondo nuovo, cit., p.
214. 95 Ivi, p. 122.
[745] Ivi, p. 121. La situazione è ripresa nei pensieri dello stesso John
a p. 205: «“Diamine…” Il Selvaggio esitò. Avrebbe voluto dire qualche cosa
della solitudine, della notte, dell’altipiano che si stende pallido sotto la
luna, del precipizio, della caduta nelle tenebre fonde, della morte. Avrebbe
voluto parlare, ma non c’erano parole. Neppure in Shakespeare».
[746] A. Huxley, La condizione umana, cit., p. 123. 98
S. Manfrelotti, op. cit., p. 66.
[747]
A. Huxley, Il mondo nuovo, cit., pp.
61-63.
[748] C. Battisti, op. cit., p. 67: «Egli ci fornisce il
primo occhio alternativo alla fatticità del presente, la porta d’accesso ad una
visione “altra” rispetto a quella idilliaca, ma subdolamente inculcata dal
potere, condivisa da tutti gli abitanti del New World».
[749]
C. Luporini, Decifrare Leopardi,
cit., p. 239.
[750]
Ibidem.
[751]
S. Manfrelotti, op. cit., p. 86.
[752]
A. Huxley, Il mondo nuovo, cit., pp.
92-93.
[753]
Ivi, p. 211.
[754]
Ivi, p. 51.
[755] Z 51, in G. Leopardi, Tutte le opere vol. II, cit., p. 35: «Il
più solido piacere di questa vita è il piacer vano delle illusioni. Io
considero le illusioni come cosa in certo modo reale stante ch’elle sono
ingredienti essenziali del sistema della natura umana, e date dalla natura a
tutti quanti gli uomini, in maniera che non è lecito spregiarle come sogni di
un solo, ma propri veramente dell’uomo e voluti dalla natura, e senza cui la
vita nostra sarebbe la più misera e barbara cosa ec. Onde sono necessari ed
entrano sostanzialmente nel composto ed ordine delle cose».
[756]
Entrambe le citazioni sono prese da C. Luporini, Decifrare Leopardi, cit., p. 239.
[757] G. Leopardi, Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio
familiare, in G. Leopardi, Operette
morali seguite da una scelta dei
“Pensieri”, studio introduttivo e commento di M. Fubini, cit., p. 140.
[758]
Ivi, p. 141.
[759]
A. Huxley, Il mondo nuovo, cit., p.
93.
[760]
A. Huxley, Ritorno al mondo nuovo, in
ivi, p. 264.
[761]
Ivi, p. 152.
[762]
Ivi, p. 70.
[763] C. Luporini, Decifrare Leopardi, cit., p. 242: «È una
“distrazione” e una “dimenticanza” metafisica, dietro la quale stanno
oggettivamente il nulla e
soggettivamente la noia». 116
A. Negri, op. cit., p. 229.
[764]
C. Battisti, op. cit., p. 68.
[765] A. Huxley, Il mondo nuovo, cit., pp. 196-197. 119
M. Moneta, op. cit., p. 130.
[766]
Z 4511 in G. Leopardi, Tutte le opere
vol. II, cit., p. 1233.
[767]
G. Leopardi, Inno ai Patriarchi (o de’
principii del genere umano), in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di M. Fubini, cit., p. 88, vv.
3-4.