Sic volvenda aetas commutat tempora rerum.

mercoledì 13 novembre 2024

La ferrata necessità

 

 

 

Corso di Laurea magistrale in Lettere moderne (Classe LM –14)

La violenza del disinganno. Leopardi e Bruto contro la

«ferrata necessità»

 

 

 

Relatore: Prof. Guglielmo Barucci 

Correlatrice: Prof.ssa Laura Neri

 

 

 

Tesi di laurea di     Rebecca Fioravanti  Matr. 00092A  

  

 

Anno accademico 2023/2024 INTRODUZIONE..................................................... 2

I UN PASSAGGIO NECESSARIO. BRUTO E LEOPARDI........................................................... 6

1.  VERSO IL BRUTO MINORE............................................................................................ 6

1.1.  FONTI ANTICHE. DISEGNI LETTERARI E PADRI CLASSICI.......................................... 6

1.2.  TRE DIALOGHI PER LA VIRTÙ............................................................................... 13

1.3.  SPUNTI PERSONALI. IL RICHIAMO DELLA VIRTÙ NELLEPISTOLARIO.................... 27

2.  L’ALTER EGO DI GIACOMO......................................................................................... 35

2.1.  LEOPARDI E LA CRISI DEL ’19-’21: UN MOMENTO DI SVOLTA............................... 35

2.2.  L’AVO E IL NIPOTE. SOMIGLIANZE DI FAMIGLIA TRA LEOPARDI E BRUTO............. 46

II I SENTIMENTI DI BRUTO............................................................................................... 58

1.  LA SVENTURA ATAVICA DEGLI EROI............................................................................ 59

1.1.  BRUTO NON È UN EROE «AMABILE».................................................................... 59

1.2.  L’ECO EROICA DI ALFIERI.................................................................................... 75

2.  LE PASSIONI DI BRUTO............................................................................................... 88

2.1.  UN EFFERATO DISPREZZO.................................................................................... 88

2.2.  L’ALTO RISCHIO DELLAMOR PROPRIO: LEGOISMO............................................. 92

2.3.  IL TITANISMO DI BRUTO NEL RINNEGAMENTO DELL’OLIMPO............................ 102

2.4.  LA FINE DEGLI EROI: UN SUICIDIO ANTICO......................................................... 106

2.5.  BRUTO CONTRO LA «FERRATA NECESSITÀ»....................................................... 122

III IN LIMINE................................................................................................................. 134

1.  PASSAGGIO, ADEMPIMENTO. UNA «MUTAZIONE TOTALE»........................................ 134

2.  BRUTO E TEOFRASTO: «LULTIMA ETÀ DELLIMMAGINAZIONE».............................. 146

3.  VERSO LATARASSIA: EPITTETO E LA MORALE......................................................... 156

4.  L’ULTIMA VIRTÙ...................................................................................................... 166

APPENDICE UN MONDO NUOVO..................................................................................... 175

1.  LEOPARDI E HUXLEY?............................................................................................. 175

2. LA DISILLUSIONE PERMANENTE................................................................................ 191

BIBLIOGRAFIA................................................................................................................. 205

 

INDICE

INTRODUZIONE

 

Il presente lavoro consiste in una trattazione critico-analitica attorno alla tematica centrale dell’apostasia della virtù – e con essa, in generale, di tutte le illusioni e degli ideali di derivazione antica – intesa come momento di passaggio nella vita e nella poetica di Leopardi. A livello storico e ideologico, la caduta degli ideali si pone come contrassegno della fine dell’epoca antica (in cui erano ben vivi i sentimenti di virtù, gloria e amor di patria), e inizio della modernità, incancrenita e corrotta da un eccesso di ragione e barbarie sopravvenuto dopo la «strage delle illusioni». A simboleggiare questo particolare mutamento è stato scelto il personaggio di Bruto suicida (sia, e per la maggior parte, la figura storica che dà il titolo al Bruto minore, sia il Bruto della Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto vicini a morte), poiché emblema della sconfitta, del disinganno, del decadimento della morale e della morte degli ideali. Accanto alla sua figura, che domina l’intera analisi, si colloca proprio Leopardi stesso, non tanto in qualità di autore, ma in veste biografica, inquadrato negli anni della crisi che va dal 1819 al 1821, anno di composizione del Bruto. 

L’abiura della virtù rappresenta un mutamento che si espande su più punti di vista:

se per Bruto questo cambiamento è storico-politico, per Leopardi è invece poetico, ideologico, etico ed estetico; e mentre per il primo la disillusione consiste nel crollo definitivo della Repubblica romana, e si conclude con un suicidio compiuto come feroce atto di protesta, per il secondo l’attimo del disinganno ha coinciso con alcune cruciali esperienze private e politiche che lo hanno condotto a una ritrattazione delle sue opinioni attorno alla natura degli uomini e delle cose. In particolare, a segnare questa età di transizione sono stati, per Leopardi, il mancato tentativo di fuga da Recanati, stroncato dal padre nel 1819, e il fallimento dei moti risorgimentali che scuotevano i regni d’Italia nel biennio 1820-1821.

Di particolare supporto in questa ricerca sono state le pagine critiche di alcuni tra i più importanti studiosi di Leopardi, tra cui Andrea Campana, Ugo Dotti, Mario Fubini e Mario Andrea Rigoni, per quanto riguarda i commenti ai Canti; Fabiana Cacciapuoti, di cui è stata utilizzata l’edizione tematica dello Zibaldone; Bruno Biral, Pietro Citati e Rolando Damiani, che hanno fornito dettagli illuminanti e precisi sulla vita di Leopardi;

Umberto Bosco, Cesare Luporini e Marco Marcazzan, le cui analisi sono state fondamentali per redigere un’accurata interpretazione della filosofia leopardiana nonché per stilare il particolare accostamento tra Leopardi e Bruto. Nondimeno, i contributi di Giorgio Barberi Squarotti, Barbara Zandrino e Anna Dolfi sono stati indispensabili per l’approccio alla Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto vicini a morte e alla volgarizzazione del Manuale di Epitteto.

 Il capitolo I (Un passaggio necessario: Bruto e Leopardi) è un’introduzione che prepara il terreno alle tematiche salienti del Bruto minore. Si parte infatti da una breve rassegna delle fonti storico-letterarie utilizzate da Leopardi per costruire la figura di Bruto penitente, che, su testimonianza di Floro, in punto di morte avrebbe esclamato che la virtù non è cosa, ma nuda parola: «Sed quanto efficacior est fortuna quam virtus: et quam verum est quod moriens [Brutus] efflavit, “non in re, sed in verbo tantum, esse virtutem”» (Floro IV, 7). 

 Il tema del rinnegamento della virtù è stato presente nella prosa di Leopardi in realtà già dal 1820-1822, anni a cui risalgono i primi abbozzi di Operette morali, e nello specifico il Dialogo… Filosofo greco, Murco senatore romano, popolo romano, congiurati, il Dialogo Galantuomo e mondo e la Novella: Senofonte e Niccolò Machiavello. Non solo: il dramma psicologico della virtù era ben vivo nella sensibilità – prima ancora che nella poesia – di Leopardi. Ciò è evidente certo nello Zibaldone, ma soprattutto nelle lettere giovanili indirizzate a Pietro Giordani, in cui i primi accenni al decadimento della virtù e delle illusioni sono evidentissimi, nonché associati al fantasma di Bruto, che da qui alla lettera a De Sinner del 1832 si prefigura come indissolubile alter ego di Leopardi. Questo legame comprende numerose affinità (così come alcune differenze), che, sulla scorta delle pagine critiche di Bruno Biral e Marco Marcazzan, si delineano come delle vere e proprie somiglianze di famiglia, quasi come se Bruto fosse stato per il recanatese una sorta di storico avo.

 Nel corso del capitolo II (I sentimenti di Bruto) le tematiche analizzate seguono i sentimenti di Bruto: si va quindi dalla rievocazione di un eroismo classico di ascendenza alfieriana (evidente già nel puerile La morte di Ettore) al suo rovesciamento, rappresentato dall’anti-eroe Bruto; per poi giungere alla trattazione di passioni quali il disprezzo (presente anche nel più tardo Il pensiero dominante), ma soprattutto dell’amor proprio, nella misura in cui Bruto lo incarna nell’accezione di amor di sé, che sfocia nell’oscuro egoismo imperante nella società moderna e corrotta. E quello di Bruto è un amor di sé che, portato all’eccesso nel furore della protesta, sfocia nell’atto atroce del suicidio, sempre confrontato dalla critica con quello – più placido, più rassegnato – della poetessa greca nell’Ultimo canto di Saffo, contraltare di Bruto e corrispettivo femminile dello stesso Leopardi. 

 Il gesto di Bruto va però ben oltre l’atto in sé, poiché racchiude in una violenza estrema tutta la meditazione solipsistica scaturita da un animo afflitto, disilluso e reduce da una sconfitta secolare che vede tramontare qualsiasi speranza di ritorno degli antichi ideali. Nel suicidio di Bruto emergono indubbiamente l’odio infervorato contro sé stesso e l’Olimpo, ma soprattutto la lotta mancata contro il destino, che nel componimento prende il nome di «ferrata necessità». Questa riveste il ruolo non solo di fato, di contingenza estrema, ma anche di quella che negli anni diverrà l’iconica natura matrigna che si insinua nelle pieghe della vita di ciascuno: se Leopardi, dal canto suo, si era ritrovato a combattere la necessità una volta prigioniero tra le mura di casa Antici all’indomani della fuga e del fallimento dei moti risorgimentali, Bruto la incontra nella piana di Filippi. E se Leopardi nella sua disperazione non poteva in alcun modo conseguire il suicidio – a causa del dissidio interiore dettato dai deboli strascichi dell’educazione cattolica – ecco che scorge nel suo Bruto un pretesto catartico, trasferendo sul suo alter ego poetico la cupa rassegnazione di chi, di fronte all’«arido vero», abbandona la scia originaria delle illusioni e delle favole antiche. 

 È nel terzo capitolo (In limine) che attraverso la lettura di alcuni brani salienti dello Zibaldone si dispiega in maniera più approfondita il passaggio da poeta a filosofo, la «mutazione totale» che vede Leopardi abbracciare lo studio del vero per addentrarsi nell’analisi filosofico-sociale delle passioni umane. Dopo aver condotto un paragone tra il personaggio Bruto della canzone e quello – più silenzioso – della Comparazione, viene presa in esame l’opera del Leopardi più maturo, che, a differenza del suicida di Filippi, è diventato virtuoso nella pazienza, quasi avvicinandosi all’atarassia tipica degli stoici. Questo stato di tranquillità dell’animo è descritto dalle parole dello stesso Leopardi nel Preambolo del volgarizzatore al Manuale di Epitteto tradotto nel 1825, in cui si legge che «l’uomo non può nella sua vita per modo alcuno né conseguir la beatitudine né schivare una continua infelicità». Questa condizione di instabilità, di confine, insomma, tra uno stadio e un altro, riflette lo stato d’animo di Bruto che, uomo antico ma non ancora moderno, si ritrova sulla soglia tra due epoche, delimitando quella che Luporini ha definito una «zona “Bruto minore”».  

 Infine, si espone come il dramma della virtù venga riproposto da Leopardi in alcuni canti del suo ultimo lavoro, i Paralipomeni della Batracomiomachia, poemetto satirico elaborato a seguito dei disordini insorti durante i moti del ’30-’31 (e quindi: in una situazione storica simile a quella che ha favorito la composizione del Bruto) in cui la larva della virtù si riaccende nello spirito del generale Rubatocchi al sopraggiungere della sconfitta, ma che, di fronte alla «ferrata necessità», a differenza di Bruto sceglie di morire da eroe per amore e salvaguardia della patria. 

 Oltre ai tre capitoli finora presentati, a conclusione del lavoro si è deciso di aggiungere un’appendice (Un mondo nuovo) che propone un parallelismo tra Il mondo nuovo di Aldous Huxley, romanzo distopico del 1932, e la filosofia leopardiana, specialmente quella che trapela dai versi del Bruto minore. Infatti, insieme alla critica della società che, per certi aspetti, mostra degli elementi di comunanza tra i due autori – seppur nella diversità di intenti – ciò che si è ritenuto interessante riportare è un paragone tra due figure a loro modo penitenti della virtù: Bruto, dalla parte leopardiana, e il Selvaggio John, dalla parte huxleyana. Entrambi i personaggi, infatti, pongono drasticamente fine alla vita col suicidio dopo essere venuti a contatto con un “mondo nuovo” che non soddisfa le loro aspettative – e anzi provoca in loro la più amara delle disillusioni – proprio perché non rispecchia l’onestà degli ideali per cui fino a quel momento avevano con fierezza combattuto. Naturalmente, un simile raffronto si pone come tentativo di lettura dell’opera distopica di Huxley sulla scorta della filosofia leopardiana, poiché che non si hanno fonti certe sulla piena conoscenza dell’opera del recanatese da parte di Huxley. 

 

 

 

 

 

 

 

I UN PASSAGGIO NECESSARIO. BRUTO E LEOPARDI

 

1. VERSO IL BRUTO MINORE

 

1.1. FONTI ANTICHE. DISEGNI LETTERARI E PADRI CLASSICI

Che il disegno del Bruto minore[1] fosse germogliato nella mente di Leopardi già tempo prima del 1821 (data della sua effettiva composizione)[2] appare chiaro in primis da alcuni brevi appunti volti a trattare «di quella famosa esclamazione di Bruto vicino a morte […] e notando e compiangendo l’abiura da lui fatta della virtù»[3], assieme ad altre puntuali note che avrebbero idealmente costituito possibili Argomenti di un libro politico: 

 

Dello scopo degli antichi (il bello e non l’utile né il vero).

Della diversa disposizione degli antichi e de’ moderni rispetto alla necessità. Di quella famosa esclamazione di Bruto vicino a morte.

Delle cagioni de’ fatti eroici (V. Montesq. p. 34. Lin. 4.)

[…]  

Della barbarie

Dell’amore della virtù presso gli antichi […][4]. 

 

È evidente che questi titoli sono strutturati come se fossero un elenco di argomenti già pensati in precedenza (sicuramente, nello Zibaldone) [5] o destinati a un successivo approfondimento: Leopardi non poteva essere più lontano dal disordine, anzi dava ai suoi

 

progetti un’importanza tale per cui risultavano parte di un enorme e continuo lavoro quanto mai caotico, ma anzi «ragionato e dimostrato»[6].

Da una prima lettura di queste annotazioni emerge che Leopardi «distingueva tra l’atteggiamento attivo degli antichi e quello passivo dei moderni di fronte alla “necessità” o al “destino”. Ai primi, più combattivi, appartiene naturalmente il Bruto bestemmiatore della virtù»[7], il cui amaro verdetto (pronunciato in nome di una «stolta virtù», non più cosa ma nuda parola) offre lo spunto sia per la canzone che per la Comparazione delle sentenze di Bruto Minore e di Teofrasto vicini a morte, ed è prontamente copiato dal testo di Floro annotato nello Zibaldone: «Sed quanto efficacior est fortuna quam virtus: et quam verum est quod moriens (Brutus) efflavit, “non in re, sed in verbo tantum, esse virtutem”

FLORO IV, [8].

Si potrebbe poi notare, sulla scia proposta da Blasucci, che il titolo Bruto minore non vanta di spiccata originalità: al contrario, era consuetudine di Leopardi riprendere talvolta stilemi di opere classiche (specialmente, e per ovvi motivi, nelle traduzioni, come il Manuale di Epitteto, fino ad arrivare ai Paralipomeni della pseudo-omerica Batracomiomachia), proprio perché «il rapporto di Leopardi con i titoli fu generalmente meno inventivo, più allineato ai canoni della tradizione letteraria»[9]. E infatti, in questo caso, poco si discostava dal familiare Bruto secondo dell’Alfieri, anche se l’intento di Leopardi era piuttosto di riportare nella sua personalissima poesia un’usanza propria degli antichi, i quali «intitolavano spesso i loro libri assolutamente dal nome delle persone che v’erano introdotte a parlare»[10].

 

Acuta osservazione è appunto quella di Blasucci, che considera i titoli dei Canti come «una sorta di langue titolatoria, rispetto alla quale la parole fu costituita dai testi»[11], e aggiunge che «la distanza fra tradizionalità del titolo e innovatività del testo tende a presentarsi in parecchi casi con un carattere di marcata intenzionalità, tale da presupporre una vera e propria strategia d’autore»[12].

Non solo nel Bruto minore, ma anche nella Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto vicini a morte (che, composta nel 1822, fungeva da introduzione al Bruto nell’edizione bolognese delle Canzoni del 1824)[13], il recanatese si serve di fonti classiche, dal momento che sulla figura di Bruto – traditore politico per antonomasia – «incentra ogni riferimento biografico, rimandando alla pura citazione delle fonti e all’eventuale memoria del lettore, la complessità dell’eroe, capitano, politico, filosofo, oratore, interlocutore del dialogo Brutus, destinatario dell’Orator di Cicerone»[14], che però, al contrario della versione leopardiana, si mostra «grande e magnanimo, ponderato e tranquillo, capace di ogni sentimento di bellezza e di onestà, semplice e puro di vita, generoso della congiura, forte nel desiderare, amante delle belle discipline e della filosofia con cui modifica natura e ragione»[15].

Inoltre, opportunatamente menzionato da Barbara Zandrino è anche Plutarco, dal momento che «è l’impianto strutturale delle Vite parallele di Plutarco a costituire l’occasione e lo spunto, la genesi costitutiva dell’operetta» che, sottoforma di un paragone di estreme sentenze, mette in scena la caducità delle grandi illusioni e «l’adozione di un

 

Laelius, dove pur prima di tutto parla esso Cic. in persona propria), ma similmente altri libri, come Isocrate il Nicocle e l’Archidamo”».

atteggiamento fermamente virile»[16]. Ancor più esplicativo è ciò che intuisce Zandrino riguardo al 

 

raffronto tra la biografia di Dione e quella di Bruto, due eroi che compiono grandi imprese ispirati quasi dagli stessi principi (poiché uno è allievo di Platone, l’altro educato nelle dottrine platoniche) che rendono testimonianza della virtù provando come sia necessario che potenza e fortuna debbano andare congiunte con la prudenza e la giustizia perché le imprese politiche abbiano grandezza e bellezza e che muoiono di morte violenta, non avendo mai avuto pace nei contrasti della vita, senza veder compiuti i loro disegni (Dione, 1, 2-3; 2, 2)[17].

 

Considerate le massicce competenze filologiche e linguistiche raggiunte da Leopardi già in giovane età, nonché il suo altissimo livello di erudizione[18], non dovrebbe sorprendere che il suggerimento primo per la materia del Bruto minore sia da ricercarsi nelle fonti storiche della Roma antica: come infatti riportato da Andrea Campana nella sua nota introduttiva, «lo spunto principale di BM […] sta nella leggenda»[19] ed è riportato, del resto, proprio nelle prime righe della Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto vicini a morte, in cui è l’autore stesso a giustificare la scelta della materia trattata: 

 

Io non credo che si trovi in tutte le memorie dell’antichità voce più lagrimevole e spaventosa, e con tutto ciò, parlando umanamente, più vera di quella che Marco Bruto, poco innanzi alla morte, si racconta che profferisse in dispregio della virtù: la qual voce, secondo ch’è riportata da Cassio Dione, è questa. O virtù miserabile, eri una parola nuda, e io ti seguiva come tu fossi una cosa: ma tu sottostavi alla fortuna. […] laonde Pier Vettori dubita che Dione in questo particolare faccia da poeta più che da storico, si manifesta il contrario per la testimonianza di Floro, il quale afferma che Bruto vicino a morire proruppe esclamando che la virtù non fosse cosa ma parola[20].

 

Non di sole fonti storiche si è servito, naturalmente, Leopardi: a un soggetto così peculiare

– come il Bruto uccisore di Cesare – e così perfettamente inserito in preciso contesto

 

storico, è doveroso dedicare un incipit «significativamente modellato sul principio del libro III dell’Eneide»21, opera simbolo della latinità:

 

                            Poi che divelta, nella tracia polve

Giacque ruina immensa

L’italica virtute, onde alle valli

D’Esperia verde, e al tiberino lido,  

Il calpestio de’ barbari cavalli

Prepara il fato[21]

 

Nelle postille al testo Leopardi riporta pedissequamente, per chiarezza nei confronti del lettore, la fonte virgiliana da cui ha ricalcato la struttura dei tempi verbali, giustificando così i cambi repentini all’interno della stessa strofa[22]: 

 

Acciò che questa mutazione di Tempo non abbia a pregiudicare agli stomachi gentili de’ pedagoghi, la medicheremo con un pizzico d’autorità virgiliana. Postquam res Asiae, Priamique evertere gentem Immeritam VISUM Superis, CECIDITQUE superbum Ilium et omnis humo FUMAT neptunia Troia[23].

 

Inoltre, sapendo di aver volutamente modificato la geografia dello scenario tragico, sempre nelle postille Leopardi sottolinea di essersi concesso «la licenza, usata da parecchi scrittori antichi di attribuire alla Tracia la città e la battaglia di Filippi, che veramente furono nella Macedonia»[24]. Il motivo di questa scelta è da ricercarsi, probabilmente, nel

 

21 Cfr. note al testo di Ugo Dotti, in G. Leopardi, Canti, a cura di U. Dotti [1993], Milano, Feltrinelli, 2012, p. 254.

permanere di uno stile solenne, peregrino[25] e ricercato (e che si cuce perfettamente all’argomento e all’atmosfera del Bruto, personaggio della romanità) tipico del Leopardi erudito: il Bruto minore si inserisce infatti nel novero delle canzoni giovanili, che ancora risentono della lezione appresa dagli autori classici. 

Analogamente a quanto accadrà in seguito nella stesura della Storia del genere umano (nonostante si tratti di prosa) può essere d’aiuto il commento di Fubini, che riguardo all’operetta in questione precisa che talvolta «quella prosa ci appare stanca e accademica», e tuttavia anche nel caso del Bruto minore si può affermare che «ciò accade non già per le forme e i modi di espressione usati dallo scrittore, bensì perché quelle forme e quei modi sono adoperati più per abitudine che per necessità, e, con la loro dignità esteriore, tentano di nascondere la debolezza del pensiero e del sentimento»[26]. 

Seguendo poi il suggerimento di Giulio Di Fonzo, si può tentare di spiegare come l’utilizzo di tracia polve si debba alla «concretezza metaforica e veemente» che nel componimento «si misura anche nell’ordine dello spazio raffigurato»[27], oltre che nel tentativo di emulazione di stilemi tradizionali. Infatti, continua Di Fonzo, 

 

la stessa inconsistenza della virtù, che Bruto deluso colpisce, si oggettiva in un paesaggio corrispondente di “cave nebbie”, di campi abitati da larve e fantasmi. Il notturno sanguinoso lambito dal mare, come scena in primo piano, apre dietro di sé una vastissima spazialità che nella sola Ia strofe si muove come effetto di rapidità concitata e di concisione drammatica (esaltata da Leopardi nelle note del Novembre ’21 ed esemplificata su Orazio): dalla “tracia polve” all’“Esperia verde”, al “tiberino lido”, per salire alle zone nordiche dei barbari pronti a calcare su Roma[28]. 

 

Anche Blasucci ricorda che, oltre alla ripresa di un archetipo classico, il tono solenne dell’esordio (e, del resto, di quasi tutto il componimento) è volto alla «ricerca di quel “pellegrino”, additato dall’autore dello Zibaldone come un coefficiente primario della ‘poeticità’»[29], e sistematicamente propone altri esempi di aperture di Canti ricalcate sullo stesso costrutto, fra cui i versi che aprono Nelle nozze della sorella Paolina: 

 

                            Poi che del patrio nido

I silenzi lasciando, e le beate 

Larve e l’antico error, celeste dono,

Ch’abbella agli occhi tuoi quest’ermo lido,

Te nella polve della vita e il suono

Tragge il destin[30]

 

Riguardo l’influenza che lo studio dei classici ha esercitato sul recanatese, sempre Blasucci prende in analisi la traduzione leopardiana del secondo libro dell’Eneide, specificando che il suo saggio «non riguarda propriamente l’originalità della traduzione in se stessa, quanto la sua importanza sugli effetti del costituirsi del linguaggio poetico dei Canti», nel momento in cui «il valore di quella versione non consiste soltanto […] in una generica atmosfera stilistica, ma in una serie di precise e numericamente imponenti […] soluzioni espressive che il traduttore dell’Eneide propone al futuro poeta delle canzoni»[31].

Quale che fosse la fonte da lui utilizzata, e se si trattasse di storia o di mera leggenda, non è tuttavia il nodo fondamentale: ciò che slitta in primo piano è l’estremo fascino subito da Leopardi per la figura di Bruto – ma un Bruto penitente della virtù –, e la sottile quanto lampante somiglianza che avvertiva con lo storico avo, al punto da riservargli non solo una delle punte più alte di tutta la sua poesia, ma anche la Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto vicini a morte e puntuali riferimenti, spesso impliciti, nelle lettere e nello Zibaldone.  

 A fianco dell’emblematico tema della caduta della virtù (che, più avanti, verrà accorpato al pessimistico e più generale concetto di “crollo delle illusioni” e al vagheggiamento per una perduta comunione uomo-natura tipica dell’età primordiale), Leopardi si scaglia anche contro la filosofia entrata in vigore dai tempi dei romani in poi, considerata «come un sintomo della decadenza della civiltà antica, del suo allontanarsi dalla natura», e «si impegnò a dimostrare questa tesi specialmente per il mondo

 

con un Preludio di A. Prete [2019], Milano, Feltrinelli, 2020, pp. 674-675: «Il pellegrino delle voci o dei modi […] è fonte di eleganza in modo che se osserverete lo stile di Virgilio o di Orazio, modelli di eleganza a tutti i secoli, vedrete che l’eleganza loro principalissimam. e generalmente consiste nel pellegrino dei modi e delle voci, o delle loro applicazioni a quel tal uso, luogo, significazione, nel pellegrino delle metafore ec. […] E ciò è tanto vero, che se quella cosa pellegrina, p.e. quella voce, quella frase, metafora, diventa usuale e comune, non è più elegante […]. Per noi italiani è grandissima fonte di eleganza l’uso di voci o di modi latini, presi nuovamente da quella lingua, in modo che sieno pellegrini; ma non però eccessivi nè come pellegrini, cioè per la forma troppo strana ec. ec. nè come troppo frequenti latinismi».

romano»[32], come si evince ad esempio da questo passo dello Zibaldone risalente al luglio 1820:

 

Vedete che cosa avvenne ai Romani quando s’introdusse fra loro la filosofia e l’egoismo, in luogo del patriotismo. Il qual egoismo è così forte che dopo la morte di Cesare, quando parea naturalismo, che le antiche idee si risvegliassero ne’ romani, fa pietà vederli così torpidi, così indifferenti, così tartarughe, così marmorei[33] verso le cose pubbliche. E Cicerone nelle filippiche il cui grande scopo era di render utile la morte di Cesare, vedete se predica la ragione, e la filosofia, o non piuttosto le pure illusioni, e quelle gran verità che aveano creata e conservata la grandezza romana[34].

 

È evidente che qui Leopardi insiste anche sulla freddezza degli animi dei romani, e non nasconde lo sconforto nel vederli ormai spenti, egoisti e appunto marmorei; lo stesso, personalissimo aggettivo scandisce anche l’apatia degli dèi nel Bruto minore: «A voi, marmorei numi, / (Se numi avete in Flegetonte albergo / O su le nubi)»[35].

 

1.2. TRE DIALOGHI PER LA VIRTÙ  

Quello di Leopardi è un Bruto idealmente eletto fautore della libertà, ma che suo malgrado si ritrova perdente e sconfitto di fronte alla vittoria degli eredi di Cesare e al rischio di vedere il governo precedente tramutarsi in un dispotismo accuratamente celato. Gli ideali perseguiti dai nostalgici della Repubblica non esistono più, poiché «la virtù non è che un vuoto nome, [e perfino] la divinità, anziché premiare il virtuoso se ne fa beffa e ludibrio, [e] tutta l’esistenza storica dell’uomo non è che una vistosa insensatezza»[36]. Di fronte dunque alla constatazione che, con la disfatta dei cesaricidi, Roma avrebbe aperto le porte

 

a una direzione velatamente tirannica, così Leopardi rifletteva sulla caduta della libertà, dai tempi dei romani in poi, nel gennaio 1821: 

 

Il governo monarchico assoluto e dispotico, ossia giustamente e con verità, ossia che l’uomo odia naturalmente la servitù, e soffre di miglior animo i mali della cattiva e sregolata libertà; o che questo è il peccato, il flagello, il difetto, la sventura dominante del nostro secolo, e de’ passati, dall’estinzione, possiamo dire, della libertà Romana, in poi: per qualunque ragione, è considerato come il più imperfetto e barbaro e contrario al buon senso, alla retta ragione, alla natura, in somma per il peggiore di tutti i governi[37]. 

 

Questo specifico momento di passaggio dalla libertà Romana a un governo pseudomonarchico – e che sottende, però, il fulcro centrale del pensiero leopardiano, che vede nella fine dell’età antica la caduta di ogni dolce illusione, e l’avvento dell’arido vero e del disinganno all’entrata di un’epoca moderna predominata dalla ragione – è rappresentato proprio dalle conseguenze del cesaricidio. Prima di entrare nel vivo del Bruto minore, infatti, è interessante notare come lo spunto storico della congiura presenti proprio nell’agosto del ’20[38] lo sfondo ideale per «quel gioiello di prosa satirica»[39] che è Dialogo… Filosofo greco, Murco senatore romano, popolo romano, congiurati[40], ancora acerbo ma «celere, borioso» [41] e ambientato appunto «nella circostanza cruciale (l’assassinio di Cesare) in cui si spegne “l’ultima età dell’immaginazione” […] e si annuncia il tempo della filosofia»[42]. 

 Si tratta, invero, di un dialogo ritmato e incalzante, che incorpora alcune dottrine tipiche del Leopardi filosofo (e che infatti parimenti si ritrovano in alcuni pensieri dello Zibaldone, nella Comparazione e nel Frammento sul suicidio) ma che conserva anche, specialmente nella parte iniziale, il tipico «tuono ironico»[43] caratterizzante delle Operette morali: 

 

M. […] Il fatto sta che di Cesare in quanto Cesare non me ne importa un fico; e per conto mio lo potevano mettere in croce o squartare in cambio di pugnalarlo, ch’io me ne dava lo stesso pensiero. Ma mi rincresce assai che ho perduta ogni speranza di fortuna, perch’io non ho coraggio, e questi tali fanno fortuna della monarchia, ma nella libertà non contano un acca. E peggio è che mi resta una paura maledetta[44].

 

La dichiarazione di Murco e «il movimento di battute dialogiche rapidissime»[45] (che vagamente può ricalcare i serrati dialoghi dell’Alfieri tragico) lasciano presto spazio a ben più amare sentenze, dalle quali, come indicato dal Russo, «emerge da un lato il tramonto dei valori antichi nel tempo moderno, e la corrispondente apostasia contro la virtù; dall’altro l’immagine degli uomini che, non più tenuti desti dalle illusioni, si addormentano in seno alla filosofia»[46]:

 

M. Che m’importa di patria, di libertà ec. Non sono più quei tempi. Adesso ciascuno pensa ai fatti suoi […] Questo non è il secolo della virtù ma della verità. La virtù non solamente non si esercita più col fatto (levati pochi sciocchi), ma neanche si dimostra colle parole, perché nessuno ci crederebbe. Oh il mondo è cambiato assai. L’incivilimento ha fatto gran benefizi […].  

F. La filosofia non è altro che la scienza della viltà d’animo e di corpo, del badare a se stesso, procacciare i propri comodi in qualunque maniera, non curarsi degli altri, e burlarsi della virtù e di altre tali larve e immaginazioni degli uomini. La natura è gagliarda magnanima focosa […] Se tutto il mondo fosse filosofo, né libertà né grandezza d’animo né amor di patria né di gloria né forza di passioni né altre tali scempiezze non si troverebbero in nessun luogo. Oh filosofia filosofia! Verrà tempo che tutti i mortali usciti di tutti gl’inganni che tengono svegli e forti, cadranno svenuti e dormiranno perpetuamente fra le tue braccia […] Che bella cosa la nuda verità![47]

 

Da questi passaggi essenziali si evince che «il Filosofo greco è il teorizzatore di quella viltà – dovuta al prepotere della ragione e alla morte delle illusioni – di cui il senatore romano Murco è l’incarnazione»[48]. L’operetta, insomma, nel momento in cui «offre una sorta di ritratto della confusione seguita all’uccisione di Cesare alle Idi di marzo»50 mette in scena una crisi descritta quasi alla leggera, in modo frivolo, poiché concretizza l’iniziale intento del recanatese di trasporre in commedia temi da tragedia, scrivendo 

 

Dialoghi Satirici alla maniera di Luciano, ma tolti i personaggi e il ridicolo dai costumi presenti o moderni, e non tanto tra morti, giacché di Dialoghi de’ morti c’è giá molta abbondanza, quanto tra personaggi che si fingano vivi, ed anche volendo, fra animali; […] insomma piccole commedie, o Scene di Commedie[49].

 

Questo progetto rispondeva a «un’ottica di giovamento, di utilità generale che è sottesa all’ambizioso programma di Leopardi» – spiega Emilio Russo –, «ottica nella quale potranno riuscire dunque più efficaci le armi del “ridicolo”, piuttosto che quelle della passione o della filosofia»[50]. Per questo motivo, essa si rivela «una satira molto acuta, brillante, pungente di uomini vili e conformisti che, tolti al loro quieto vivere, si trovano improvvisamente a dover prendere posizioni su fatti così impegnativi e così impellenti»[51]. Nondimeno, nella misura in cui inaugura un impianto tematico che ritornerà anche nella maggior parte delle Operette morali, si dimostra «un testo più rilevante di quanto non appaia, per l’emergere di alcune formule che si distenderanno nelle operette più mature, per la denuncia della guerra tra gli uomini sullo sfondo dell’opposizione naturaragione»[52] e che, in questo caso, si serve di un quadro storico particolarmente presente in svariati componimenti del recanatese. 

 Tuttavia, ad emergere nel dialogo non è la figura di Bruto (tant’è vero che qui «i Romani appaiono insensibili al suo gesto eroico, profondamente corrotti dalla ragione»[53], e da una parte gridano «Viva la libertà» e dall’altra «Viva la dittatura»)[54], ma il fatto che il mondo sta cambiando, che non esistono più «la libertà, la patria, la virtù», poiché sono «parole da vigliacco»[55], non più cose, ma nude parole. E, soprattutto, che «l’atto eroico di Bruto non può ridestare un popolo così profondamente corrotto dalla ragione»[56].  

 

Forse la scelta dello scenario della battaglia di Filippi, e in particolare di quel preciso momento di passaggio dall’età repubblicana all’età imperiale – che costituì, senza dubbio, uno scarto rilevante tra le due fasi storico-politiche vissute dalla Città Eterna – si deve al fatto che «era questo un periodo in cui la fine della repubblica romana costituiva oggetto di appassionata meditazione per il giovane alfieriano, che già tendeva a dare, più dello stesso Alfieri, uno sbocco disperato al proprio libertarismo»[57].

Inutile tentare invano di raggiungere a ritroso quel tempo antico in cui libertà virtù e amor di patria pur contavano qualcosa (e anzi, non poco): ora, soltanto, «giacque ruina immensa / l’italica virtute»[58], un tempo radiosa, e lucente. Anche la più bella età deve compiere il suo corso, e «giunge per così dire sino al tempo della battaglia di Filippi quando l’eroe, pronunciando la sua solenne abiura della virtù, è come se decretasse la fine della repubblica romana intesa, come Leopardi stesso annota, come “istato libero”»[59]:

 

                                            Poi che divelta, nella tracia polve

Giacque ruina immensa

L’italica virtute, onde alle valli

D’Esperia verde, e al tiberino lido,  

Il calpestio de’ barbari cavalli

Prepara il fato, e dalle selve ignude

Cui l’Orsa algida preme,

A spezzar le romane inclite mura Chiama i gotici brandi[60]. 

 

Già dai primi versi emerge che l’antico gioiello nato dal frutto delle conquiste virtuose degli antenati di Bruto è raso al suolo: saranno i barbari ad impossessarsi della sua rara bellezza, che a stento ora riluce. 

Oltre al Dialogo… Filosofo greco, Murco senatore romano, popolo romano, congiurati si distingue, per continuità tematica, anche un’altra operetta del ’21 (non pubblicata e successivamente confluita in Appendice) in cui «la virtù è dichiarata inutile e dannosa»[61]: si tratta del Dialogo Galantuomo e mondo[62], il quale mostra che «il

 

moderno, come stortura e rovesciamento […] progredisce a partire da una scissione morale prodottasi subito dopo Bruto e Murco […] con l’avvento del cristianesimo»[63]. Infatti, così si descrive corrotto e snaturato il Mondo in persona che intrattiene il Galantuomo: 

 

Dunque sappi che quando io fui d’età fra maturo e vecchio, e lasciai la bottega e i cibi della natura per quelli della ragione, mi prese una malattia simile a quella che Dante ec. Perché la testa e le gambe mi si cominciarono a voltare in maniera che la faccia venne dove stava la nuca, e il ginocchio dove stava l’argaletto (parola falsa), sicché il davanti restò di dietro, e quello che tu vedi non è il petto né il ventre, ma la schiena e il sedere. E non posso più camminare altro che a ritroso, e quelli che gridano che il mondo è tutto il rovescio di quello che si dovrebbe, si maravigliano scioccamente. Allora bench’io guardassi e considerassi il mio cammino assai più di prima, siccome lo guardava di traverso, e in un modo pel quale io non era fatto, inciampava, cadeva, errava ad ogni passo. Così finalmente mi risolsi di mettermi a sedere, e non muovermi più[64].

 

La «malattia simile a quella che Dante» di cui soffre il Mondo è un chiaro riferimento all’immaginario infernale, e in particolare agli indovini reclusi nella quarta bolgia dell’ottavo cerchio. La dura legge del contrappasso punisce le anime dei fraudolenti attraverso una condanna che fa da monito all’onestà intellettuale: coloro che, come l’interlocutore dell’operetta, spinti dalla smania di indovinare anzitempo le sorti del mondo (battendo con la loro ragione Dio e le leggi della natura), hanno mostrato in vita eccessiva fretta e arroganza, si ritrovano con il collo inclinato all’indietro e la faccia retroversa, al punto che «’l pianto de li occhi / le natiche bagnava per lo fesso» (Inferno XX, vv. 23-24), e son costretti a camminare al contrario in una lenta processione: 

 

            e vidi gente per lo vallon tondo venir, tacendo e lagrimando, al passo che fanno le letane in questo mondo. Come ’l viso mi scese in lor più basso,  mirabilmente apparve esser travolto  ciascun tra ’l mento e ’l principio del casso,  ché da le reni era tornato ’l volto,  e in dietro venir li convenia, perché ’l veder dinanzi era lor tolto.  

(Inferno XX, vv. 7-15)

 

 

Gli indovini fecero uso sbagliato della ragione, volendone usufruire non tanto per ampliare le loro conoscenze o offrire aiuto in società, quanto per ergersi sopra le leggi del destino peccando di frode. Allo stesso modo, una volta che il Mondo dell’operetta cammina a ritroso, insomma si ritrova completamente al contrario di quello che fu un tempo (dacché l’eccesso di ragione ha paradossalmente instupidito gli uomini, e resi grezzi e incapaci di immaginare e di sentire), iniziano a vigere leggi strane e diverse, «cui il Galantuomo dovrà appunto adeguarsi, rinunciando alla propria natura virtuosa»[65].

E qui siamo allora al cuore dell’operetta, nel momento in cui l’autore annota che si potrebbe aggiungere «un discorso […] sopra l’inutilità anzi dannosità del vero merito e della virtù»[66]:

 

G. Adesso capisco perché la massima parte, anzi, si può dire, tutti quelli che da giovani avevano seguita la virtù ec. entrati al servizio di V.E. in poco tempo mutano registro, e diventano cime di scellerati e lane in chermisino. V.E. mi creda ch’io gl’imiterò in tutto e per tutto, e quanto per l’addietro sono stato fervido nella virtù e galantuomo, tanto per l’avanti sarò caldo nel vizio.

M. Se avrai filo di criterio. Io voglio che tu mi dica una cosa da galantuomo per l’ultima volta. A che ti ha giovato o giova agli uomini la virtù?

G. A non cavare un ragno da un buco. A fare che tutti vi mettano i piedi sulla pancia, e vi ridano sul viso e dietro le spalle. A essere infamato, vituperato, ingiuriato, perseguitato, schiaffeggiato, sputacchiato anche dalla feccia più schifosa, e dalla marmaglia più codarda che si possa immaginare[67].

 

Una volta interiorizzata la lezione del Mondo «sempre vittorioso, che convince facilmente il giovanetto che, a dir il vero, era già convinto che la virtù non cava un ragno dal buco»[68], il Galantuomo si ritrova a cambiare idea, e imbocca la strada per diventare un vero penitente della virtù. E svela finalmente, e solo da ultimo, il suo nome, «che riveli, almeno a chi sappia un po’ di greco, da quale terra proviene colui che ha tanta fretta di mettersi al servizio del Mondo»71:

 

G. […] Perché quelli che non hanno mai sperimentato il vivere onesto, non possono avere nella scelleraggine quella forza c’ha un povero disgraziato, il quale avendo fatto sempre bene agli uomini, e seguita la virtù sin dalla nascita, e amatala di tutto cuore, e trovatala sempre inutilissima e sempre dannosissima, alla fine si getta rabbiosamente nel vizio, con animo di vendicarsi degli uomini, della virtù e di se stesso. E vedendo che se avesse

 

voluto far bene agli uomini, tutti avrebbero congiurato a schiacciarlo, si determina di prevenirgli, e di schiacciargli esso in quanto possa.

M. Qual è il tuo nome, ch’io lo metta in lista insieme cogli altri?

G. Aretofilo Metanoeto al servizio di V.E. Aretofilo Metanoeto è quanto dire Virtuoso Penitente, cioè penitente della virtù, come diciamo peccator penitente colui che si pente nel vizio[69].

 

Quel «povero disgraziato» che, credendo di operare nel bene e «seguita la virtù sin dalla nascita», si è ritrovato immancabilmente a gettarsi nel vizio per vendicarsi di coloro che «avrebbero congiurato a schiacciarlo» è prefigurato già nel cap. XVIII del Principe (Quomodo fides a principibus sit servanda), in cui Machiavelli elenca le qualità che un buon principe deve incarnare per difendersi dagli attacchi di chiunque si appresti a ingannare colui che agisce in buona fede, e soprattutto per governare lo Stato secondo astuzia: 

 

Quanto sia laudabile in uno principe il mantenere la fede e vivere con integrità e non con astuzia, ciascuno lo intende; nondimanco si vede per experienza nelli nostri tempi quelli principi avere fatto gran cose, che della fede hanno tenuto poco conto e che hanno saputo con l’astuzia aggirare e cervelli delli uomini: et alla fine hanno superato quelli che si sono fondati in sulla realtà[70]. 

 

L’osservanza della fede da parte di un buon principe – e dunque, leopardianamente, della virtù – sarebbe solo fine a sé stessa, in quanto per poter governare gli uomini è necessario aggirare coloro che vivono ingannando gli onesti, e prevenire le loro mosse grazie all’astuzia della volpe e alla forza del leone:  

 

E se li uomini fussino tutti buoni, questo precepto non sare’ buono: ma perché sono tristi e non la observerebbono a te, tu etiam non l’hai ad observare a loro; né mai ad uno principe mancarono cagioni legittime di colorire la inobservanzia […] e quello che ha saputo meglio usare la volpe, è meglio capitato. Ma è necessario questa natura saperla bene colorire et essere gran simulatore e dissimulatore: e sono tanto semplici gli uomini, e tanto ubbidiscono alle necessità presenti, che colui che inganna troverà sempre chi si lascerà ingannare. […] E però bisogna che egli [il principe] abbia uno animo disposto a volgersi secondo che e venti della fortuna e la variazione delle cose gli comandano; e, come sopra dixi, non partirsi dal bene, potendo, ma sapere entrare nel male, necessitato[71].

 

 

Seguendo questa linea di pensiero si delinea allora, in fine di operetta, quel concetto di “eroicità nel vizio” che Leopardi riprenderà ancora più precisamente in un celebre passo dello Zibaldone del giugno 1822:

 

Alle ragioni da me recate in altri luoghi, per le quali il giovane per natura sensibile e magnanimo e virtuoso, coll’esperienza della vita diviene, e piú presto degli altri e piú costantemente e irrevocabilmente, e piú freddamente e duramente, e insomma piú eroicamente vizioso, aggiungi anche questa, che un giovane della detta natura e del detto abito deve, entrando nel mondo, sperimentare e piú presto e piú fortemente degli altri la scelleraggine degli uomini e il danno della virtú, e rendersi ben tosto piú certo di qualunque altro della necessità di esser malvagio e della inevitabile e somma infelicità ch’é destinata in questa vita e in questa società agli uomini di virtú vera. Perocché gli altri, non essendo virtuosi o non essendolo al par di lui, non isperimentano tanto né cosí presto la scelleraggine degli uomini, né l’odio e persecuzione loro per tutto ciò ch’é buono, né le sventure di quella virtú che non possiedono. […] In somma, il giovane di poca virtú non può concepire un odio cosí vivo verso gli uomini, né cosí presto, com’é obbligato a concepirlo il giovane d’animo nobile. Perché colui trova gli uomini e meno infiammati contro di se e meno capaci di nuocergli, e meno diversi da lui medesimo. Per lo che, non arrivando mai ad odiare fortemente gli uomini, e odiarli per massima nata e confermata e radicata immobilmente dall’esperienza, non arriva neppure cosí facilmente a quell’eroismo di malvagità fredda, sicura e consapevole di se stessa, ragionata, inesorabile, immedicabile ed eterna, a cui necessariamente dee giungere (e tosto) l’uomo d’ingegno al tempo stesso e di virtú naturale[72].

 

Di questo argomento complesso, e di tali sentimenti (su cui si ritornerà in seguito), Leopardi ha saputo dare espressione nella figura del penitente virtuoso, un giovane «di forte immaginazione e sentimento, che fu dapprima “eroico nella virtù”» e che «quando, per forza dell’esperienza, delle sventure, degli esempi, disingannato dalla virtù, arriva a lasciarla, non si arresta a un grado intermedio tra virtù e vizio, ma diviene “eroico nel vizio”»[73].

Si è ritenuto opportuno citare qualche passo del detto dialogo proprio perché è «nell’anno 1821 [che] il Leopardi inventò la figura del pentito, cioè di un personaggio che si dissocia da tutto il suo passato di galantuomo perché riconosce di aver avuta la testa piena di sciocche fantasie»77. 

 

Sempre agli stessi anni risale anche un’ulteriore prosetta satirica[74] che pone al centro un penitente virtuoso: Machiavelli, interlocutore prescelto per l’omonima Novella: Senofonte e Niccolò Machiavello (definita da Russo come «il più ambizioso e importante degli abbozzi di operette arrivati fino a noi)[75], nella quale il contrasto tra le illusioni dei classici e la sapienza dei moderni è ancora il motivo preponderante[76].

 Discorrendo della morale, e del modo in cui questa era stata inopportunamente considerata dai suoi predecessori nel mestiere di governare, Machiavello confessa di essere stato anche lui – come il Galantuomo – uno spasimante della virtù, e che proprio per questo «dopo aver conosciuto la realtà della vita e del mondo» [77] abbia voluto dimostrare quant’è importante «separarsi dalla responsabilità di quei retori che insegnano tutta una serie di virtù spegnendo le quali l’individuo si muove in modo errato, poiché la realtà è del tutto diversa»[78]. Un po’ come Bruto, dunque, anche Machiavelli si rivela un uomo «per quanto illuso o deluso, in fondo saggio e pienamente consapevole di sé»[79], e si riconosce nel pentimento scagionando l’inutilità della virtù, che ad altro non serve se non a sorreggere un mondo contraffatto «secondo i precetti di quella che si chiama morale»[80]: 

 

Domando io: è vero o non è vero che la virtù è il patrimonio dei coglioni: che il giovane più bennato, e beneducato che sia, pur ch’abbia un tantino d’ingegno, è obbligato poco dopo entrato nel mondo, (se vuol far qualche cosa, e vivere) a rinunziare a quella virtù ch’avea pur sempre amata: che questo accade sempre e inevitabilissimamente85.

 

Tutto il discorso di Machiavello si svolge, analogamente al soliloquio notturno del Bruto, nell’intento di una rivalsa personale: se però, da un lato, Bruto penitente è tutto incentrato

 

su sé stesso, e rinnega non solo la virtù, ma anche gli dèi e il fato avversi (come per accusarli della sua personale disfatta), e soprattutto maledice il suo fallace impegno nell’aver perseguito un progetto di governo irrealizzabile, dall’altro affiora un Machiavelli pienamente filantropo, deciso insomma a insegnare come si debba redigere un buon governo, proprio partendo dal rinnegamento degli antichi valori[81]: 

 

Sappi ch’io per natura, e da giovane più di molti altri, e poi anche sempre nell’ultimo fondo dell’anima mia, fui virtuoso […]. Né da giovane ricusai, anzi cercai l’occasione di mettere in pratica questi miei sentimenti, come ti mostrano le azioni da me fatte contro la tirannide, in pro della patria […]. Ma come uomo d’ingegno, non tardai a far profitto dell’esperienza, ed avendo conosciuto la vera natura della società e de’ tempi miei (che saranno stati diversi dai vostri), non feci come quei stolti che pretendono colle opere e coi detti loro di rinnuovare il mondo, che fu sempre impossibile, ma quel ch’era possibile, rinnovai me stesso. E quanto maggiore era stato l’amor mio per la virtù, e quindi quanto maggiori le persecuzioni, i danni e le sventure ch’io ne dovetti soffrire, tanto più salda e fredda ed eterna fu la mia apostasia. E tanto più eroicamente mi risolvetti di far guerra agli uomini senza né tregua né quartiere (dove fossero vinti), quanto meglio per esperienza m’accorsi ch’essi non l’avrebbero dato a me, s’io fossi durato nell’istituto di prima[82].

 

Similmente a quanto era accaduto già nel Dialogo Galantuomo e Mondo, anche in questo caso Leopardi si serve delle parole di Machiavelli – che ben si sposano a un dialogo che lo vede protagonista – e precisamente del contenuto del cap. XV del Principe (De his rebus quibus homines et presertim principes laudantur aut vituperantur), in cui si introduce la differenza tra la realtà delle cose e il vivere secondo morale: 

 

E molti si sono immaginati repubbliche e principati che non si sono mai visti né conosciuti in vero essere. Perché gli è tanto discosto da come si vive a come si dovrebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa, per quello che si dovrebbe fare, impara più presto la ruina che la perseverazione sua: perché uno uomo che voglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene che ruini infra tanti che non sono buoni. Onde è necessario, volendosi uno principe mantenere, imparare a poter essere non buono et usarlo e non usarlo secondo la necessità[83]. 

 

 

A seconda delle contingenze, dunque, un buon principe deve saper giostrare le sue abilità, e essere in grado di agire non tanto secondo precetti appresi in maniera teorica, quanto basandosi sulla propria esperienza, formatasi anche e soprattutto sull’osservazione dei comportamenti umani. E dunque, come il Machiavello leopardiano, il principe deve rinnegare i valori morali quando questi non siano funzionali a redigere un buon governo, evitando così di cadere in «quegli vizi che gli torrebbono lo stato», accogliendo invece quelli utili a salvaguardarlo: 

 

è necessario essere tanto prudente che sappi fuggire la infamia di quegli vizii che gli torrebbono lo stato; e da quegli che non gliene tolgano guardarsi, se gli è possibile: ma non possendo, vi si può con meno respecto lasciare andare. Et etiam non si curi di incorrere nella infamia di quelli vizii, sanza e quali possa difficilmente salvare lo stato; perché, se si considera bene tutto, si troverrà qualche cosa che parrà virtù, e seguendola sare’ la ruina sua: e qualcuna altra che parrà vizio, e seguendola ne nasce la sicurtà et il bene essere suo[84]. 

 

Anche per Machiavelli autore, quindi, chiunque segua «qualche cosa che parrà virtù» cade facilmente in rovina: è necessario allora fare buon uso di quei vizi utili a donare stabilità e benessere dello Stato. 

Come fa notare Marcazzan, il Machiavello di Leopardi è indubbiamente dipinto in veste di pedagogo intento a instillare nei suoi allievi il seme di una nuova morale; e però questa pedagogia, nel proposito di insegnare l’arte del vivere (ed essendo dunque diametralmente opposta al testamento di Bruto) certo «non risolve in sé lo spirito del Bruto, ma […] neppure si dissolve in esso»[85].

Così, la differenza sostanziale tra l’apostasia di Bruto e quella di Machiavelli sta nella scelta: dove l’uno è ferocemente deciso a far guerra contro sé stesso e il fato, e si uccide, l’altro antepone al suo sentimento di delusione l’amore per la verità, e dunque l’insegnamento verso i posteri: «e promettendo loro di ammaestrarli, non li feci più rozzi e stolti di prima, non insegnai loro cose che poi dovessero disimparare […] spiegai loro distintamente e chiaramente l’arte vera ed utile»[86]. E allora Machiavelli – fermo sì come Bruto, ma mosso dalla devozione al vero e al sapere – si dimostra «paradossalmente, non

 

un misantropo, ma un amico degli uomini in quanto li aveva stimolati a conoscere la verità e a comportarsi di conseguenza»[87]:

 

istituendo [gli uomini] non quanto al fatto, ma quanto all’osservazione de’ fatti, ch’è proprio debito del filosofo […]. Così che il Misantropo ch’io era, feci un’opera più utile agli uomini (chi voglia ben considerare) di quante mai n’abbia prodotte la più squisita filantropia, o qualunque altra qualità umana, come io mi rimetto all’esperienza di chiunque saprà mettere, o avrà mai saputo mettere in opera l’istruzione ricevuta dal mio libro[88].    

Dove Bruto non arriva, arriva Machiavello, e si fa filosofo: conosce il mondo antico, lo vede, lo disconosce; ma ricomincia. Trova, nella disillusione, il punto di partenza per predicare l’insegnamento del vero ed utile. Tuttavia, «anche il suo sapere, analogamente a quello del Galantuomo e di Teofrasto “vicino a morte”, proviene da un “rinnegamento degli antichi principi umani e virtuosi”»[89], per cui è inevitabile che anche la tenace apostasia di Machiavello sia mossa da una contingenza nondimeno vincolante. Perciò, così conclude il suo discorso: «che non ostante il mio rinnegamento degli antichi principii umani e virtuosi, fui costretto a conservare perpetuamente una non so se affezione o inclinazione e simpatia interna verso di loro»95. 

 Attraverso la rivalutazione dell’errore – il vivere secondo precetti teorici – Machiavelli esprime il proprio pensiero sulla virtù, tanto è vero che «l’intensa partecipazione a livello personale a ciò che viene esposto si evidenzia anche negli accenti vibranti di una prosa personalmente sentita», voce dell’abilità di Machiavello-Leopardi di «oggettivare il proprio pensiero ed esprimerlo tanto come assioma impersonale, quanto

 

come profonda convinzione personalissima»[90]. Questa novella incarna infatti, alla stregua del Bruto minore, la filosofia di Leopardi (di cui Machiavelli si fa portavoce) anticipando una serie di alter ego dell’autore che prenderanno la parola nelle successive Operette morali, quali l’Ottonieri nei Detti memorabili di Filippo Ottonieri o Amelio filosofo solitario nell’Elogio degli uccelli. Queste figure-specchio del poeta mirano al «perseguimento del vero e del reale, delle cose come sono in sé» – proposito che dopo il ’19 diventa «uno dei moti vitali dell’animo di Leopardi, come uno dei motivi della ricerca e del pensiero di Machiavelli»[91].

Con questa prima introduzione si è voluto dare uno sguardo a quelle opere, coeve al Bruto minore, che per parità di contesto (la fine della Repubblica) e di argomento (l’apostasia della virtù, il rinnegamento degli ideali, il sopravvento del vero e il perfezionamento dell’uomo da un primitivo stadio di ingenuità verso uno di saggezza filosofica) si considerano affini, preparatorie al e gemelle del componimento in questione. Di fatto, è specialmente dal Dialogo Galantuomo e Mondo e dalla Novella: Senofonte e Niccolò Machiavello – le quali, presentando «la morale come l’arte del non vivere, e la virtù come materia di pentimento in luogo della colpa» – che si nota quanto «il raccordo col tema del Bruto è evidente, come è evidente il raccordo colle penose, esasperate confessioni del 1819»[92].

Ora, come già si è accennato, l’intento di Leopardi non era certamente quello di delineare l’ennesima biografia di uno degli antagonisti più emblematici nella storia della Roma pre-imperiale, né tantomeno quello di dedicargli un titolo encomiastico: non doveva essere, insomma, un Bruto già visto, ma «razionalista e illuminista […], attore della negazione pura e intrepido sacerdote di riti intellettuali avvelenati da un’amara

 

coscienza di peccato». Quello che stava per plasmarsi era un Bruto già al di là del cesaricidio, sconosciuto, nascosto, «quasi larva insinuatasi surrettiziamente»[93].

In altre parole, ciò che a Leopardi premeva di ingrandire sotto la lente era l’inutilità della «stolta virtù», il rimpianto che Bruto nutriva verso quegli ideali repubblicani ormai inevitabilmente caduti, e la sua bestemmia contro «il destino invitto» e i «marmorei numi»[94]. 

 

1.3. SPUNTI PERSONALI. IL RICHIAMO DELLA VIRTÙ NELLEPISTOLARIO

Secondo quanto riportato da Leopardi circa il suo modo di comporre poesie [95] , e considerando ciò che lui stesso riporta in diversi passi dello Zibaldone e dell’Epistolario, il Bruto risulta frutto di un progetto che per lungo tempo ha tenuto occupato il suo autore in maniera visceralmente necessaria. 

Già nelle prime pagine dello Zibaldone il decadimento della Roma repubblicana è oggetto di un appassionato appunto in cui Leopardi chiama in causa Cicerone affinché si dispieghi in maniera il più possibile limpida – ma infervorata – che le magnanime illusioni erano ormai svanite con la Repubblica e il «beato tempo»[96]:

 

Cicerone era il predicatore delle illusioni. Vedete le Filippiche principalmente, ma poi tutte le altre orazioni sue politiche: sempre sta in persuadere i Romani a operare illusamente: sempre l’esempio de’ maggiori, la gloria, la libertà, la patria: meglio la morte che il servizio: che vergogna è questa? Antonio, un tiranno di questa razza, ancora vive ec. E intanto Antonio, che sarebbe stato pugnalato nel foro o nella curia in altri tempi, tiranno vergognosissimo, non si poteva ottenere in Roma, essendoci tante armate contro di lui, tanto motivo di sperare che sarebbe vinto che fosse dichiarato nemico della patria: calcolavano, cercavano ec. quello che in altri tempi senza un istante di deliberazione sarebbe stato deciso a pieni voti. Cicerone predicava indarno: non c’erano piú le illusioni d’una volta, era venuta la ragione, non importava un fico la patria, la gloria, il vantaggio degli altri, dei posteri ec.: eran fatti egoisti, pesavano il proprio utile, consideravano quello che in un caso poteva succedere: non piú ardore, non impeto, non grandezza d’animo: l’esempio de’ maggiori era una frivolezza in quei tempi tanto diversi. Così

 

perderono la libertà, non si arrivò a conservare e difendere quello che pur Bruto per un avanzo d’illusioni aveva fatto, vennero gl’imperatori, crebbe la lussuria e l’ignavia; e poco dopo con tanto più filosofia, libri, scienza, esperienza, storia, erano barbari. E la ragione, facendo naturalmente amici dell’utile proprio e togliendo le illusioni che ci legano gli uni agli altri, scioglie assolutamente la società e inferocisce le persone103.

 

A ribadire l’importanza della virtù, qualche anno dopo – e all’altezza del Bruto minore – sempre nello Zibaldone Leopardi afferma che «la virtù, come predica Cic. de amicitia, è il fondamento dell’amicizia, né può essere amicizia senza virtù, perché la virtù non è altro che il contrario dell’egoismo, principale ostacolo all’amicizia ec. ec. ec. (17. Sett. 1821)»104. Nonostante la precisione e la raffinatezza delle sue riflessioni, è tuttavia risaputo che Leopardi era spesso antinomico e cambiava opinione nel tempo, e non a caso era stato già Solmi a parlare dello Zibaldone come di un «pensiero in movimento»[97]: perciò, se da una parte la virtù è elogiata in qualità di elemento fondante dell’amicizia, dall’altra viene prontamente disprezzata in quanto inutile, «stolta» e «patrimonio dei coglioni» (questo è, naturalmente, solo un esempio della malleabilità del pensiero di Leopardi, che, per riprendere le parole di Solmi, è sempre stato suscettibile di variazioni e soggetto a «delineare, attraverso il costante rimuginio delle sue lucide proposizioni ed analisi, una contraddizione per esso irresolubile sul piano logico»)[98].

 Eppure, di fronte ai repentini cambi di idea che rendono la Weltanschauung leopardiana un continuo negarsi e correggersi, una cosa apparentemente rimane uguale: i sentimenti eroici di Giacomo verso il destino. Sembra anomalo, comunque, che a distanza

 

103 Z I, 107 in G. Leopardi, Zibaldone scelto, in G. Leopardi, Opere vol. III, cit., pp. 25-26. Corsivi miei. Si veda anche, per continuità di argomento, (Z II, 2, 2) in ivi, p. 224: «Le Filippiche di Cicerone contengono l’ultima voce romana, sono l’ultimo monumento della libertà antica, le ultime carte dov’ella sia difesa e predicata apertamente e senza sospetto ai contemporanei. D’allora in poi la libertà non fu più l’oggetto di culto pubblico, né delle lodi e insinuazioni degli scrittori […]. Quelli che vennero dopo la celebrarono nel passato come un bene, la biasimarono e detestarono nel presente come un male. I suoi fautori antichi furono esaltati nelle storie, nelle orazioni, nei versi come eroi: i moderni biasimati ed esecrati come traditori». 104 Z 1724, 1 in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova edizione tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., p. 62.

di dieci anni dal componimento Leopardi abbia mantenuto la medesima posizione attorno a questo tema[99]. È del 1832, infatti, la celebre «apologia della propria filosofia»[100] nella lettera in risposta a De Sinner, considerabile come una sorta di testamento dell’autore:

 

Quels que soient mes malheurs, qu’on a jugé à propos d’étaler et que peut-être on a un peu exagérés dans ce Journal, j’ai eu assez de courage pour ne pas chercher à en diminuer le poids ni par de frivoles espérances d’une prétendue félicité future et inconnue, ni par une lâche résignation. Mes sentiments envers la destinée ont été et sont toujours ceux que j’ai exprimés dans Bruto minore109.

 

Si tenga conto, però, di una precisazione essenziale, e cioè che il dramma di Bruto non è solo personale, ma collettivo e storico. Pertanto, l’interesse di Leopardi è anche di natura storica, quasi analitica, volto ad indagare i motivi e le dinamiche che hanno portato la fine di un’epoca di virtù, gloria e amor di patria che inevitabilmente crollano. E dunque, come già accennato, non si tratta tanto di voler approfondire la figura di Bruto cesaricida, «visto non nel momento della disfatta e della disperazione, ma in quello eroico del tirannicidio»[101], quanto di ergerlo a exemplum di uomo penitente della virtù ormai caduto in disgrazia, disingannato e disilluso quale era Leopardi nel pieno della gioventù. Nel Bruto minore, infatti, «l’orizzonte si allarga […] per proiettare dall’interno di un personaggio dell’antichità classica […] il senso di una situazione esistenziale» [102] : esprimere quel sentimento che lo affliggeva nel momento rivelatorio della caduta della virtù – quale illusione magnanima che alimenta il desiderio di conseguire un ideale – è per Leopardi una questione urgente. E le questioni urgenti, da quelle strettamente personali confessate a Giordani o alla sorella, ai motivi di carattere prettamente editoriale,

 

sono tutte contenute nell’Epistolario (che, contrariamente a quanto riteneva Croce, è una fonte più che mai illuminante del pensiero leopardiano)[103] e che incarna una lampante «urgenza comunicativa, cioè, come rottura di un isolamento, come anelito a un dialogo vivo e con i vivi, proiettato in un altrove concreto e raggiungibile, dopo lunghi colloqui muti, e a senso unico, con i libri»[104]. Di fatto, l’emblema della virtù emerge fin da subito (dal 1817!), quando gli intensi desideri giovanili ancora non erano accostati a una conseguente condizione di infelicità, e anzi Leopardi mostrava di avere un «grandissimo, forse smoderato e insolente desiderio di gloria»[105]: 

 

Quando un giovane, Carissimo mio, dice d’essere infelice, d’ordinario si immaginano certe cose che io non vorrei che s’immaginassero di me, singolarissimamente dal mio amico Giordani, per il quale io vorrei essere virtuoso quando bene non ci avesse altro spettatore né alcun premio della virtù. Però vi voglio dire che, benché desideri molte cose, e anche ardentemente, com’è naturale ai giovani, nessun desiderio mi ha fatto mai né mi può fare infelice, né anche quello della gloria, perché credo che certissimamente io mi riderei dell’infamia, quando non l’avessi meritata, come già da qualche tempo ho cominciato a disprezzare il disprezzo altrui, il quale non crediate che mi possa mancare[106].

 

Ma le cose presto cambiano. Nel giro di un anno, Leopardi si rende conto di non essere altro che «un giovane senza scopi e gloria»[107]: nella sua personale visione del mondo, la virtù cangia aspetto, e come quella spasimata (e poi negata) da Bruto, è solo una nuda parola: «chicchessia è costretto a desiderare che la virtù non sia senza qualche ornamento esteriore, e trovandonela nuda affatto, s’attrista, e per forza di natura che nessuna sapienza

 

può vincere, quasi non ha coraggio d’amare quel virtuoso in cui niente è bello fuorché l’anima»117. 

Siamo vicinissimi al Bruto. Non a caso, Leopardi tendeva a confessare i suoi più reconditi sentimenti alla persona a lui più cara, la cui amicizia era, sebbene in forma diversa, tenace quanto quella degli antichi[108]. Il carteggio con Pietro Giordani racchiude alcune tra le punte espressive più alte della singolare sensibilità del recanatese verso le cose (tra cui, appunto, la virtù), nonostante «molti pensano che Leopardi esagerasse: certo esagerava, ma aveva bisogno, almeno in questo periodo, di eccesso, di furore, di follia»[109]. E sono soprattutto le lettere giovanili a custodire la radice della filosofia leopardiana, mano a mano affinata e perfezionata nello Zibaldone[110]. Sia da esempio questa celebre lettera giovanile, dalla quale risalta «l’evidentissima analogia tra la generale situazione leopardiana e quella del protagonista del canto – la certezza che nulla al mondo ha valore, neppure la virtù»[111]:

 

[…] i libri, particolarmente i vostri, mi scorano insegnandomi che la bellezza appena è mai che si trovi insieme colla virtù, non ostante che sembri compagna e sorella. Il che mi fa spasimare e disperare. Ma questa medesima virtù quante volte io sono quasi strascinato di malissimo grado a bestemmiare con Bruto moribondo. Infelice, che per quel detto si rivolge in dubbio la sua virtù, quand’io veggo per esperienza e mi persuado che sia la prova più forte che ne potesse dar egli, e noi recare in favor suo[112]. 

 

È chiaro che già da almeno un paio d’anni Leopardi aveva in mente la figura di Bruto bestemmiatore, poiché «l’abiura di Bruto serpeggia nel suo animo e lo sommuove: da

 

117 Lettera A Pietro Giordani, Milano (Recanati 2 Marzo 1818), in G. Leopardi, La vita e le lettere, cit., pp. 78-79. 

tempo egli stesso conosce il gusto amaro della virtù inutile»123. Sempre all’altezza del ’19 (primo anno di profonda crisi, anche a causa dell’aggravarsi di una malattia ai nervi oculari che tenne pressoché fermo Leopardi nei suoi studi per lunghi mesi)124 risale l’appassionata lettera a Saverio Broglio d’Ajano, in cui «l’identificazione con Bruto moribondo è sconcertante»[113]: 

 

Io sono stato sempre spasimato della virtù: quello ch’io volea eseguire non era delitto: ma io son capace anche della colpa. Si vergognino ch’io possa dire che la virtù m’è stata sempre inutile. Il calore e la forza dei miei sentimenti si poteano diriggere a bene, ma se vorranno rivolgergli a male, l’otterranno […]. Non fo gran conto di me: pur mi parrà sempre formidabile chi avendo amata la virtù da che nacque, si consegna disperatamente alla colpa[114].

 

La lettera a Broglio d’Ajano, le cui parole sembrano «sfuggite […] a un’anima in tempesta» [115] , si inserisce in un contesto di estrema difficoltà per Leopardi appena ventunenne, che veramente sentiva una spinta verso l’esterno (dettata, in primo luogo, dalla fatica di convivere nella casa paterna)[116] e desiderava incanalare una progressiva via di fuga, dacché avvertiva una sempre più forte e amara consapevolezza che «questo mondo è un nulla, e tutto il bene consiste nelle care illusioni»[117]. Giacomo era fermamente disposto a rinnegare la stessa virtù un tempo spasimata per ricercare quella disposizione d’animo che tempo dopo avrebbe definito eroicità nel vizio. All’altezza del ’19 è ormai

 

123  B. Biral, op. cit., p. 84.

124  Lettere A Pietro Giordani, Vicenza (Recanati 4 Giugno 1819): «Domandi notizia de’ miei studi: ma sono due mesi ch’io non studio, né leggo più niente, per malattia d’occhi» e A Pietro Giordani, Vicenza (Recanati 21 Giugno 1819), entrambe in G. Leopardi, La vita e le lettere, cit., pp. 114-115: «Da Marzo in qua mi perseguita un’ostinatissima debolezza de’nervi oculari, che m’impedisce non solamente ogni lettura, ma anche ogni contenzione di mente». In ivi, p. 148, un’altra lettera A Pietro Giordani, Piacenza (Recanati 20 Marzo 1820): «Da gran tempo non penso né scrivo né leggo cosa veruna, per l’ostinata imbecillità de’ nervi degli occhi e della testa […] son diventato inetto a chicchessia, mi disprezzo, mi odierei m’aborrirei se avessi forza; ma l’odio è una passione, e io non provo più passioni».

avvenuta la conversione letteraria che «rappresentò anche il primo contatto non più meramente erudito, ma appassionato e impegnato, con l’antichità»130. 

Inizia a emergere ora, dopo anni di studio incentrati sulla mera acquisizione passiva di nozioni letterarie, storiche e linguistiche131, il vero carattere di Leopardi, «ardentissimo e disperato»[118], che si scaglia contro «i persecutori della giovinezza e delle giuste passioni di questa età»[119] e stabilisce una «recisa affermazione di essere lui, Giacomo Leopardi, questo “mite” giovane ventunenne, capace anche della colpa»[120].  Ma se è capace della colpa, allora è capace anche di vendetta: si tratta, invero, di un desiderio quanto mai raggiungibile, ma sempre tenuto vivo e presente nell’animo come – e soprattutto – nelle opere. E non si esime infatti dall’anticipare all’amico Pietro Giordani, nel 1820, ciò che lo spingeva a iniziare un nuovo progetto: «In questi giorni, quasi per vendicarmi del mondo, e quasi anche della virtù, ho immaginato e abbozzato certe prosette satiriche»[121]. L’apostasia di Bruto è ancora lontana dalle Operette morali del ’24, ma è ben chiaro l’intento (un po’ serio, un po’ ironico) di proseguire un impegno morale, di analizzare fino in fondo quel concetto di virtù – o meglio, di apostasia della virtù – che costantemente lo attanagliava e che sarebbe divenuto nel tempo, modificandosi ed evolvendosi, uno dei nodi cruciali della sua filosofia. 

 Non lontano dal dicembre 1821 (e dunque appresso alla manifestazione poetica dell’abiura di Bruto), Leopardi scrive: 

 

130  S. Timpanaro, op. cit., p. 190.

131  Lettera A Pietro Giordani, Milano (Recanati 2 Marzo 1818): «Perché in somma io mi sono rovinato con sette anni di studio matto e disperatissimo in quel tempo che mi s’andava formando e mi si doveva assodare la complessione», in G. Leopardi, La vita e le lettere, cit., p. 78. Si veda anche la lettera A Pietro Brighenti, Bologna (Recanati 21 Aprile 1820), in ivi, pp. 152-153: «Dai 10 ai 21 anni io mi sono ristretto meco stesso a meditare e scrivere e studiare i libri e le cose. Non solamente non ho mai chiesto un’ora di sollievo, ma gli stessi studi miei non ho domandato né ottenuto mai che avessero altro aiuto che la mia pazienza e il mio proprio travaglio».

Era un tempo ch’io mi fidava della virtù, e dispregiava la fortuna: ora dopo lunghissima battaglia son domo, e disteso per terra, perché mi trovo in termine che se molti sapienti hanno conosciuto la tristezza e vanità delle cose, io, come parecchi altri, ho conosciuto anche la tristezza e la vanità della sapienza[122].

 

Ma il Bruto non è che un inizio. Sempre tenendo fede all’Epistolario, la riprova forse più lampante del sentimento di disillusione raggiunto (e mantenuto) da Leopardi è offerto dalla celebre lettera a Jacopssen del ‘23: «Je conviendrai, si l’on veut, que la vertu, comme tout ce qui est beau et tout ce qui est grand, ne soit qu’une illusion».[123] Ciò significa che è proprio questo il momento in cui il giovane recanatese sta mettendo da parte la sua piena fiducia nei confronti dell’uomo (e della naturale predisposizione a vivere secondo sentimento), e comincia a intuire lo scorcio di un pessimismo ancora in erba che vede «l’allontanamento dall’antico come una progressiva e inarrestabile decadenza»[124]. In sostanza, il Bruto minore costituirebbe un punto di svolta tra il sogno delle illusioni giovanili e una presa di consapevolezza moderna e pessimistica, incastrandosi a metà tra un passato edenico e sterili tempi che precipitano in peggio139, poiché l’età dell’oro è ormai tramontata e giace come dipinta in un’antichità cara e lontana. E pure Leopardi si accorge che «tutto [è] falso in questo mondo, anche la virtù»[125].  

 Questo breve excursus attorno all’Epistolario mira a dimostrare quanto gli argomenti espressi nel Bruto minore siano, forse più che in altri Canti, peculiarmente vicini a Leopardi (soprattutto, Leopardi giovane) proprio perché il componimento esprime quel momento di svolta necessaria situato alla fine di un’epoca storica. Se, per Bruto, quest’epoca era la compianta Roma repubblicana, per Leopardi coincideva con la violenta caduta del velo di Maya, accompagnata dal disinganno e dalla scoperta dell’arido vero: di fatto, «Bruto dimostra una crisi delle illusioni del tutto analoga a quella

 

sperimentata da Leopardi sul fronte esistenziale ed estetico: come lui, è colto e raffigurato nella meditazione sul suicidio liberatorio»[126].

Sicuramente, l’episodio del Bruto si situa nel limine tra due fasi ben distinte, e Leopardi non poteva servirsi di una figura storica più rappresentativa per dare voce a quella che era la sua estenuante condizione, al punto che il critico Marco Marcazzan definì il poeta «l’ombra di Bruto»[127].

 

2. L’ALTER EGO DI GIACOMO  

 

2.1. LEOPARDI E LA CRISI DEL ’19-’21: UN MOMENTO DI SVOLTA

Si è detto che particolarmente nelle lettere del biennio ’19-’20, «spontanee, immediate, crude, strazianti»[128], si annida non solo il germe della materia del Bruto (e del successivo ciclo lirico), ma anche della concezione del mondo di Leopardi, la cui filosofia (che più tardi definirà «dolorosa, ma vera») permea in tutti i suoi componimenti[129]. Il 1819 segna infatti un primo punto di svolta nella vita e nella poetica del recanatese. Come spiega Biral, 

 

la crisi si svolge su due piani: sul piano profondo, dove agisce l’avidità critica del Leopardi, il processo di erosione avvenne in forma costante, con sicure sfaldature; ma sul piano psicologico il moto era più lento e contrastato, con qualche arresto, perché vi pesavano i vincoli con tutto il suo passato145. 

 

La coesistenza di aspetti differenti della crisi deriva dal fatto che l’educazione rigidissima che gli fu imposta in casa Antici (da una parte, la pedissequa osservanza della fede cattolica, dall’altra il contatto con gli intellettuali illuministi colleghi di Monaldo) contrastava aspramente con la sensibilità che stava via via plasmando il suo pensiero. Soprattutto, «l’attrito complicato ed acerbo di questo primo momento di delusione, mescolato ad impeti volitivi, a bruschi risentimenti di protesta, a movimenti teneri e

 

affettuosi»[130] sboccia in una profonda e meditata riflessione attorno al sistema della natura (la quale, in un primo momento, «diveniva soprattutto un polo positivo di vitalità, una fonte di illusione e virtù generose, gentili ed eroiche, carica di energia, di risorse sentimentali, edonistiche, estetiche»147, per poi progressivamente rivelarsi madre di parto e di voler matrigna)[131] e delle illusioni, portando a una graduale maturazione del suo pensiero che, nel Bruto minore, è immortalato proprio nel pieno della conversione, a metà tra la poesia edenica degli antichi e la filosofia dei moderni.

 Dunque, per giungere all’essenza del Bruto minore (da cui siamo partiti) andrebbe fatto qualche raffronto con la vita di Leopardi nel periodo ’19-‘21, in modo da valutare alcuni episodi cruciali che hanno indotto il divenire della sua filosofia e, soprattutto, la vicinanza alla figura di Bruto penitente. 

Prima di addentrarci in qualsiasi discorso di natura storico-biografica, è opportuno precisare che «una compiuta e particolareggiata interpretazione del pensiero di Leopardi dovrebbe […] rinunciare ai tentativi di trarne conclusioni definitive, ma piuttosto fondarsi sopra una sua integrale “storicizzazione”»[132]: ciò è tanto più importante quanto più si analizzano i testi dell’autore in correlazione al contesto biografico, culturale, storico, eccetera. Sarebbe improprio tracciare certe somiglianze di famiglia tra Bruto e Leopardi senza tener conto di tutto ciò che c’è attorno: esiste quell’esatto contesto storico, quella precisa delusione, quel particolare sentimento. In altre parole, «tale storicizzazione dovrebbe intendersi in un duplice senso, ossia: collocazione storica delle idee di Leopardi in rapporto al pensiero antico e al pensiero sensistico e illuministico degli autori che frequentò, nonché delle ideologie correnti al suo tempo»[133].

Se è vero dunque, come più volte rilevato dalla critica, che il Bruto di Leopardi si affianca alla sconfitta personale derivata da una delusione che fu anche storica, si partirà proprio dal repentino mutamento che investì gli anni ’19-’21. Di fatto, il periodo di gran lunga più infelice della sua vita comincia esattamente nel ’19 («anno di logoranti,

 

agghiaccianti noie»)[134], quando la malattia d’occhi e l’aggravarsi delle sue condizioni fisiche lo tennero legato a uno stato pressoché larvale per circa due anni, durante i quali «pensò ancora, molte volte, al suicidio: la quasi cecità lo fece sprofondare in sé stesso, e lo indusse a pensare come non aveva mai pensato […]; abbandonò la speranza, rifletté profondamente sopra le cose, divenendo “filosofo di professione”»[135]. 

E all’insorgere di questa prima, profondissima crisi germoglia in lui l’imperioso desiderio di fuggire da Recanati – «borgo che pare sommerso in un lago di nebbia»[136] – per incanalare una via di libertà brutalmente stroncata. Sono le calorose lettere scambiate con Giordani a dimostrare che per il giovane «il non uscire un poco da Recanati, sarebbe non vivere»[137] e che tutta la sua famiglia premeva affinché lui rimanesse confinato tra le mura domestiche155:

 

Non ho più pace, né mi curo d’averne. Farò mai niente di grande? Né anche adesso che mi vo sbattendo per questa gabbia come un orso? In questo paese di frati, dico proprio questo particolarmente, e in questa maledetta casa, dove pagherebbero un tesoro perché mi facessi frate ancor io, mentre, volere o non volere, a tutti i patti mi fanno viver da frate, e in età di ventun anno, e con questo cuore ch’io mi trovo, fatevi certo ch’in brevissimo io scoppierò, se di frate non mi converto in apostolo, e non fuggo di qua mendicando, come la cosa finirà certissimamente[138].

 

In questa «vita strozzata»[139] (per riprendere le infelici parole di Croce, che però in questo caso dipingono come un’ekphrasis la sensazione di oppressione domestica) Leopardi navigava da anni, tanto è vero che «almeno dal 1818, ha l’animo lacerato perché la condizione dell’uomo moderno è innaturale, nemica delle fondamentali esigenze della vita»158: non potrebbe essere più disilluso, e si sente anche lui, come Bruto moribondo,

 

«disgraziatissimo in tutto e per tutto»159, infelice e reietto. Scrive così il suo congedo nella lunga lettera al padre, vero e proprio «capolavoro di disperazione, furore, amore, odio, scherno, retorica, strazio immedicabile»[140]: 

 

Tutto questo, e le riflessioni fatte sulla natura degli uomini, mi persuasero, ch’io benché sprovveduto di tutto, non dovea confidare se non in me stesso. Ed ora che la legge mi ha già fatto padrone di me, non ho voluto più tardare a incaricarmi della mia sorte. Io so che la felicità dell’uomo consiste nell’esser contento, e però più facilmente potrò esser felice mendicando, che in mezzo a quanti agi corporali possa godere in questo luogo. Odio la vile prudenza che ci agghiaccia e lega e rende incapaci d’ogni grande azione, inducendoci come animali che attendono tranquillamente alla conservazione di questa infelice vita senz’altro pensiero[141]. 

 

Queste lucide considerazioni non solo anticipano il germe di una filosofia eudemonistica che verrà sviluppata nel tempo, ma dimostrano quanto sia facile per certi uomini retrocedere allo stadio biologico di fortunate belve nel momento in cui le sfortunate contingenze bloccano la loro smania di compiere azioni grandi. Ma le belve (che per natura trascorrono la loro quieta esistenza noncuranti della morte impreveduta) non nutrono, a differenza degli uomini, alcun desiderio di darsi la morte: «Di colpa ignare e de’ lor proprii danni / Le fortunate belve / Serena adduce al non previsto passo / La tarda età»[142]. Come nel Bruto minore, infatti, «la tranquilla ignoranza delle bestie contrasta l’infausta consapevolezza dell’umano»[143] e Leopardi, in quel momento, si sentiva poco più che un orso in gabbia.

 

159 Lettera A Pietro Giordani, Piacenza (Recanati 27 Novembre 1818), in G. Leopardi, La vita e le lettere, cit., p. 86: «In somma è un pezzo che mi sono avveduto ch’io sono disgraziatissimo in tutto e per tutto, e non c’è cosa che mi prema e non mi vada a rovescio».

Rigettato dalla molla che (almeno idealmente) lo spingeva a proiettarsi oltre il confine di casa Antici, Giacomo è prigioniero nella sua stessa dimora, di nuovo piegato all’autorità del tiranno Monaldo: «chiudendo la lettera, s’immolava davanti al padre, come un capo sacrificale»[144]. Ma non fu solo una prigione fisica ad ottenebrare Leopardi: era, ancor di più, una prigione psichica quella in cui si rifugiò, chiuso nelle sue riservate inquietudini. E proprio «dalla mitizzazione di questo periodo di sconfitte, di prostrazioni fisiche, di “mortifere malinconie”, nasce la prima grande crisi pessimistica, in cui il suo pensiero, senza alcuna distrazione, è sollecitato ad oggettivare una inaudita antropologia negativa»[145]. I fermi propositi mutano in chimere, e sembra che tutto finisca: la crisi del ’19 «trasformò il giovane Leopardi da poeta in filosofo, facendolo inorridire davanti al vero che distrugge ogni cara immaginazione»[146]: 

 

Tutti i piaceri sono illusioni o consistono nell’illusione, e di queste illusioni si forma e si compone la nostra vita. Ora se io non posso averne, che piacere mi resta? e perché vivo? Nella stessa maniera io dico delle antiche istituzioni ec. tendenti a fomentare l’entusiasmo, le illusioni, il coraggio, l’attività, il movimento, la vita. Erano illusioni, ma toglietele, come son tolte. Che piacere rimane? e la vita cosa diventa? Nella stessa maniera dico: la virtù, la generosità, la sensibilità, la corrispondenza vera in amore, la fedeltà, la costanza, la giustizia, la magnanimità ec. umanamente parlando sono enti immaginari[147].

 

Accanto all’educazione letteraria e filologica che era andato conseguendo negli anni dell’adolescenza, «lo psicodramma della fuga»[148] inaugurava per lui un nuovo campo di ricerca, ora strettamente personale, volto a scrutare ed analizzare i flussi dell’interiorità,

 

(l’eredità di Caino nell’Inno ai Patriarchi). Nel Bruto minore gli uomini trasgressori dei precetti naturali vivono “fra sciagure e colpe”, mentre gli animali sono “di colpa ignari”».

insomma «gli si apriva precocemente l’adito ai labirinti della coscienza, all’esplorazione tormentata dell’interiorità individuale»[149]. 

A rendere un’idea ancora più chiara di ciò che sentiva, tornano utili alcune parole di Croce (che per Leopardi, però, non ha speso se non parole di sdegno all’interno di una visuale pressoché limitata): 

 

La materia che, in quei brevi intervalli, gli si porgeva alla contemplazione e meditazione non poteva che essere la sua stessa immutabile condizione travagliata, divenuta per lui la prigione nella quale era rinserrato e donde non sperava più di venir fuori. E dal petto gli usciva il rimpianto per ciò che sarebbe potuto essere e non era, per la promessa che la natura non gli aveva attenuta; – e nell’intelletto gli si formava un giudizio, che poco a poco prese veste di teoria filosofica, sul male, sul dolore, sulla vanità e nullità dell’esistenza, e che intrinsecamente […] era esso stesso un rimpianto, un’amarezza, un sentimento larvato, proiezione raziocinante del proprio stato infelice[150]. 

 

È la stessa, irrisolvibile contingenza che ospita il suicida di Filippi rifranto sulla soglia ultima dell’età delle illusioni che, giunta alla fine del suo naturale decorso, tramonta con lui. Ma diversamente da Bruto (anche se «sapeva di cercare la morte»)[151], quello di Leopardi è piuttosto, nel ’19, una specie di suicidio dell’animo, una sorta di morte simulata da cui pochi anni più tardi rinascerà il suo spirito ardente[152]. Tuttavia, così com’era, perdutamente immerso nel suo sconforto abissale, scriveva:

 

Io fuggiva di qua per sempre, e m’hanno scoperto. Non è piaciuto a Dio che usassero la forza: hanno usato le preghiere e il dolore. Non ispero più niente, benché m’abbiano promesso molto: ma io confidava in me solo, e ora che son tolto a me stesso non confido in veruno173.

 

All’indomani della mancata fuga, questa lettera a Giordani, voce di un Leopardi che «nel 1819 [immagina] di esser già morto e dimenticato da tutti»[153], suona come una protesta silenziosa: e forse è quella stessa protesta che induce Bruto a spegnersi sommessamente

 

– tolta ogni speranza, ogni briciolo di compassione, è inutile vivere – benché consapevole che «Spiace agli Dei chi violento irrompe / Nel Tartaro»175. 

 Nonostante l’aria cupa di cui ora si nutriva passivamente, Leopardi «reagiva alla sua forzata solitudine e alla frustrazione pratica dei suoi intensi desideri di vita con questi “piaceri dell’immaginazione”, con questa ricca e acutissima vita della sensibilità»176, e pur nella crisi risorge la sua frenesia letteraria: nel ’19 scrive L’Infinito[154], mentre riprendeva assiduamente anche la stesura dello Zibaldone in maniera sempre più sistematica. Come spiega Citati, «tutto viene capovolto. Dopo i mesi del tentativo di fuga, con le collere, le maledizioni, le violenze, le rappresentazioni eroiche di sé stesso, appare una divinità nuova: la pazienza (o la sopportazione)»[155]. 

Giunto a una saggezza maturata da quell’intima metamorfosi, «aveva compreso che non aveva più nulla in comune con gli eroi antichi, che lo visitavano ancora nel pensiero. Era diventato un moderno: un moderno piegato, tranquillo, rassegnato, come tutti i moderni»[156]. Se nella sconfitta Leopardi è il gemello del suo Bruto, nella rinascita invece si distingue: dove Bruto, suicidandosi, afferma la sua cieca volontà di vivere, Leopardi sceglie di patire e sopportare, di avere, appunto, “pazienza”[157]. È però una

 

175                 G. Leopardi, Bruto minore, v.v. 46-47, in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di M. Fubini, cit., p. 76. Si noti, nella sopracitata lettera, la somiglianza nell’utilizzo del verbo dispiacere per esprimere il disappunto degli dèi (o di Dio), come se fosse malcelato da una leggera espressione del viso che denota, appunto, una specie di rammarico. 

176                 W Binni, La protesta di Leopardi, cit. p. 38: «Reagiva alla sua forzata solitudine […] con questa ricca e acutissima vita della sensibilità, proiezione concreta della sua maturante idea del valore delle illusioni riportate nell’ambito eroico e pubblico entro una più privata forma di compenso della sensibilità “poetica” e cioè etimologicamente creatrice di sensibili piaceri del cuore e della mente, coinvolti in una prospettiva di alto edonismo e basati su di una sottile ed acutissima esplorazione della realtà e dei suoi riverberi e sviluppi fantastici e sentimentali. Questa onda di sensazioni e impressioni-espressioni dell’animo sensibile […] costituisce la base della svolta poetica del ’19, in quegli “idilli” […] che coprono momentaneamente la lacerazione della delusione storica e personale, il trauma del fallito tentativo di fuga nell’agosto di quell’anno, per intrecciarsi […] con riprese della prospettiva pubblica, con nuovi sgorghi più complicati della stessa tensione idillica e idillico-elegiaca fra ’20 e ’21, e con l’imponente elaborazione del sistema della natura e delle illusioni, risposta alla sua crisi di valori positivi reali e di possibilità di coincidenza del “vero” con la vita sentimentale, attiva, eroica e poetica».

pazienza che sapientemente copre un impeto di ribellione rimasto in soggiacenza, specie nei continui scontri ideologici col padre. Dunque, la ribellione c’è, e persiste specialmente nei mesi subito successivi alla fuga, da cui Leopardi «ricava, invece del cambiamento romantico della sua esistenza, il vanto di un pensiero sovversivo rispetto al proprio retaggio»[158], al punto che Monaldo e Adelaide accusarono di negativa influenza i letterati con cui il figlio intratteneva solidi rapporti, specie Giordani. 

Eppure, Giacomo seppe mostrarsi ormai spogliato della giovanile renitenza, e «il rifiuto della casa e del paese di nascita era invece maturato in un’esperienza virtuosa, ubbediente ai genitori, trascorsa sui libri paterni»[159]. Si apre allora un nuovo periodo di relativa calma (o meglio, appunto, di pazienza) in cui il recanatese rielabora in maniera assidua il suo pensiero non ancora pienamente maturo. Scrive così a Giordani nel dicembre ’19:  

 

Era un tempo che la malvagità umana e le sciagure della virtù mi muovevano a sdegno, e il mio dolore nasceva dalla considerazione della scelleraggine. Ma ora io piango l’infelicità degli schiavi e de’ tiranni, degli oppressi e degli oppressori, de’ buoni e de’ cattivi, e nella mia tristezza non è più scintilla d’ira, e questa vita non mi par più degna d’esser contesa[160].

 

Il periodo che va dal ’19 al ’21 fu forse il più prolifico per la formazione della poetica e – soprattutto – della nascente filosofia leopardiana, quasi come fosse stato un’incubatrice che diede alla luce un’antropologia in costante divenire, nel suo lento incanalarsi verso una direzione progressivamente vitalistica, fino a giungere, dopo frustranti patimenti e passando per un «disgusto pessimistico più profondo [e] una concezione dell’esistenza più disperatamente negativa»[161], allo stadio finale dell’atarassia. 

Se non altro, è pur vero che «il pensiero del Leopardi, a datare quel fatale 1819 e anche più addietro, aveva lavorato in senso negativo assai più di quanto non confessi la poesia», per cui già nell’Epistolario «il cedimento prodottosi nell’anima e nella mente si

 

traduce con più cruda immediatezza»[162], e si evince che «Bruto era vivo nella sensibilità, prima ancora che nella fantasia del Leopardi»[163].

A rendere ancora più copiosa la riconsiderazione delle sue vecchie credenze in questo periodo di forzata clausura è la questione attorno alla religione, in particolar modo il cristianesimo: non ci soffermeremo più di tanto su questo punto; tuttavia, proporre un accenno alla questione può certamente rendere il quadro biografico un po’ più completo. Dal biennio della conversione emerge – oltre al rammarico sopraggiunto alla fallace manovra di evasione dalla gabbia natia e alla conversione al vero – il ripensamento della liceità della morale cristiana (la quale, per dirla con Biral, «ha un mostruoso potere deformante»)[164], che sin dal primo momento gli era stata inculcata dalla madre Adelaide, fervida credente al limite del fanatismo[165].

Nonostante risalgano proprio al ’19 gli abbozzi degli Inni cristiani, nel giro di due anni Leopardi cambia completamente il suo assetto ideologico, allontanandosi faticosamente dai precetti appresi da bambino, poiché «le speranze cristiane, anche se incredibili alla ragione, erano tuttavia un’antica favola dalla quale si distaccava a malincuore»[166]. Nel marzo 1821, in un noto passo dello Zibaldone, il neo-filosofo afferma addirittura che 

 

Se la religione non è vera, s’ella non è se non un’idea concepita dalla nostra misera ragione, quest’idea è la più barbara cosa che possa esser nata nella mente dell’uomo; è il parto mostruoso della ragione il più spietato; è il massimo dei danni di questa nostra capitale nemica, dico la ragione, la quale avendo scancellato dalla mente dall’immaginativa e dal cuor nostro tutte le illusioni che ci avrebbero fatti e ci faceano beati, questa sola ne conserva, questa sola non potrà mai cancellare se non con un intiero dubbio (che è tutt’uno e ragionevolmente deve produrre in tutta la vita umana gli stessi effetti né più né meno che la certezza), questa sola che mette il colmo alla disperata disperazione dell’infelice. […] così possiamo dire che oggi, in ultima analisi, la cagione dell’infelicità dell’uomo misero ma non istupido né codardo è l’idea della religione, e che questa, se non è vera, è finalmente il più gran male dell’uomo e il sommo danno che gli abbiano fatto le sue disgraziate ricerche e ragionamenti e meditazioni o i suoi pregiudizi[167]. 

 

Il progressivo distacco dalla religione si farà sempre più evidente, fino a raggiungere il suo apice, ancora una volta, in quella lettera a De Sinner spietata e provocatoria, in cui la ferma difesa di Leopardi parte proprio con l’asserire «ch’egli è assurdo l’attribuire ai [suoi] scritti una tendenza religiosa»[168].

Tutto il discorso portato avanti finora sulla centralità che i concetti di virtù e gloria occuparono nella sua tormentata giovinezza non starebbe in piedi se non fosse che «già nel settembre del 1820 il cristianesimo viene giudicato, sul piano storico, come nemico delle virtù che sono necessarie alla vita civile, alla difesa della libertà»[169]. A questo punto si allaccia il delicato tema della legittimità del suicidio, impedito categoricamente dalla morale cattolica eppure, all’altezza del Bruto minore, da Leopardi giustificato in qualità di manifestazione eroica a difesa della virtù e dell’amor di patria. Ma su questo si ritornerà in seguito. 

La fuga da Recanati non si sarebbe limitata al mero abbandono della casa paterna in quanto casa, ma al rovesciamento di quella limitatezza di pensiero che adombrava la famiglia Leopardi, conservatrice dei precetti controrivoluzionari. Scappando di casa, Leopardi avrebbe cioè compiuto l’atto rivoluzionario in nome della sua libertà; ma «per Monaldo la felicità [era] chiusura nella norma, accettazione dei limiti e rifiuto della particolarità dell’esperienza», quando «per Giacomo esplicitare la propria idea di felicità significa[va] anche dichiarare il bisogno della propria affermazione, l’uscita dalla famiglia e da Recanati, l’adesione completa a un modello misto di eroismo e di commozione, di partecipazione diretta e di espansione della propria sensibilità e dei sentimenti»[170]. Di fatto, la partenza non fu annullata, ma solo rimandata. 

In questo contesto, ciò che preme sottolineare è che «nell’immobile silenzio della biblioteca paterna l’animo del Leopardi si è inasprito battendo contro il muro delle vecchie credenze che sempre più contrastavano con il suo profondo sentimento»194.

 

Tuttavia, nonostante le molteplici negazioni delle antiche norme che era andato distruggendo in quel cruciale biennio, permane ancora – per il momento – la concezione di una natura provvida, come si evince dalle canzoni del ’21 e soprattutto dall’Ultimo canto di Saffo, composta l’anno successivo. 

Quella del ’19 fu una vera e propria rottura, poiché «dalle certezze maturate alla fine dell’anno di malattia e di crisi, della lettera al padre e dell’Infinito, Leopardi non si staccherà più e tutto il suo sistema filosofico vi ruoterà intorno, come fosse il commento a una conoscenza originaria» [171] . Analogamente, anche il Bruto minore, in cui i “sentimenti verso il destino” espressi dal suo autore rimangono tali anche a distanza di anni, rappresenta una cesura inequivocabile, sia dal punto di vista poetico che contenutistico, tanto che «fu Leopardi stesso a riconoscere in questa sua canzone il primo punto fermo della sua generale concezione del mondo»196. E infatti, non a caso, la canzone si colloca esattamente alla fine dell’anno 1821 come momento culminante e conclusivo della meditazione praticata in quel biennio[172].

La condizione di Leopardi, nonché il suo particolare temperamento, sono termini imprescindibili per la piena intelligenza delle sue opere. Nel caso dei Canti, un’acuta osservazione è quella di Marcazzan, quando enuncia che

 

più che determinare quanto la genesi del Bruto debba a un momento patologico della sua psicologia turbata, preme determinare come lo spunto che ad essa rimane legato dalla persistenza non solo di concetti, ma di immagini e di parole approfonditesi col tempo, si sia svolto sull’assimilazione di un’importante materia passata attraverso le sue riflessioni e le sue meditazioni, e in assidua polemica con altri temi e altri motivi che non solo ebbero parte viva nella travagliata vicenda del suo pensiero, ma appassionatamente occuparono anche i tempi della poesia198. 

 

Lo spiraglio sulla crisi del ’19-’21 è propedeutico, se non altro, a scandire quel travagliato momento divisorio fra due epoche distinte nella vita e nel pensiero di Leopardi, e ad introdurre quelle somiglianze di famiglia tra l’autore e il suo alter ego cui si accennava a inizio paragrafo. In particolar modo nel 1821, spiega Citati, Leopardi passava repentinamente da un sentimento all’altro:

 

ora combatteva la necessità, ora chinava il capo sotto il giogo della fortuna. Per esprimere qualsiasi condizione psicologica, aveva dunque bisogno di attraversare sia quella condizione, sia quella contraria. Non poteva dire nulla senza conoscere il contrasto e la contraddizione. Solo così, impersonando le due parti opposte, essendo ora il ribelle ora la vittima, poté comporre la più grandiosa ribellione e condanna del fato e degli dèi che egli abbia mai immaginato: il Bruto minore, steso nel dicembre 1821, in venti giorni[173]. 

 

2.2. L’AVO E IL NIPOTE. SOMIGLIANZE DI FAMIGLIA TRA LEOPARDI E BRUTO  

 

Non scompiglia forse i tuoi capelli 

un poco dello stesso vento che spirava a Babilonia che soffiava su altre vite e carovane già passate Sulla via prima di noi?

Non c’è forse dentro la tua voce  l’eco di un amore atroce l’ombra di una connessione

tra i cantanti micidiali della tua generazione e Nabucodonosor?[174]

 

La predilezione che il recanatese ha riservato alla figura di Bruto non è stata certo casuale, e finora se n’è dato già qualche riscontro[175]. Prima ancora di anatomizzare il personaggio del componimento – e dunque risolvere «la peculiare autoidentificazione di Leopardi con lui»[176] – bisogna rilevare come Leopardi vantasse di un’ingente cultura attorno a Marco Giunio Bruto («Aveva letto la Vita di Cesare e la Vita di Bruto di Plutarco, l’Epitome da Tito Livio di Floro, la Storia romana di Cassio Dione, e forse il Giulio Cesare di Shakespeare e il Bruto secondo dell’Alfieri»)[177], anche se rispetto alle fonti il personaggio storico viene trasfigurato nel suicida protagonista di un soliloquio notturno intitolato Bruto minore. Presa e messa da parte l’ampissima conoscenza che Leopardi si era conquistato durante anni di letture, emerge la necessità personale di dare un nuovo volto

 

al suo eroe prediletto, e «in una specie di rogo sacrificale, […] brucia i suoi modelli, dai quali trae soltanto qualche particolare»[178]. Ciò non toglie, comunque, che Leopardi abbia mantenuto per il suo paladino della virtù una giusta «circostanziatezza storica» [179] , fondamentale prerogativa per lo scenario tragico. Se Bruto aveva sempre rappresentato la personificazione della virtù romana per eccellenza, l’aspetto che invece interessa a Giacomo è l’interiorità trafitta dell’uomo Bruto vinto dalla calamità in una contingenza imprevista. 

Un primo segnale biografico che avvicina il giovane poeta alla figura dell’eroe irato verso le divinità è dato proprio dalla sopracitata crisi religiosa cominciata nel ’19, poiché se in un primo momento aveva addirittura abbozzato gli Inni cristiani, ora si trova alleato con il suo Bruto nella battaglia contro l’entità sovrannaturale, ritenuta iniqua e improvvida: «con l’imprecazione di Bruto contro gli dei crudeli […], il Leopardi ha sgombrato il terreno dalle residue tenaci esitazioni: ha ben superata la fase del dubbio»[180]. Leopardi, insomma, non nutre più nemmeno un briciolo di incertezza: cadute le illusioni che tengono l’uomo unito nel suo legame con l’età delle “favole antiche”, si dissipa il velo protettivo degli (ex) eterni concetti di virtù, gloria, amor di patria, eccetera, su cui si basava la morale pre-moderna. E tuttavia Leopardi è così affascinato dagli eroi antichi (epici o storici che fossero) da scegliere quello che più sente affine alla sua situazione storica ed emotiva: il Bruto suicida di Filippi, iconico protagonista di quello che Ugo Dotti definisce «uno dei momenti più alti di tutta la poesia del recanatese»[181]. 

Anche se il Bruto minore si colloca al termine del periodo di crisi, non per questo la risolve, poiché «la risoluzione insomma non nasce dalla ribellione di un momento: è la conclusione di un processo di pensieri e di esperienze ed esige il coraggio e la calma della forza interiore». Se da una parte Leopardi ha in qualche modo sciolto la sua crisi dopo lunghi mesi di riabilitazione in cui rinnova il suo pensiero arrivando a uno stato di maggior tranquillità (nonostante, si è detto, nel sostrato della pazienza si annidi comunque

 

uno spirito impetuoso e capace di forti passioni), dall’altra Bruto, violentemente “eroico”, estingue, in un certo senso, il suo turbamento nell’ira feroce del suicidio. Ma si proceda con ordine.

 Negli anni trascorsi a Recanati emergono dalle letture giovanili (tantissime, ma relativamente limitate ai volumi posseduti nella biblioteca paterna) dei chiari modelli culturali ai quali Giacomo vorrebbe avvicinarsi. Ne deriva dunque che anche la mira poetica verso un personaggio eroico scaturisce da un interesse privato, dal momento che «il valore storico, il nesso diretto tra esperienza individuale e assimilazione dei modelli culturali»[182] instillano nella psiche di Leopardi l’aspirazione alla gloria e l’esigenza, come si diceva sopra, di compiere azioni grandi: scrive infatti nello Zibaldone che «per li fatti magnanimi è necessaria una persuasione che abbia la natura di passione, e una passione che abbia l’aspetto di persuasione appresso quello che la prova»[183]. 

 L’identificazione con l’eroe antico, maledetto dalla fortuna e pentito della virtù, è palese già dal 1820 in una delle tante confessioni a Giordani: 

 

Se noi fossimo antichi, tu avresti spavento di me, vedendomi così perpetuamente maledetto dalla fortuna, e mi crederesti il più scellerato uomo del mondo. Io mi getto e mi ravvolgo per terra, domandando quanto mi resta da vivere. La mia disgrazia è assicurata per sempre: quanto mi resterà da portarla? quanto? Poco manca ch’io non bestemmi il cielo e la natura che par che m’abbiano messo in questa vita a bella posta perch’io soffrissi. […] Dov’è l’uomo più disperato di me? che piacere ho goduto in questo mondo? che speranza rimane?

che cosa è la virtù? non capisco più niente. Addio[184].

 

Quella che dall’esterno poteva apparire come una disposizione malinconica era in realtà una fervente attività mentale di Leopardi, che specialmente in quegli anni aspirava alla

 

libertà, al risorgimento delle menti assopite e al conseguimento della sua indipendenza fuori dal tetto famigliare: una condizione, dunque, che avvicina parecchio il giovane agli eroi letti nei tomi dei grandi autori. Del significato che assunse il tentativo di fuga si è già parlato; e del suo acerbo eroismo Leopardi diede una prova nella sopracitata lettera al padre, documento non solo di uno sfogo solipsistico, ma soprattutto di una rivendicazione dei valori di libertà, autoaffermazione, gloria. Ma, come accuratamente espone Ricciardi, 

 

il modello eroico, il raggiungimento della felicità, la tensione alla grandezza si fondono qui con l’ansia, il turbamento ma anche con la decisione, ormai presa, di andare nel mondo, di rompere, di negare quei vincoli, quelle convinzioni e quegli affetti che, in ultima analisi, significano ricaduta nel quotidiano. Non c’è grandezza senza sofferenza, non c’è possibilità di grandezza senza scontro coi limiti, le ostilità; le ottusità del mondo. L’eroe per l’azione come modello è già incrinato; lo sforzo terribile, la tensione individuale, personale prevalgono a tal punto da considerare sensibilità, autoanalisi, sentimento quali valori, dei fini, dei passaggi obbligati e necessari per essere grandi, per abbandonare finalmente la mediocrità di un destino prefissato tra Monaldo e Recanati[185].

 

Di fronte all’implacabilità del rigore paterno, Leopardi non può che arrendersi, e cade: è la caduta di Bruto, che ponendosi «profeticamente nel decorso della storia» [186] simboleggia quell’arido passaggio della sua coscienza disingannata e tuttavia consapevole. Ed è proprio il sigillo a chiusura di questo periodo di «baldanzosità giovanile»[187] a determinare una sempre più inquietante somiglianza tra Giacomo e l’eroe Bruto: entrambi, infatti, si scoprono disillusi al termine della loro cieca battaglia in nome della virtù e della rivalsa personale, inginocchiati davanti alla crudele potenza che il fato avverso ha posto davanti ai loro occhi. Prosciugati delle loro forze, non possono che accettare l’amarezza di un futuro che si prepara ad aprirsi sfavorevole alle aspettative: 

 

                            Preme il destino invitto e la ferrata 

Necessità gl’infermi

Schiavi di morte: e se a cessar non vale  Gli oltraggi lor, de’ necessarii danni  Si consola il plebeo[188]. 

 

Dunque, nel Bruto sconfitto a Filippi, «il poeta vede sì un’immagine di sé, ma un’immagine inedita, che oggettivamente si concreta su un piano esterno e drammatico» (la clausura a palazzo Leopardi), insomma, continua Marcazzan, «un’immagine ch’egli può contemplare, e nella quale può contemplarsi, con un senso di muto orrore, o d’impassibile comprensione, o di umana pietà, come storia o come mito, ma che impiega soltanto se stessa ed è coerente soltanto con se stessa»215.

 Ma il dramma non è solo personale, bensì anche storico, ed è «in quel giocare tra Bruto e Leopardi, tra un pretesto autobiografico e un pretesto storico-filosofico, in quell’alterno associarsi e dissociarsi dell’uno e dell’altro pretesto, per cui sentiamo che Bruto non è soltanto Bruto, e Leopardi non è soltanto Leopardi»[189] (rimane sottinteso che nonostante i loro profili storici percorrano due linee rette convergenti a un punto non coincidono del tutto l’una con l’altra). Se Bruto insomma rappresenta, per così dire, l’ultimo uomo della Repubblica, e vede corrodersi davanti a sé il nobile piano di riportare in auge gli antichi valori politici, Leopardi si ritrova al centro di un’ulteriore sconfitta storica: il fallimento dei moti risorgimentali del ’20-’21. Assieme alla sua generazione di intellettuali abbandona disegni sovversivi e progetti riformistici, «nell’atmosfera rassegnata e diseroicizzata che segue alla tensione estrema, alla protesta rivoluzionaria»[190], poiché la situazione politica e storica appare indegna di un giusto futuro, che abdica e si piega al dominio di vecchie menti corrotte. 

A giustificare tale accostamento Ugo Dotti chiarisce che «nel Bruto c’era un eroe che, con la morte della virtù, predice la catastrofe di Roma, del mondo e, leopardianamente, della Storia», ovvero vi si trova «artisticamente tradotta, l’esposizione di un blocco di idee convergenti nella denuncia dell’ipocrisia del mondo contemporaneo conseguita al crollo degli antichi valori»[191].

 

seguenti e il L. giungerà a raccomandare come filosofiche la pazienza e la rassegnazione […] ma sarà sempre quella per lui una rinuncia, mai del tutto accettata e sentita come una sorta di abdicazione». 215 Entrambe le citazioni sono prese da M. Marcazzan, op. cit., p. 197.

 Fermo restando, dunque, che Leopardi stava scrivendo il Bruto minore nell’«esistere pavido ed egoistico dell’epoca della Restaurazione»[192] – e nel mezzo di un tumulto che risultò poi fallimentare – appare quanto più chiaro che l’esaltazione dell’eroismo e della virtù si lega a un sentimento collettivo di amor di patria, allo spirito nazionale che mosse le rivolte di quel periodo. Ora, dopo l’insuccesso di quei moti, Leopardi matura il senso di una delusione storica che fungerà da miccia per quello che viene comunemente definito “pessimismo storico” (quale emerge anche dal Bruto minore). E, per di più, «questa delusione non spiega solo il pessimismo storico di Leopardi, ma il suo successivo e rapido svolgersi in pessimismo totale, in quello che è stato chiamato “pessimismo cosmico”», e a prescindere dalla mera distinzione terminologica è fondamentale sottolineare che entrambi i “pessimismi” nascono «da un unico germe, appartengono a un unico processo di pensiero»[193].

 Nonostante possa apparire paradossale, l’ampio intervallo cronologico che separa Leopardi e il suo eroe genera invece una sorprendente vicinanza, proprio perché tra i due aleggia il medesimo spirito di cupa rassegnazione di chi vede inesorabilmente spegnersi ogni lucida fiamma di speranza, e il Bruto minore può essere considerato come «la punta estrema del tentativo leopardiano di avvicinarsi alla propria epoca» [194] . Il Bruto di Leopardi è come un classico, perché riesce a valicare ogni ostacolo temporale pompeggiandosi «indomito», e superando orgogliosamente «una distanza storica grande per avvicinarsi a noi (e alla filosofia di Leopardi e, forse, alla sua esperienza esistenziale)»[195]. 

Se è vero che in questo momento Leopardi accusa l’eccesso di ragione storica «artificiosa e depauperante»[196] quale causa del crollo delle illusioni e della capacità immaginativa, ne deriva che l’unico sentimento che l’uomo può provare è l’indifferenza: infatti, secondo lo stesso Leopardi, «l’uomo disingannato non ha più cuore»[197], dal

 

momento che «l’uomo, ch’è divenuto per forza indifferente verso se stesso, è indifferente verso tutto, e ridotto all’inazione fisica e morale»[198]. Ma Bruto, uomo sì antico e tuttavia non ancora moderno, può al contempo esser capace e d’indifferenza e di azione scellerata: il suo suicidio, per quanto scaturisca da un subbuglio interiore di enorme rabbia, è, in un certo senso, anche indifferente (perché «non importava un fico la patria, la gloria, il vantaggio degli altri, dei posteri»!)[199], e nella sua indifferenza è pure follia. Sia esaustivo questo passo dello Zibaldone datato 29 novembre 1820: 

 

Senza illusioni, di cui l’uomo sia persuaso, non c’è vita né azione, giacché l’uomo non opera senza persuasione, e se la persuasione non è illusoria, ma viene dalla ragione, l’uomo non opera, perché la ragione non lo persuade ad operare, anzi ne lo distoglie e lo getta nell’indifferenza[200]. 

 

A pochi mesi prima risale un altro passo zibaldoniano (sempre riguardo al dissidio passioni-ragione) in cui Leopardi spiega che le grandi azioni sono «una specie di pazzia»: 

 

La speranza non abbandona mai l’uomo in quanto alla natura. Bensì in quanto alla ragione. Perciò parlano stoltamente quelli che dicono […] che il suicidio non possa seguire senza una specie di pazzia, essendo impossibile senza questa il rinunziare alla speranza ec. Anzi tolti i sentimenti religiosi, è una felice e naturale, ma vera e continua pazzia, il seguitar sempre a sperare, e a vivere, ed è contrarissimo alla ragione, la quale ci mostra troppo chiaro che non v’è speranza nessuna per noi[201].

 

Eppure – commenta Luporini – «quella “pazzia” ha un’origine umanistica ed è in sostanza identica alla virtù […]. Il dramma romantico sorgerà all’interno di questa posizione, come fallire della virtù, e sarà il dramma di Bruto minore»[202], in cui a cadere è la virtus per antonomasia: quella romana. 

 Ma la virtù di Bruto è ormai «stolta», non serve più a niente: lui è l’ultimo uomo della Repubblica, e per lui «l’appello eroico consiste nell’invito a combattere il “corrotto costume”, il quale, sappiamo, è l’egoismo individuale che mina la società»230. Quel corrotto costume è, come chiarisce Luporini, proprio la circostanza storica, la quale sia

 

per Leopardi che per Bruto contribuisce ad alimentare il senso di aspra delusione che accompagna le ultime forze dell’eroe[203]. Entrambi vivono in prima persona la fine di un’epoca e l’inizio di un’altra: sul piano familiare, estetico e religioso Leopardi sperimenta una crisi delle illusioni analoga a quella vissuta sul piano storico e intimistico da un Bruto unico testimone della crisi della Repubblica romana, «mutazione per eccellenza, un displuvio ideale fra due epoche e due civiltà, tra gli antichi e i moderni, tra paganesimo e cristianesimo»[204]. Proprio in risposta a questa affinità biografica, Leopardi sceglie di mettere da parte il tradizionale Bruto uccisore di Cesare rischiarando il lato nascosto di quell’eroe che preferiva uccidersi di propria mano piuttosto che sapersi oppresso da un tiranno (anche perché «il Bruto tirannicida diceva ancora qualcosa ai congiurati delle sette di tipo carbonaro, per esempio ai rivoluzionari borghesi-aristocratici del 1820-21 […] che il recluso di Recanati giudicava a distanza», dal momento che in quegli anni «Leopardi è tutto pervaso di un evidente radicalismo politico, che gli fa giudicare insufficiente l’ideale monarchico-costituzionalistico») [205] . Così facendo, Leopardi metteva in luce non l’aspetto storico, ma quello sensibile ed esistenziale di una delle figure più controverse ed affascinanti dell’intera romanità. 

Accogliendo la linea interpretativa proposta da Lorenzo Braccesi, si può dire che Bruto è il principale spettatore di quella che viene definita inclinatio imperii, ovvero il declino dell’impero romano[206]: 

 

Roma non è più la regina del mondo, né il padre romano tiene più le redini dell’imperio, né il pontefice ascende più al Campidoglio colla vestale, e questo da lunghissimo tempo; e tuttavia si leggono ancora i versi di Virgilio, e Niso ed Eurialo non son caduti dalla

 

memoria degli uomini, e dura la fama di Orazio. La fortuna giuoca nel mondo, e certo questi poeti non s’immaginavano che il tempo dovesse penar più a distruggere i versi loro che l’immenso e saldissimo imperio romano, opera di tanti secoli. Ma quelle carte sono sopravvissute a quella gran mole che per mero giuoco della fortuna, la quale ha distrutte infinite altre opere degli antichi ingegni, e conservate queste oltre allo spazio segnato dalla stessa speranza, dallo stesso amor proprio, dalla stessa forza immaginativa de’ loro autori[207].

 

Certo in questo pensiero dello Zibaldone del 1820 (e in quegli anni Leopardi cambiava spesso opinione!) i classici latini sono esaltati in quanto probabile unica testimonianza di lontani tempi gloriosi. Mantenendo sempre un fitto legame con gli antichi, Leopardi si trasferisce spiritualmente indietro nel tempo per documentare insieme a Bruto la terribile caduta di un’epoca storico-politica che non risorgerà mai più: e se a cadere è anche il suo portavoce, si può dedurre che l’«inclinato capite spira tanto la Roma repubblicana quanto il suo ultimo eroe: Bruto. Quest’ultimo è un personaggio unico […], uno spirito storico, ma non conoscendo il conforto di alcuna fede, tradito dalla virtù, ostenta l’abito di un disilluso cinismo»[208]. 

Naturalmente, come si è già più volte enunciato, la fine di un certo periodo storico non si esaurisce nel mero passaggio di testimone da un secolo all’altro, anzi assume significato non tanto di per sé quanto nel momento in cui scandisce insieme con essa un momento di svolta ben più drastico, che sul piano ideale coincide con l’ineluttabile crollo della virtù e della gloria, rappresentanti degli antichi valori.

 Di fatto, col Bruto minore siamo di fronte a una frattura assoluta, poiché per Leopardi «la romanità muore a Filippi, con il suicidio disperato di Bruto, con il suo riconoscimento della mutevolezza e dell’inutilità della virtù» e dunque «totale è la dissolvenza della storia imperiale di Roma e impossibile è qualsivoglia sua continuità o rigenerazione in età più recenti»[209].

Bruto è l’unico astante di uno spettacolo osceno, e anzi l’osceno è incarnato proprio da lui appunto perché è da solo e «già votato al suicidio, […] consapevole che la virtù, da lui religiosamente sempre praticata, l’ha tradito prostituendosi alla fortuna»[210].

 

Nella circostanza vissuta da Bruto, Leopardi rivede sé stesso: immerso nell’atmosfera dei moti risorgimentali, si riappropria della storia di Roma come «sprone per riacquistare una virtus latina che deve risorgere in funzione del riscatto nazionale. Non più, dunque, nuovi Cesari, o Napoleoni; ma nuovi Bruti la cui virtù sia però posta al riparo dal tradimento della fortuna»[211]. Se la virtus romana – ora fatua illusione – è morta a Filippi dopo aver tradito il suo ultimo prode sostenitore, la stessa virtù quale facoltà immaginativa è spirata con Leopardi all’«apparir del vero» in quel fatale 1819[212]. 

Come a Bruto non importa più il solo futuro di Roma, ma l’ingiustizia subita dal destino che gli si è riversato addosso noncurante del suo disegno politico e dei suoi sentimenti, allo stesso modo a Leopardi interessa «non più Recanati, l’incomprensione paterna o la dolorosa vicenda dei crucci giovanili, ma la vita dell’uomo, la storia, il dramma della civiltà, la natura, il fato indegno e la fraudolenta legge degli dei»[213]. Quella che in un primo momento era (sia per Giacomo che per Bruto) una delusione conseguente a un’intensa avventura privata, si trasforma in ribellione e prende la forma dilatata di un titanismo che guarda con occhio severo il disordine cosmico. Il legame atavico che unisce il nipote recanatese al suo progenitore romano è, in un senso quasi astratto, «quell’ergersi di Bruto, anima in questo solo veramente gemella al Leopardi, tra l’età della poesia e l’età della prosa, tra la stagione delle illusioni e la stagione dell’arido vero»[214]. 

Ma laddove la protesta di Bruto si fa violenta, e si attorciglia su sé stessa riversandosi nel più infausto e sanguinario maltrattamento corporale, ciò che Leopardi

 

sventura in qualunque caso, ma molto più la sventura congiunta colla virtù, produce un interesse vivissimo, durevole e velocissimo». Datato 5-11 Agosto 1823.

compie, rispetto al cesaricida, è un passo in più verso la filosofia, che Bruto non avrebbe mai potuto nemmeno sfiorare a causa della sua eccessiva passione (nonostante che «secondo la tradizione storica Caio Giunio Bruto è […] un intellettuale, nutrito di filosofia, e così l’aveva presentato anche Plutarco: con i suoi dubbi morali, incertezze e indecisioni», e di fatto «che egli ragioni, esplichi, dia fondamento universalistico al proprio gesto finale, rientra nella sua natura ‘psicologica’»)[215].

Ad ogni modo, al termine dell’agognato periodo di crisi la coscienza di Leopardi si risveglia, e poco a poco comprende che solo la filosofia – e dunque la prosa – può dare forma a quell’arido vero che ora lui si sentiva chiamato a sviscerare da una mente per troppo tempo cullata dalle favole antiche:

 

Quella disperazione placida, tranquilla, rassegnata, colla quale l’uomo, perduta ogni speranza di felicità, o in genere per la condizione umana, o in particolare per le circostanze sue; tuttavolta si piega, e si adatta a vivere e a tollerare il tempo e gli anni; cedendo alla necessità riconosciuta; questa disperazione […] non è quasi propria se non della ragione e della filosofia, e quindi specialmente e singolarmente propria de’ tempi moderni[216].

 

Rifiutando la poesia così come Bruto aveva spento in sé lo spettro della virtù, Leopardi si addentrava nella nuova stagione della prosa, ovverosia: nel moderno. E pur di liberarsi del fantasma di Bruto suicida, anima dannata che da anni gli gravava pesante sulle spalle, fa compiere a lui l’orrendo atto (quel meditato suicidio liberatorio!) trasferendo nella poesia i suoi impulsi più reconditi. In questo modo, «nel Bruto il personaggio eccede il poeta»[217], cioè si fa espressione di una malsana tentazione interiore che Leopardi non avrebbe mai avuto il coraggio di assecondare, come si evince da questi due passi dello Zibaldone: 

 

Io mi trovava orribilmente annoiato dalla vita e in grandissimo desiderio di uccidermi, e sentii non so quale indizio di male che mi fece temere in quel momento in cui io desiderava di morire: e immediatamente mi posi in apprensione e ansietà per quel timore[218].

 

E, poco più avanti:

 

Io era oltremodo annoiato dalla vita, sull’orlo della vasca del mio giardino, e guardando l’acqua e curvandomici sopra con un certo fremito, pensava: s’io mi gittassi qui dentro, immediatamente venuto a galla, mi arrampicherei sopra quest’orlo, e sforzatomi di uscir fuori dopo aver temuto assai di perdere questa vita, ritornato illeso, proverei qualche istante di contento per essermi salvato, e di affetto a questa vita che ora tanto disprezzo, e che allora mi parrebbe più pregevole[219].

 

Giacomo si è dimostrato, se così si può dire, un poco più saggio del suo avo, poiché fu in grado di gestire con fermezza una pressoché naturale coazione a ripetere (quasi inevitabile nel subbuglio di sentimenti in cui era immerso) che, a parità di condizioni con Bruto, gli si sarebbe presentata con estrema facilità. Tuttavia, come sostiene Marcazzan, nel comporre il Bruto minore «Leopardi scivola nel falso poetico», proprio «per non essersi rassegnato ad apparire più umano di Bruto, per aver trattato come cosa salda un’illusione di forza e una larva di verità, per aver sacrificato alla solitudine superba la coscienza della propria fragilità e la suggestione del mistero»[220].

 Eppure, nonostante si tratti di poesia, ciò che il recanatese fa dire al suo eroe rappresenta per lui, in quel momento della sua vita, il vero[221]: «perché quel Bruto è un personaggio […] che vive anche di vita propria, e va oltre ciò che da Leopardi e di Leopardi è chiamato ad attestare». Anzi, non solo l’ultimo uomo di Filippi è autentica voce di verità, ma addirittura risulta, «per così dire, ultraleopardiano»[222]. 

 Ciò che Leopardi ha voluto fissare, col Bruto minore, è stato non solo quello che lui considerava (all’epoca) il suo pensiero definitivo in quanto alla necessità, al fato, alla natura; ma anche la sua personale esaltazione storico-filosofica di due grandi eventi che hanno divelto un ordine solo apparentemente intoccabile: il tracollo della Repubblica romana e il fallimento dei moti risorgimentali del ’20-’21. 

 

II I SENTIMENTI DI BRUTO

 

Chi di noi il governato e chi il governatore

Son fatti che attengono alla storia 

Chi fosse la provincia e chi l'impero 

Non è il punto 

Il punto era l'incendio[223]  

Una volta tracciate le principali somiglianze di famiglia tra Bruto e il suo autore, l’intento di questa analisi è ora di cogliere le tematiche salienti del Bruto minore, che possono essere delineate seguendo i più intensi sentimenti del suo iconico protagonista. Sentimenti che, in accordo con la sempre mutevole filosofia di Leopardi, scaturiscono da un eccesso di passioni non controllate quando giungono al culmine della loro intensità, mostrando il loro lato negativo. Bruto è infatti travolto da una moltitudine di «disperati affetti»[224] – quali il disinganno, la delusione, l’ira contro gli dèi e il destino, l’odio verso sé stesso – che inevitabilmente sfociano nell’oscura faccia dell’amor proprio, ovvero: l’egoismo. E la manifestazione (la più terribile, la più spietata) del suo fervido egoismo è il suicidio, unico atto di protesta che la sua mente turbata dalla disfatta storico-personale potesse contemplare, lì, nell’arido campo della battaglia di Filippi, deserto abitato solamente da selve ignude e cognati petti distrattamente calpestati dall’indenne vincitore.  

 Così come Leopardi nel periodo critico del ’19-’21 aveva riconsiderato la sua educazione cristiana pervenendo a una definitiva e fredda condanna della religione (dal momento che, prima ancora di incolpare la natura come causa delle sciagure umane, «riferisce lo stato di corruzione e infelicità dell’uomo, non a una condizione naturale originaria, ma al peccato, inteso come forma di ubris razionale»)[225], anche Bruto, nella sua apostasia, bestemmia l’Olimpo e rinnega la sua fiducia negli dèi (ora colpevoli della sua acre disfatta) affermando la sua pervicace voluntas nell’atto di darsi la morte e divenendo così non un eroe – non un alfieriano eroe della libertà [226] – ma una larva, un uomo

 

depotenziato della virtù e richiuso nella sua meschinità. Di fatto, solo chi è rassegnato e rinuncia alla sua volontà di vivere desidera veramente morire: cedendo alla «ferrata necessità» – che è, in fondo, la voluntas, ossia la volontà di vivere schopenhaueriana – il suicida rinuncia alla libertà – la noluntas – e congiuntamente anche alla sua dignità, poiché «chi cede alla guerra, cede all’uomo»[227]. Ma il caso di Bruto è complesso, perché dalle sue possibilità non può essere esclusa «quella inversione del rapporto normale tra volontà e conoscenza, determinata in modo inconscio dalla stessa volontà», nel momento in cui «essa si ridesta alla subitanea rivelazione del vero “carattere intelligibile” dell’individuo, santo od eroe»[228].

 Dall’altra parte, l’equilibrio dell’uomo-Bruto fermo nella sua vendetta contro il fato avverso nasce da una forza motrice che lo porta a una piena realizzazione di sé stesso (o almeno: così è nella sua idea di prode valoroso), proprio perché prima di morire si isola da quella «prole infelice» consapevole che non ci sarà soluzione favorevole al suo disegno politico, e che la battaglia eterna contro l’amara sorte andrà persa. E uccidendosi, si erge solipsisticamente a vincitore indiscusso della lotta contro il fato. Solo così, allora, può proclamarsi vincitore: se non nella battaglia contro i cesariani, almeno in quella contro il destino, poiché togliendosi la vita crede (ingenuamente) di ingannarlo a sua volta. Ma si proceda per gradi. 

 

1. LA SVENTURA ATAVICA DEGLI EROI

 

1.1. BRUTO NON È UN EROE «AMABILE»

Prima ancora di eviscerare Bruto dei suoi sentimenti per studiarli in rapporto alla filosofia leopardiana esposta nello Zibaldone, si ritiene utile illustrare per quali motivi (oltre a un infervorato egoismo) Bruto non possa essere considerato un eroe in senso canonico, ma piuttosto il simbolo di una colossale sconfitta – e certo un “eroe” a suo modo –, oltre che punto di congiunzione tra due età storiche e due distinti momenti estetici nella vita e nella poetica di Leopardi. 

 

 Si è già accennato, nel precedente capitolo, che la vicinanza del recanatese agli eroi classici si manifesta sin dagli anni dell’infanzia[229], e non a caso il fascino subito dall’eroe vinto trova la sua prima manifestazione poetica nel componimento puerile La morte di Ettore (1810)[230], in cui Leopardi illustra la disfatta del combattente troiano «con parole che indicano la partecipazione dell’universo all’orrore della fine tragica dell’eroe»[231]:

 

Fermati, duce, non ti basta? ah mira Come a te s’avvicina Achille il forte, Che gran furore, e insiem vendetta spira, E inferocito anela alla tua morte. Ettor non m’ode, e alla battaglia aspira; Ah che quivi l’attende iniqua sorte! Ei vibra il ferro: quegli si raggira, E schiva il colpo colle braccia accorte. Drizza poi l’asta sfolgorante luce; Fermano il corso per mestizia i fiumi; Già vola il crudo acciar… fermati, o truce.

Torcon lo sguardo innorridito i Numi; Il colpo arrivò già; cadde il gran duce,

Cadde l’Eroe di Troja, e chiuse i lumi[232].

 

In primis, è da notare che l’espressione la morte di Ettore non compare solo in qualità di titolo del sonetto puerile, ma ritorna, nell’estate-autunno 1823, in una lunga digressione dello Zibaldone (3095,2-3166) i cui singoli testi compongono un micro-trattato sull’epica, appositamente rievocata poiché «una delle più grandi forze illusorie nasce dalla poesia e per Leopardi l’essenza della poesia risiede in Omero»11. In queste pagine, il recanatese

 

espone in maniera minuziosa e approfondita le sue considerazioni riguardo agli eroi epico-classici e le loro qualità (anche rispetto ai moderni): 

 

Alle quali cose mirando il nostro Cesarotti, e giudicando che Ettore fosse il principal soggetto dell’interesse nella Iliade, e la sua sventura per se medesima il principale scopo ed assunto del poema, prosuntuosamente ne volle cangiare il titolo e intitolarlo la morte d’Ettore, stimando che Omero non avesse bene inteso se stesso e la sua propria intenzione quando ne’ primi versi della Iliade annunziò espressamente un altro assunto[233]. 

 

Nel suo micro-trattato sulla poesia omerica, Leopardi non si limita alla mera disamina delle regole del poema epico, ma studia le passioni umane (dalla compassione, alla pietà, all’egoismo) attingendo non solo alle gesta degli eroi ma anche alla sua inquietudine interiore13:

 

Ora dunque i poemi il cui soggetto non è che qualche felicità e gloria nazionale, poco possono oggidì interessare, o certo assai meno che a’ tempi di Omero. Ma la sventura, e massime degl’immeritevoli, è sempre dell’interesse privato di ciascheduno uomo. Niuno è che non si stimi infelice e conseguentem. nol sia, e niuno è parimente che non si reputi immeritevole della infelicità ch’ei sostiene. Queste disposizioni benchè comuni a tutti i tempi, sono massimamente sensibili oggidì, poiché per le circostanze politiche la vita non ha più come vivamente occuparsi e distrarsi, e d’altronde il lume della filosofia dissipa ben tosto, o soffoca nel nascere, o impedisce del tutto qualunque illusione di felicità. Quindi eziandio indipendentemente dalla compassione, egli era tanto più conveniente oggidì che a’ tempi d’Omero il far molto giuocare ne’ poemi epici le sventure degli uomini, quanto che oggi il sentimento della infelicità nelle nazioni civili è più vivo che fosse mai nel genere umano, ed è il sentimento e il pensiero per così dire dominante, da cui niuno oramai trova più come distrarsi. E la infelicità degli uomini è, per così dire, il carattere, il segno di questo secolo[234]. 

 

 

Queste passioni si riflettono, in gran misura, nei due eroi omerici per eccellenza – ossia Ettore e Achille – che nella loro singolarità vanno ad unirsi nella figura di un «doppio eroe: da un lato l’eroe virtuoso e fortunato (e questo non poteva che essere nazionale e dunque greco: Achille); dall’altro» – spiega D’Intino – «un eroe altrettanto e forse ancor più virtuoso, che fosse però infelice e sfortunato (e questo non poteva che essere il troiano Ettore)»[235]. Attraverso questo filo conduttore del trattatello, Leopardi vuole giustificare quell’interesse verso l’Iliade che perdura fino all’età moderna, poiché «in Omero è palese l’attenzione a sentimenti, come appunto la compassione, che caratterizzano le forme del sentire a lui contemporaneo»[236]:

 

L’altro interesse, cioè quello della compassione, non poteva Omero introdurlo nel suo poema in modo ch’ei si riferisse ad Achille o ai greci; […] Solamente poteva fare che la compassione si riferisse pur talvolta ai greci o a qualcuno di loro, come a soggetti secondarii e accidentalmente (qual è p. e. Patroclo), non come a soggetto primario della compassione, al qual soggetto tendessero tutte le fila del poema. Questo soggetto ei lo prese nella parte contraria alla greca, in quella parte alla quale doveva appartener la sventura, se alla greca doveva appartener la felicità. Egli scelse o finse tra’ nemici un Eroe per così dir, di sventura, il quale fosse opposto all’Eroe della fortuna, e l’interesse del quale dovesse perpetuamente bilanciare e contrastare e accompagnare l’interesse dell’altro nell’animo de’ lettori, questo Eroe sfortunato ei lo fece inferiore di forze ad Achille, ed anche ad Aiace e a Diomede, perché la superiorità delle forze doveva esser l’attributo e la lode principale della parte greca (lode ch’era ai tempi eroici la più grande); ma oltre che di forze eziandio lo fe’ superiore a tutti gli altri greci e troiani, di coraggio e magnanimità: lo fece pari allo stesso Achille, e nel rimanente ornandolo di qualità diverse da quelle di costui, lo venne però a far tale che tanto pesasse egli quanto questi[237]. 

 

Dunque Omero fu in grado di suscitare un forte trasporto emotivo anche per i moderni: se è vero che la poesia «ha sempre a che fare in Leopardi con il movimento e con l’energia»[238], ne deriva che l’impatto poetico che ha dato all’Iliade congiunge passioni derivanti da due caratteri opposti (quello appassionato di Achille e quello più razionale di Ettore), e nell’unire l’interesse per la virtù fortunata e felice dell’uno alla virtù sventurata

 

dell’altro, raggiunge in profondità l’animo del lettore19. E anzi, precisa D’Intino, «giacché l’interesse del lettore si stanca ben presto se l’eroe virtuoso è sempre e solo fortunato, l’affiancargli un eroe virtuoso ma sconfitto movimenta l’azione e l’animo del lettore»[239].

Dal momento che il coinvolgimento del recanatese per il tema dell’eroe (e della sua morte, e delle sue passioni), perdurò negli anni, ecco che già il sonetto puerile La morte di Ettore – o meglio, il suo protagonista – rimanda a una distinzione ricordata da Umberto Bosco in merito alla coesistenza di figure antitetiche nella poesia leopardiana matura, alla cui base c’è «il binomio ammirabile-amabile, cioè Achille-Ettore, DanteTasso, che è poi il binomio Bruto-Silvia (o Leopardi giovane stesso)», e così il critico spiega che «non si tratta d’un passaggio dall’uno all’altro termine di esso, ma di una perenne compresenza dei due termini, anche se in questa o in quella poesia prevalga l’uno o l’altro di essi»[240]. Secondo Bosco, Leopardi insiste a lungo su questa contrapposizione terminologico-tematica e su quanto la sventura contribuisca a rendere l’eroe degno di compassione. A tal proposito, Leopardi scrive così in un noto passo zibaldoniano: 

 

Insomma com’egli [Omero] aveva fatto in Achille un uomo sommamente ammirabile, così fece e volle fare in Ettore un eroe sommamente amabile. E come la vittoria riportata da Achille sopra l’invincibile Ettore, porta al colmo l’ammirazione per colui, colla sventura di Ettore mette il colmo alla sua amabilità e volge l’amore in compassione, la quale cadendo sopra un oggetto amabile è il colmo per così dire del sentimento amoroso. Molte sventure e di greci e di troiani si narrano o fingono nella Iliade, ma quella di Ettore è lo scopo del poema, ad essa tendono tutte le fila del medesimo niente meno e del paro

 

19 Cfr. F. Cacciapuoti, op. cit., p. 118: «Nello stesso tempo, questo effetto poetico può coincidere con un effetto morale, nel momento in cui il lettore trasporta su se stesso l’esigenza di cambiare le sorti dei malvagi o dei virtuosi attraverso il proprio atteggiamento: di odio verso i primi e di affetto, amore, compassione verso i secondi […]. Il lettore attraverso la poesia – che muove le passioni umane, penetra nelle emozioni, provoca il turbamento che fa presagire nuove azioni e scelte – può raggiungere la virtù».

che alla vittoria di Achille, e sempre unitamente: in essa il poema si chiude. […] Ma come nell’intenzione di Omero l’unico interesse non dovette essere quello di Achille, né l’unico soggetto e scopo la sua vittoria per se medesima, altrimenti egli non gli avrebbe posto incontro un tal Eroe qual fa Ettore; così neanche l’interesse d’Ettore dovette esser l’unico, né la sua sventura per se medesima l’unico soggetto e scopo del poema. Doppio dovette essere secondo l’intenzione di Omero, e doppio infatti riuscì a’ lettori o uditori greci l’interesse, lo scopo, e l’Eroe del poema[241].

 

L’Ettore di Leopardi si prefigura proprio come «amabile», poiché vinto dalla sventura e caduto per mano altrui, risultando tanto più compassionevole di quanto non lo siano altri eroi epici (come Achille) o storico-classici (come Bruto), e configurandosi con ciò l’esatto opposto del suicida romano: 

 

Notate come ci muova a compassione e c’intenerisca il veder qualunque persona che nell’atto di provare un dispiacere, una sventura, un dolore ec. dà segno della propria debolezza, e impotenza di liberarsene. Come anche il veder maltrattare anche leggermente una persona che non possa resistere[242].

 

Nonostante l’intero poema narri di imprese eroiche virtuose, «Leopardi nota che la virtù e la fortuna producono nel lettore o nello spettatore semplicemente l’ammirazione: è la sventura unita alla virtù che solo può far nascere in chi assiste o legge un “interesse vivissimo”, durevole e dolcissimo”»24 proprio perché l’uomo si nutre e si compiace del sentimento della compassione. Ecco perché Ettore è prediletto da Leopardi come eroe

 

amabile, «miserando / esemplo di sciagura»25 al pari di un Tasso per cui versò lacrime di compianto[243]. 

Tralasciando ora qualsivoglia commento sullo stile del sonetto (inevitabilmente ancora acerbo e influenzato dagli stilemi tragici alfieriani), si preferisce incentrare il focus sulla repentina sconfitta di Ettore, eroe positivo per eccellenza nonché esponente degli ideali di giustizia, onore e amor di patria che invece nel successivo Bruto minore stentano a riconoscersi, proprio perché impugnando «l’amaro ferro» il suicida di Filippi non si sacrifica per la patria, ma si infligge una silenziosa e titanica morte per suggellare una rivalsa personale[244]. In questo modo, il cesaricida non si pone affatto come eroe amabile, (alla stregua di Ettore), tutt’altro: Bruto sorride maligno alle ombre che lo accolgono, poiché già maliziosamente deciso a fare un torto al «destino invitto». Sa benissimo a cosa va incontro: il suo è un atto di vendetta, e un simile “eroico” atto non rende Bruto un martire degno di pietà o compassione, eppure lo rende ammirabile, quasi coraggioso nella sua perfidia. E pertanto, «consolare non si può chi sia ben conscio del suo destino, che quindi non ha bisogno d’esser consolato»[245]: Bruto sceglie di isolarsi, non pretende di essere compianto ma si persuade di risolvere la sua disfatta in un unico, cruento gesto volutamente autoriferito: 

 

Guerra mortale, eterna, o fato indegno, teco il prode guerreggia, di cedere inesperto[246]; e la tiranna tua destra, allor che vincitrice il grava,

 

25 G. Leopardi, Ad Angelo Mai, vv. 136-141: «Torna torna fra noi, sorgi dal muto / E sconsolato avello, / Se d’angoscia sei vago, o miserando / Esemplo di sciagura. Assai da quello / Che ti parve sì mesto e sì nefando, / È peggiorato il viver nostro», in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di M. Fubini, cit., p. 59.

indomito scrollando si pompeggia,

quando nell’alto lato l’amaro ferro intride, e maligno alle nere ombre sorride[247].

 

Nella perenne battaglia contro il destino, Leopardi ritrae Bruto come “incapace di cedere”, di dimostrarsi cioè domato dalla sorte e sottoposto alle sue leggi: e attingendo alla sua memoria classica, ritrova in Orazio l’espressione precisa per modellare l’inettitudine e l’inesperienza del suo Bruto: «Pelidae… cedere nescii» (Carm., I, 6, 6)[248].

E Bruto, infatti, nel suo pompeggiarsi si comporta «come un vincitore, non come un vinto»32, e cioè come un eroe – o meglio: rispecchiando la sua idea di eroe, perché dentro di sé, negli angoli scoperti della sua coscienza, lui ha già vinto la «guerra mortale, eterna» contro il fato, e questa vittoria quasi lo porta a soverchiare l’autorità degli avversi Numi, che, sconfitti e depotenziati, potrebbero idealmente gridargli: «O Bruto!... il Dio tu sei di Roma»[249], fino a incoronarlo signore indiscusso della Città Eterna. 

L’atteggiamento di Bruto si riflette anche sul piano stilistico, dal momento che «il soliloquio del protagonista si sposta contro il destino della natura umana, con un rilevante passaggio dal quadro storico all’orizzonte filosofico»[250]: la sua protesta non è contro un tiranno, né gli importa di scoprire perché lui e Cassio siano stati battuti. Il suo rivale non è più Antonio, non Ottaviano: l’acerrimo nemico contro cui ha concluso baldanzoso la sua rivalsa è solo e unicamente quell’empio destino che pare inaccettabile, il «tragico inganno della vita»[251]. Ma per un prode come lui, che dapprima armatosi di nobile vendetta finisce col far pompa di sé stesso, posando trionfante, l’abito dell’eroe non si addice. Per Bruto, la medaglia al valore non ci sarà: la gloria postuma non è contemplata.

Nonostante le differenti accezioni che gli eroi protagonisti del sonetto puerile e del canto presentano, si può affermare che il motivo unificatore che attraversa gli scritti

 

puerili fino a quelli del Leopardi maturo è il motivo della morte dell’eroe, formatosi all’interno di quella che Bonifazi definisce «camera oscura» in quanto «luogo che racchiude il corpo del soggetto poetico»36, ovvero una sorta di immaginario fanciullesco e primordiale che ha raccolto le impressioni più significative per il Leopardi, le quali hanno contribuito al formarsi della sua coscienza poetica. Dal mirino caleidoscopico della sua «camera oscura», Leopardi osserva e registra ogni episodio degno di sentimento, e scegliendo dalla sua memoria letteraria i modelli poetici che più vi si addicono, «piange ogni morte»[252]: che sia quella di Ettore, e poi di Bruto, di Saffo. Di Silvia. Ogni momento iconico si registra nella sua mente e si collega all’immaginario poetico coltivato dopo anni di letture.

Quello dell’eroe è un tema classico e insieme risorgimentale dal momento che, come spiega Stelio Cro, «per Leopardi il valore risorgimentale corrisponde al termine “classico”»; e allora il tema dell’eroe, in origine «prevalentemente letterario e filologico, si inserisce in questa “conversione” acquistando significato autobiografico e risorgimentale»[253]. Dunque per il poeta giovane l’eroe è emblema di eredità nazionale, di rigenerazione morale e intellettuale, adatto a risvegliare la coscienza civile nell’Italia del Risorgimento. Ma dopo il ’19 le idee di Leopardi cambiano: ed è evidente, già da questa prima premessa, che Bruto non può in alcun modo incarnare quell’ideale di eroe che avrebbe risvegliato le menti assopite, e forse anche un poco scosso quella «povera patria»[254] che Leopardi avrebbe desiderato veder rifiorire. Se in un primo momento,

 

36 N. Bonifazi, op. cit., p. 107: «Il movimento della poesia leopardiana è nello spostarsi immaginario tra il dentro e il fuori e viceversa, tra una camera e la sua finestra e un’altra camera e altra finestra, come perdute, proibite, viste di riflesso da fuori o da lontano, udite negli echi, nei canti, nei rumori. La camera oscura […] è il bulbo che genera per sovrapposizione, dall’oscurità e dal silenzio del sottoterra profondo, il fiore della poesia […]. In questa stanza nasce il personaggio poetico di Leopardi».

quindi, il modello eroico instillava nel giovane Giacomo una spinta propulsiva volta alla rincorsa dei più puri ideali, dopo il fallimento della fuga era come se fosse avvenuto «un antico misfatto, che continua[va] a ripetersi ogni giorno in forma di violenza subìta»[255] – la stessa, atroce violenza che Bruto, violentandosi lui stesso, si è trovato inerme a testimoniare. Se da una parte Ettore si avvicina «al soggetto moderno, abbandonato dagli dei, sventurato ma virtuoso» e diventa una sorta di eroe-guida, rappresentante valoroso dell’altruistico onor del popolo, proprio perché «la virtù lo salva dall’esser individuato come colpevole»[256], Bruto è invece colui che, egoisticamente respingendo il gusto amaro del disincanto, non solo si avvicina al soggetto moderno, ma lo incarna in tutto e per tutto, poiché segna quel trapasso di coscienza dall’ingenuità giovanile alla severità adulta conseguente alla discoperta del vero accompagnata e «a suo modo testimoniata da malinconia e ironia, da un habitus di maggiore compostezza e da una capacità ferma e lucidissima di giudicare e tirare innanzi la vita»[257]. 

E per meglio spiegare la predilezione di Leopardi per l’eroe Bruto – l’unico veramente moderno – tornano utili le parole con cui Bonifazi dipinge l’atmosfera recanatese, che dal punto di vista di Leopardi quasi somiglia a quella della desolata piana di Filippi:

 

Realtà frustrante, solitudine e malinconia, entrano ora in scena con abiti di lutto, come per una morte, e il poeta piange, infatti, per la morte di tutti e di tutto, e il piangere lo conforta, e se ritorna indietro col ricordo immaginario all’infanzia, ritrova sì speranze e illusioni, ma insieme alle delusioni, e se vi riflette nelle lettere e nel diario filosofico, ritrova ancora paura e solitudine, fin da allora, e pianto, fin dalla nascita. Questa è la necessità della poesia leopardiana, il prezzo che deve pagare il suo canto se vuole ovviare

 

dell’eloquenza e dell’immaginazione nella lirica e in quelle prose letterarie ch’io potrò scrivere; le armi della ragione, della logica, della filosofia ne’ trattati filosofici ch’io dispongo; e le armi del ridicolo ne’ dialoghi e novelle lucianee ch’io vo preparando (27 luglio 1821)».

alla noia e alla tetra malinconia: un piangere o rimpiangere ciò che non ha avuto, ciò che ha perduto senza ottenere[258].

 

A partire da quel travagliato periodo ’19-’21 Leopardi comincia a percepire la sua stessa vita come una lotta eroica contro il destino avverso, e deve dunque necessariamente abbandonare il modello epico di Ettore (esaltato da bambino) per innescare una vera e propria evoluzione psicologica (e filosofica) che lo porterà ad abbracciare con sentita partecipazione emotiva l’antieroe Bruto. E come lui, «si canterà da solo un funebre canto, un pianto non di richiesta, ma di disperazione, e tuttavia canto che allontana gli spettri», ricostituendo un nuovo ideale di «solitudine-punizione ingiusta, incoscienza e assoluzione» [259] – ma che, nel caso di Bruto, non arriverà a conoscere la funzione memoriale di un foscoliano sepolcro: 

 

E tu onore di pianti, Ettore, avrai Ove fia santo e lagrimato il sangue 

Per la patria versato, e finché il Sole  Risplenderà su le sciagure umane[260].

 

Se da una parte a Ettore è riconosciuta una degna fama, lo stesso non avviene per Bruto, poiché solo «a’ generosi / giusta di glorie dispensiera è morte»46. E questo non solo per una questione di causalità delle loro morti (l’una procurata da arma nemica e l’altra autoinflitta), bensì in rigore del rifiuto personale di Bruto per una commemorazione eterna che non vuole gli sia riconosciuta, e che quindi si presenta come una risposta in polemica con il classicismo dei Sepolcri, i quali, muovendo da un iniziale dubbio circa la funzione consolatrice del sepolcro («All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne / Confortate di pianto è forse il sonno / Della morte men duro?», vv. 1-3), arrivano, nello sviluppo del carme, a riconoscerne la validità, fino ad esaltarne il valore memoriale e glorificante: 

 

                            Testimonianza a’ fasti eran le tombe,

Ed are a’ figli; e uscian quindi i responsi  De’ domestici Lari, e fu temuto  Su la polve degli avi il giuramento:

[…]

 

Ma cipressi e cedri

Di puri effluvj i zefiri impregnando

Perenne verde protendean su l’urne Per memoria perenne, e prezïosi  Vasi raccogliean le lagrime votive[261].

 

Ma la funzione eternatrice del sepolcro è riservata esclusivamente a coloro che hanno meritato una degna fama a seguito delle azioni grandi compiute in vita, e anzi le urne degli spiriti magnanimi contribuiscono ad accrescere la speranza, ad alimentare l’ispirazione e la creazione di forme d’arte a chi si reca a visitarli («A egregie cose il forte animo accendono / l’urne de’ forti», vv. 151-152). Ma a chi, come Bruto, non lascia alcuna «eredità d’affetti», non è riservato alcun conforto:  

 

                            Sol chi non lascia eredità d’affetti

Poca gioia ha dell’urna; e se pur mira

Dopo l’esequie, errar vede il suo spirto

Fra ’l compianto de’ templi Acherontei,

O ricovrarsi sotto le grandi ale

Del perdono d’Iddio: ma la sua polve  

Lascia alle ortiche di deserta gleba

Ove nè donna innamorata preghi, Nè passegger solingo oda il sospiro

Che dal tumulo a noi manda Natura48. 

 

Come notato anche da Barberi Squarotti, «ciò che chiede Bruto in punto di morte è proprio ciò che depreca il Foscolo per il Parini: che il corpo del poeta giaccia confuso con quello di infiniti altri morti, senza un segno o un cippo che lo ricordi»49, circonfuso nell’oscurità dominata da uccelli notturni e dalla «derelitta cagna»:

 

Sdegnoso avello

 

Placar singulti, ornar parole e doni

Di vil caterva? In peggio 

Precipitano i tempi; e mal s’affida  

A putridi nepoti

L’onor d’egregie menti e la suprema

De’ miseri vendetta. A me dintorno  

Le penne il bruno augello avido roti; 

Prema la fera, e il nembo 

Tratti l’ignota spoglia;  

E l’aura il nome e la memoria accoglia[262]. 

 

Con l’ultima, brutale strofa del componimento Leopardi non si esime dall’esternare un’aspra smentita della funzione consolatrice del sepolcro, così come disdegna la fiducia nei posteri e il valore glorificante della memoria[263]. Infatti, come evidenziato da Roberto Rea, «l’ultimo verso del Bruto richiama ancora una volta, sempre a mo’ di negazione, i Sepolcri»[264], in cui le grandi gesta e la memoria sono proprio quei valori che, grazie alle urne votive, non possono esser obliati: 

Ma più beata chè in un tempio accolte

Serbi l’Itale glorie, uniche forse

Da che le mal vietate Alpi e l’alterna

Onnipotenza delle umane sorti 

Armi e sostanze t’invadeano ed are

E patria e, tranne la memoria, tutto[265].

 

E a riprova di quell’accostamento peculiare tra il recanatese e il tirannicida di Filippi, ecco che «il rifiuto del canto eternatore, che Bruto proclama, coinvolge anche strutture linguistiche e ideologiche che Leopardi aveva fatte proprie, e quindi assume una valenza autoreferenziale»[266]. Poiché riflettono gli echi filosofici propri di Leopardi, le parole che Bruto bestemmiatore pronuncia durante la sua abiura anticipano il fondamento della sua

 

ancora acerba filosofia spesso definita “pessimista”, che punta il dito contro l’indifferente quanto crudele natura: «Forse i travagli nostri, e forse il cielo / i casi acerbi e gl’infelici affetti / giocondo agli ozi suoi spettacol pose?» (vv. 49-51). Di nuovo, tornano utili le parole di Barberi Squarotti in proposito all’accostamento Giacomo-Bruto e al loro ripudio del valore commemorativo di un sepolcro glorificante: 

 

L’identificazione del giovane Leopardi con Bruto nel momento della condanna della virtù come vana parola, della coscienza della vanità dell’azione, della visione di un futuro “putrido”, della scelta conseguente della morte e del rifiuto della memoria presso i posteri e del valore d’esempio del tirannicidio, una volta che se ne è verificata l’inutilità effettiva a far risorgere i valori ormai abbandonati perché visti come illusioni e vanità dallo spirito razionalistico, filosofico, geometrizzante dei contemporanei, può, allora, essere anche un discorso intorno a una situazione storica omologa, e anche come una presentazione del particolare rapporto che, a proposito di Bruto, e con il classicismo contemporaneo Leopardi instaura con il mondo classico[267]. 

 

Sovvertendo l’ideologia foscoliana neoclassica dei Sepolcri, Leopardi esprime quel nascente sentimento di disprezzo nei confronti dei tempi moderni di cui Bruto sconfitto a Filippi si fa portavoce, mentre si rende conto dell’inutilità del ruolo rievocativo di una tomba indegna di accogliere l’alma di un suicida, ben conscio che vani sarebbero i pianti consolatori di una «prole infelice». Gli ultimi versi del Bruto minore, infatti, nel riprendere alcuni stessi termini presenti nei Sepolcri sconvolgono in maniera spietata l’augurio che Foscolo predice per sé stesso e per l’amico Pindemonte:  

 

A noi

Morte apparecchi riposato albergo

Ove una volta la fortuna cessi

Dalle vendette, e l’amistà raccolga Non di tesori eredità, ma caldi Sensi e di liberal carme l’esempio.  

A egregie cose il forte animo accendono

L’urne dei forti, o Pindemonte; e bella E santa fanno al peregrin la terra Che le ricetta[268].

 

In maniera diametralmente opposta al Foscolo, Leopardi non ripone la benché minima fiducia nelle future generazioni, così che la sua fede nei confronti dell’umana prole vien meno. E se non è ai posteri che vuole affidare la sua memoria di eroe-suicida, Bruto

 

preferisce che il suo nome venga disperso nel vento e completamente dimenticato, a costo di non lasciare alcuna immagine di sé che valga a commemorarlo. Come rilevato da Roberto Rea[269], i «putridi nepoti» a cui Bruto non intende affidare la sua eredità sarebbero un’eco dei «nepoti» guidati da Cassandra ai vv. 261-262 dei Sepolcri: «E guidava i nepoti, e l’amoroso / apprendeva lamento a’ giovinetti».

 E tuttavia, la scelta di Leopardi, volta a scuotere gli animi spenti dei contemporanei, ricade su Bruto perché diviene per lui un esempio di azione contro il governo dispotico: ecco quindi che «la risposta dei fatti al classicistico culto dell’antico eroe della rivolta contro la tirannia è quella che il Leopardi verifica ora, a restaurazione compiuta»[270], e non gli resta allora che riproporre la figura emblematica di Bruto, «simbolo classicistico di una rivoluzione che si era fondata su una mitologia, su un’iconografia, su una recitazione di modelli classici: ma con l’esperienza storica del dopo»[271], con la presa di consapevolezza maturata dalla coscienza filosofica del disinganno. 

Ad ogni modo, si può concludere affermando che dall’osservazione particolare della morte dell’eroe, Leopardi deduce un senso che racchiude per lui un valore universale, tanto da esser trasposto in poesia in quanto voce di una verità estetica (come avviene, secondo Stelio Cro, nella maggior parte dei suoi componimenti, tra cui L’Infinito, poiché le sue congetture assumono «quella dimensione indefinita che è propria dell’arte del Leopardi») e si capisce allora come «un’intuizione fanciullesca […] possa gradualmente acquistare il sapore epico delle canzoni patriottiche, il tono lirico dell’Infinito e il senso tragico del Bruto minore»[272].

 

Sin dall’infanzia, insomma, si profila in Giacomo un vivissimo interesse per la figura dell’eroe vinto da sventura: e proprio perché «la morte dell’eroe è un avvenimento di importanza universale»[273], essa costituirà un modello letterario che andrà evolvendosi per raggiungere l’acme stilistico nel Bruto minore, fino a costituire l’oggetto di quella lunga digressione sull’opera omerica nello Zibaldone del ’23:  

 

Or dunque oggidì le sventure cantate da’ poeti, non possono non interessar grandemente, e più che in ogni altro tempo, e tutti; essendo il sentimento della propria sventura l’universale e più continuo sentimento degli uomini d’oggidì, ed amando naturalmente gli uomini di parlare e udir parlare delle cose proprie, e riguardando ciascheduno la infelicità come propria sua cosa, e dilettandosi gli uomini singolarmente di quelli che loro più si assomigliano, né potendosi trovar somiglianza più universale che quella della infelicità, e compiacendosi ciascheduno di vedere in altrui o di legger ne’ poeti i suoi propri sentimenti, e contrando per somma ventura ogni volta ch’egli incontra o nella vita o ne’ libri qualche notabile conformità o di casi o di circostanze o di opinioni o di carattere o di pensieri o d’inclinazioni o di modi o di vita e abitudini, colle sue proprie; e consolandosi ciascheduno delle sue sventure coll’esempio vivamente rappresentato, e più col vederle quasi celebrate e piante in altrui (e ciò soggetto e circostanze e persone e avvenimenti illustri, come son quelli cantati ne’ poemi epici), innalzando il concetto di se stesso quasi il canto del poeta avesse per soggetto la di lui stessa infelicità, ed intenerendosi nella lettura quasi sui proprii mali[274]. 

 

Avvicinandosi all’età adulta, Leopardi inizia ad avvertire l’eroismo come condizione distintiva di chi va alla ricerca di una verità assoluta, quasi al di là dello scibile e, se si può dire, forse anche un poco “ultrasensibile”: e quella verità è anche l’illusione per

 

che culminerà nella poesia dell’“idillio”, primo fra tutti l’Infinito, momento meditativo di raccoglimento interiore del poeta che interroga se stesso e trova nel contrappunto poetico-filosofico-metafisico la formula del ricordo musicale ormai trasformato in arte ritmica e spaziale. L’Infinito è quindi un punto di arrivo e un punto di partenza. È il punto di arrivo della fase eroica che aveva dato le poesie e tragedie adolescenti e che continuerà in versi e in prosa fino alla morte sviluppandosi in motivi collaterali, moralistici, pedagogici e patriottici, ed è il punto di partenza per la nuova e più grande poesia leopardiana».

antonomasia che dall’Infinito rimane il perno attorno a cui ruota la singolare speculazione del filosofo di Recanati.

A questo punto è doveroso precisare che non solo Bruto, ma in generale il «classicismo eroico fu sentito dall’adolescente poeta come “alter-ego”»[275], da cui il recanatese, attraverso la sua peculiare sensibilità, ha colto l’aspetto tragico della morte e della sventura. Ma se la morte di Ettore avviene per mano del nemico, e dunque non per sua colpa, nel caso di Bruto essa è conseguenza del suo atto egoistico: in entrambi i casi, «l’ineluttabile sconfitta da parte di forze avverse, ostili e invincibili, siano esse o si chiamino la fortuna o il destino, la natura o gli dei»[276] è un punto di partenza da cui germoglia la sempre più complessa Weltanschauung leopardiana – che dal Bruto arriva alla Ginestra – mostrando infine che «il ritratto dell’eroe si è trasformato nell’autoritratto del filosofo»[277]. 

 

1.2. L’ECO EROICA DI ALFIERI

 

O salvar Roma io voglio,  o perir seco[278].

 

Quello dell’eroe colpito da sventura è uno stilema tragico che Leopardi riprende in parte anche da un autore che, rispetto al lontanissimo Omero, gli fu quasi contemporaneo: si tratta di Alfieri, di cui nutriva una rispettosa stima sin dal 1817: «Vedrò, dissi, il tuo marmo, Alfieri mio, / Vedrò la parte aprica e il dolce tetto / onde dicesti a questa terra addio / […] A piangere i’ verrò su la tua tomba»[279]. Più di una volta Leopardi si riferisce a lui con il possessivo “mio”, come nei seguenti versi dell’Angelo Mai, proprio per esasperare la vicinanza emotiva che lo legava al tragediografo di Asti, quasi come fosse stato un combattivo eroe moderno: 

 

Allobrogo feroce68, a cui dal polo

Maschia virtù, non già da questa mia

Stanca ed arida terra,

Venne nel petto; onde privato, inerme,

(Memorando ardimento) in su la scena

Mosse guerra a’ tiranni: almen si dia 

Questa misera guerra

E questo vano campo all’ire inferme

Del mondo. Ei primo e sol dentro all’arena

Scese, e nullo il seguì, che l’ozio e il brutto Silenzio or preme ai nostri innanzi a tutto.

Disdegnando e fremendo, immacolata 

Trasse la vita intera, 

E morte lo scampò dal veder peggio.  Vittorio mio, questa per te non era  Età né suolo[280].  

 

Il ritratto di un Alfieri ardimentoso che si erge ideologicamente contro i tiranni è presente anche nei già citati Sepolcri, nei quali perfino dopo la morte il piemontese non tace il suo amor di patria: 

 

E a questi marmi

Venne spesso Vittorio ad ispirarsi.

Irato a’ patrii Numi, errava muto 

Ove Arno è più deserto, i campi e il cielo

Desïoso mirando; e poi che nullo

Vivente aspetto gli molcea la cura,

 

68 Precisa Fubini in nota: «“Allobrogo si chiama esso Alfieri nella sua Vita […]” (nota marginale del L.)» in G. Leopardi, Canti, a cura di M. Fubini, cit., p. 59. Si veda dunque, di rimando, V. Alfieri, Vita, cit., p. 93: «E mi ricordo, tra l’altre, che nella Biblioteca Ambrosiana, datomi in mano dal bibliotecario non so più quale manoscritto autografo del Petrarca, da vero barbaro Allobrogo, lo buttai là, dicendo che non me n’importava nulla». In nota (ivi, p. 328), è ancor meglio spiegato da Dossena: «“Gli Allobrogi erano i Galli abitanti Savoia e Delfinato. “Fero Allobrogo” aveva chiamato l’A. il Parini nell’ode Il dono, pubblicata nel 1791, ed è probabile che questo sia un preciso ricordo del Parini, perché nella stesura del 1790 l’A. aveva scritto solo “come barbaro ch’io era”».

Qui posava l’austero; e avea sul volto Il pallor della morte e la speranza. Con questi grandi abita eterno: e l’ossa Fremono amor di patria[281]. 

 

Da questi versi emerge una somiglianza tra l’immagine che Foscolo ha dato di Alfieri e il Bruto di Leopardi: entrambi sono irati contro le divinità, entrambi sono vagabondi in una piana deserta, e nessuno dei due è capace di empatia verso alcun essere vivente. Due soli aspetti discostano apparentemente i due “eroi”: se Vittorio serba in sé sentimenti alti come la speranza e l’amor di patria, e crede fermamente nel valore commemorativo del sepolcro (da cui trae ispirazione), dall’altra parte Bruto non prova passioni al di fuori di un glaciale egoismo e di una malcelata misantropia, che lo portano a ripudiare il valore della lapide ad memoriam.

 Dal momento che nello Zibaldone è lo stesso Leopardi a considerarli autori degni di un pur minimo sentimento, l’accostamento finora proposto tra il recanatese, Foscolo e Alfieri non è casuale, poiché entrambi sono contemplati «alla luce della sua poetica, che oppone gli antichi ai moderni: a questi ultimi è concesso solo il canto nostalgico per i miti e le illusioni che la ragione ha distrutto, costringendo l’uomo negli angusti perimetri del reale»[282]:

 

Quei pochissimi poeti italiani che in questo o nel passato secolo hanno avuto qualche barlume di genio e natura poetica, qualche poco di forza nell’animo o nel sentimento, qualche poco di passione, sono stati tutti malinconici nelle loro poesie. (Alfieri, Foscolo ec.)[283]  

Indubbiamente, Alfieri fu per il giovane Leopardi un importante modello, non solo letterario ma, per certi aspetti, anche propedeutico all’insorgere di un «carattere per natura

 

appassionatissimo»73, ma in aspetti diversi. Se Leopardi dal canto suo ricalca l’immagine del giovane sensibile e riflessivo, attento nell’analizzare a fondo il vero delle cose, Alfieri si contraddistingue invece per un’acuta nota di vivissimo ardore – per cui bruciano incessantemente, anche di fronte alle delusioni politiche (che anzi, paiono quasi alimentarli), nazionalismo e amor di patria – che ben si armonizza col suo lato impetuoso quanto istintivo[284]. Insomma, come indica Bruno Maier la personalità di Alfieri si riassume in un «eroico e pessimistico individualismo», che significa «senso altero e profondo dell’“io”, aspirazione ad affermare decisamente se stesso e, quindi, lotta contro il mondo esterno, contro il “limite” costituito dalla medesima realtà»75. La forza di Leopardi si identifica, in qualche modo, a quella del suo maestro «in un impeto eroico-

individualistico il cui accento più profondo non si perderà mai pur rafforzandosi più tardi nella figura più moderna dell’intellettuale “progressivo”»[285].

Di certo, come già accennato in precedenza, la predilezione per la figura di Bruto arrivò, almeno in parte, dall’autore piemontese («Che Bruti, che Bruti di un Voltaire? io ne farò dei Bruti, e li farò tutt’a due: […] d’un lampo ideai ad un parto i due Bruti, quali poi li ho eseguiti»)[286], che proprio come Leopardi rimane impressionato dalle letture

 

73 V. Alfieri, Vita, cit., p. 116. Di fatto, l’animo «ardentissimo e disperato» di Leopardi sembra quasi una eco del «carattere per natura appassionatissimo» di Alfieri (certamente molto più estroverso rispetto al recanatese), che, forse un po’ come Leopardi, rimane affascinato dalla lettura delle Vite parallele di Plutarco e si rammarica di esser nato in un luogo e in un tempo che non lasciano spazio a nuovi eroi: «Ed alcune di quelle, come Timoleone, Cesare, Bruto, Pelopida, Catone, ed altre, sino a quattro e cinque volte le rilessi con un tale trasporto di grida, di pianti, e di furori pur anche, che chi fosse stato a sentirmi nella camera vicina mi avrebbe certamente tenuto per impazzato. All’udire certi gran tratti di quei sommi uomini, spessissimo io balzava in piedi agitatissimo, e fuori di me, e lagrime di dolore e di rabbia mi scaturivano dal vedermi nato in Piemonte ed in tempi e governi ove niuna alta cosa non si poteva né fare né dire, ed inutilmente appena forse ella si poteva sentire e pensare», in ibidem. Anche, a p. 231: «Ma io frattanto, menomate o sopite in me le mie intellettuali facoltà, altra occupazione, altro pensiero non ammetteva, che lo scrivere lettere; […] io sfogava il dolore, l’amicizia, l’amore, l’ira e tutti in somma i cotanti, e sì diversi, e sì indomiti affetti d’un cuor traboccante, e d’un animo mortalmente piagato. Ogni cosa letteraria mi si andava ad un tempo stesso estinguendo nella mente, e nel cuore». 

condotte in gioventù e precisamente «dalle maniere arcaizzanti dell’Ossian, dallo stile ruvido ed energico di Dante e da quello fastoso e visionario della Bibbia»[287].

Partendo dal presupposto che anche l’eroe biblico alfieriano instaura un rapporto sinergico col ferreo pugnale, Francesco Spera propone un raffronto proprio con il finale del Saul, quando l’anziano re, ormai sconfitto e rimasto solo, si rivolge prontamente all’arma prescelta per darsi la morte, e come accade al Bruto leopardiano «anche nel momento del fallimento soltanto la spada, che è la più fedele compagna, può garantire l’unica via d’uscita onorevole e coerente col suicidio»[288]:

 

Ma tu mi resti, o brando: all’ultim’uopo,  fido ministro, or vieni. – Ecco già gli urli dell’insolente vincitor: sul ciglio già lor fiaccole ardenti balenarmi veggo, e le spade a mille… – Empia Filiste,  me troverai, ma almen da re, qui… morto[289]. –

 

Così come Bruto si presenta «per l’atra notte in erma sede / fermo già di morir» (vv. 1112), anche Saul preferisce allontanarsi da tutto e tutti prima ancora di arrivare all’ora estrema: «Sol, con me stesso, io sto. – Di me soltanto, / (Misero re!) di me solo io non tremo»[290]. La morte di Saul, ponendosi come «un’estrema manifestazione di eroismo e di grandezza e una sorta di vittoria morale sui nemici filistei e su se stesso»[291], quasi chiama da lontano il Bruto di Leopardi, che si suicida cavalcando questa idea a suo modo “eroica”. E anzi ciò che potrebbe avvicinare in maniera peculiare le personalità disturbanti di Saul e Bruto è la compresenza di pulsioni assieme eroiche e tiranniche: commentando il Saul, Bruno Maier spiega che il sovrano è «insieme eroe e tiranno di se medesimo o unisce e fonde nella sua complessa interiorità slanci ed entusiasmi eroici […] e ombrosità

 

secondo (il cui protagonista è concepito addirittura come “un ente possibile fra l’uomo e il Dio”) e per i quali si impone uno stile adeguato». Di rimando, si veda l’introduzione dello stesso Alfieri al Bruto secondo: «Da voi, o generosi e liberi Italiani, spero che mi verrà perdonato l’oltraggio che io stava innocentemente facendo ai vostri avi, o bisavi, nell’attentarmi di presentar loro due Bruti; […] così pure ho certezza, che se dai vostri bisavi mi veniva di ciò dato biasimo, non potea egli però essere scevro del tutto di stima: perché tutti non poteano mai odiare o sprezzare colui, che nessuno individuo odiava; e che manifestamente sforzavasi (per quanto era in lui) di giovare a tutti, od ai più», in V. Alfieri, Tragedie, cit., pp. 537-538.

e malvagità tiranniche»[292]. Ciò potrebbe valere per il Bruto leopardiano nel momento in cui, non pienamente consapevole di essere in parte un tiranno, si punisce esattamente come aveva punito Cesare. 

Ad ogni modo, l’isolamento dell’eroe in punto di morte riflette in ambo i casi la decisione irremovibile di prendere le distanze da un popolo che si affida inerme alle modifiche della storia, incapace di comprendere l’emotività del singolo lacerata da una sciagura personale prima ancora che politica, e che, nel caso degli eroi alfieriani, incarna il loro ideale di libertà, proprio perché «tale morte è l’unica maniera di sottrarsi all’avversità degli uomini e delle circostanze o alla cieca sopraffazione del destino, di risolvere il conflitto con gli antagonisti e di riasserire – implicitamente – il principio della libertà o la sua irrinunciabile istanza ideale»[293].

Un altro aspetto che avvicina il recanatese ad Alfieri è la delusione di quest’ultimo «per l’imperfezione della storia», che «si trasforma concretamente in delusione di Foscolo per la politica di Napoleone, per la sconfitta di un’ideologia» [294] – che è la stessa sperimentata in prima persona da Leopardi al fallire dei moti del ’20-’21. Per tutti e tre, «a questa crisi si sposa la delusione esistenziale per una felicità umanamente impossibile»[295]; e dunque, costretti a vivere nel loro vile secolo, nutrono un sentimento di disprezzo per il presente riconoscendo invece il fascino della bellezza primitiva – quella dei miti, delle favole e degli eroi – vissuta dai soggetti decantati (sia in positivo che in negativo) nei loro componimenti, dai quali trapela la magnanimità degli eroi greci e romani che supera l’inettitudine dei moderni[296]. Tuttavia, tra i caratteri che allontanano il Bruto di Leopardi dagli eroi alfieriani vi è l’esaltazione in quest’ultimi di un tirannicidio tanto funzionale quanto sublime – e dunque eroico –, che viene giustificato proprio in

 

virtù di una rivendicazione storico-politica: infatti, come si è già accennato, un’eco alfieriana non secondaria (e, forse, tra le più immediate), è proprio quella che si cela nel Bruto secondo. Si cela, appunto: nonostante l’identicità della figura storica, il cesaricida alfieriano è solo un lontano parente dell’alter ego di Leopardi, proprio perché «la voce antica della natura che parla ancora al Bruto di Alfieri, ispirandogli la sublimità del tirannicidio, tace invece per il leopardiano Bruto minore» – spiega Angiola Ferraris, nel momento in cui «l’epilogo della sua storia (quella di Roma repubblicana) non ammette né interlocutori né spettatori: è oggetto di un canto che sia esso stesso mortale»[297] che scaturisce dalla scoperta del nuovo ordine delle cose.

Inoltre, i due Bruti sono dipinti rispettivamente in un pre e in un post cesaricidio:

e dunque, laddove per il primo si preannuncia un’aspettativa fiorente che apre le porte a un rinnovato regime di libertà («A morte, / a morte andiam, o a libertade»)[298], per il secondo passato e presente si coprono di un’ombra che non lascia spazio all’avvenire (a meno che questo non sia, secondo necessità, infausto). E proprio quella «ferrata necessità» risuona già, ma in misura minore, nel Bruto secondo nelle parole di Cesare: 

 

…Il cor mi squarci… Oh dura Necessità!... Seguir del core i moti Soli non posso. – Odiami, amato Bruto.  Troppo il servir di Roma è ormai maturo: con più alto danno per essa, e men virtude,

altri terralla, ove tenerla nieghi  Bruto di man di Cesare…[299]

 

Il sentimento dell’odio – di cui si nutre il Bruto leopardiano – sembra essere instillato già in questa sede proprio dall’invito di Cesare all’«amato» figlio. Certo l’odio non è l’unica passione presente nella versione alfieriana: ma in questo caso, Bruto è nobilmente virtuoso, amante della gloria, e ancora freme amor di patria («Bruto ama Roma; ed ama la gloria, e il retto»)91; non si pompeggia, ma è rappresentato, insomma, in veste di combattente ardimentoso (e quasi umile!) che incita i suoi compagni ad agire uniti: 

 

                            In reputarmi

 

piú forte e grande ch’io nol son, me grande e forte fai, piú ch’io per me nol fora. —

Cassio, ecco omai rasciutto ho il ciglio appieno. — Giá si appressan le tenebre: il gran giorno doman sará. Tutto di nuovo io giuro, quanto è fra noi giá risoluto. Io poso del tutto in voi; posate in me: null’altro chieggo da voi, fuor che aspettiate il cenno da me soltanto[300].

 

Tuttavia, nonostante l’audacia di Bruto si mantenga sempre viva dal primo all’ultimo atto, ciò che in coda comincia a emergere è una sorta di previsione collettiva della morte di Bruto, nel momento in cui confessa di aver riservato al padre quella spietata, cruenta fine che, com’è noto, si riverserà inesorabile su lui stesso: 

 

                        BRUTO. Sì; nel proprio sangue immerso

Cesare giace: ed io, benché non tinto  di sangue in man voi mi vediate il ferro, io pur cogli altri, io pur, Cesare uccisi… POPOLO. Ah traditor! tu pur morrai…

BRUTO.                                Già volta Sta dell’acciaro al petto mio la punta:  morire io vo’: ma, mi ascoltate pria[301]. 

 

Si intravede già, dunque, il motivo del suicidio, che Alfieri non avrebbe potuto qui rappresentare, o avrebbe peccato di eccessività di osceno tragico. Ma, soprattutto, non era quello il suo intento: e nel passaggio di testimone a Leopardi, rimane accesa la protesta di Bruto, poiché «Fiamma è il tuo dire, o Bruto…»[302]. 

E ancora, si potrebbe cogliere un’affinità tra il Filippo alfieriano, che è «la prima, grande individuazione del personaggio del tiranno»95 (ma si può prendere questo esempio come uno fra i tanti presenti nelle sue tragedie) e il Bruto minore nel momento in cui il re accusa il figlio Carlo di tentato parricidio (e già questo motivo può ben sovrapporsi alla vicenda storica dell’uccisione di Cesare da parte del figlio adottivo). Nella scena quinta

 

dell’atto III del Filippo, i versi che tratteggiano la simulata uccisione del padre da parte di Carlo sembrano un’eco anticipatrice del suicidio di Bruto:  

 

Appena l’astro apportator del giorno, lucido testimon d’ogni opra mia, gli altri miei regni a rischiarar sen giva, che giá coll’ombre della notte, amiche ai traditor, sorgea nel cor di Carlo altro orribil pensiero. A far vendetta dei perdonati falli ei muove il piede ver le mie stanze tacito. La destra d’un parricida acciaro armarsi egli osa. A me da tergo ei giá si appressa. Il ferro giá innalza; entro al paterno inerme fianco giá quasi il vibra...[303]

 

L’atmosfera e i termini utilizzati («destra», «ferro», «inerme fianco», che nel Bruto minore è reso con «alto lato») segnano una parziale coincidenza con l’atto gravoso di Bruto, «quando nell’alto lato / l’amaro ferro intride, / e maligno alle nere ombre sorride» (vv. 43-45) nella sua maliziosa sfida alla tiranna destra del fato. Ciò che fa di Carlo un anticipatore di Bruto è che in ambo i casi «l’ombra […] non appartiene al nemico, ma è proiettata da colui che insegue se stesso. Chi aspira a trascendere l’umano non danneggia che la propria umanità […] non fa che condannarsi a un eterno viaggio di ricerca e di espiazione»[304]. E tuttavia entrambi, inconsapevoli di questa cruda quanto sottile verità, sono mossi dal medesimo sentimento: quello della vendetta. Con simile – ma più sottile – accortezza rispetto all’Alfieri, Leopardi fu in grado, nel Bruto minore, di allontanare dalla scena l’atto veramente osceno (ossia il momento in cui l’eroe cade trafitto sulla propria spada)[305] affidando a una solenne seppur minima descrizione il gesto di chi si prepara ad infliggersi l’ultimo, spietato colpo: «Quando nell’alto lato / l’amaro ferro intride» (vv. 43-44)[306].

 

Al di là delle riprese tematico-stilistiche proprie delle tragedie alfieriane, il Bruto minore costituisce un punto di svolta anche nella misura in cui capovolge appieno lo statuto dell’eroe classico, così che «il tragico del Bruto minore leopardiano inaugura la negazione assoluta»[307]. Ciò significa che l’estrema sentenza del suo protagonista non risuona nelle ultime parole degli eroi alfieriani, e il suo gridare (rassegnata disperazione di un vinto che non accetta la sua sopraggiunta inettitudine) «assume forme ben più inusitate rispetto al tradizionale ultimo monologo di chi, sacrificando la propria vita, confermava il valore degli ideali per cui aveva combattuto e incitava gli altri a praticarli»[308]. Ciò che, in sostanza, allontana Leopardi da Alfieri e Foscolo sta nel motivo intrinseco della protesta dell’eroe tragico Bruto, che «rifiuta non un evento o una situazione della storia o un istituzione o il “tiranno” come simbolo di ciò che la storia ha di negativo», bensì la «continuità stessa della storia, il futuro, in quanto degradazione sempre più grave senza rimedio» [309] . Avvolto dalla disgrazia occorsa in sua vece, malfidente e certo di un futuro inospitale, non fa più battaglia mosso da amor di patria, né gli importa se dopo di lui l’onore delle egregie menti si affiderà alla noncuranza dei disonesti, stolti discendenti «imputriditi nell’ozio»[310].  E tuttavia, proprio questo motivo della non-memoria potrebbe ricercarsi anch’esso in Alfieri, nel già citato dialogo La virtù sconosciuta:

 

VITTORIO. Morto sei; né di te traccia alcuna in questo cieco mondo tu mi lasci, nol niego, per cui abbiano i presenti e futuri uomini a sapere con loro espresso vantaggio, che la rara tua luce nel mondo già fu[311]. Ignoto ai contemporanei tuoi tu vivevi, perché degni non

 

erano di conoscerti forse; e ad un reo silenzio mal mio grado ostinandoti, d’essere a’ tuoi posteri ignoto sceglievi, perché forse la presaga tua mente, con vero e troppo dolore antivedea, che in nulla migliori delle presenti le future generazioni sarebbero. Ma io, ben rimembrartelo dei, tante volte pur ti diceva, che uffizio e dovere d’ogni alto ingegno con umano cuore accoppiato si era il tentare almeno di renderle migliori d’alquanto, tramandando ad esse sublimi verità in sublime stile notate[312].

 

Ciò nonostante, in Alfieri permane comunque un disdegno verso il proprio tempo che supera ampiamente la sfera dell’insoddisfazione individuale: dopo poche battute, si legge infatti: «Ma in te più lo sdegno dei presenti tempi potea, che l’amor di te stesso e d’altrui»[313]. E uno sdegno così veracemente sentito nei confronti del vile secolo è dato in gran parte, per il Gori Gandellini interlocutore del dialogo (come per Bruto) dalla rivelazione del disinganno: 

 

Venendo io dalla magione del disinganno, potrei su questo umano delirio, che amor di fama si appella, dirti e dimostrarti tai cose, che non solo ti consolerebbero di questa tua ideale mia fama, da me non acquistata, (né acquistabile mai) ma ad un tempo istesso ti trarrebbero forse del cuore l’ardentissimo desiderio che della tua propria tu nutri nel petto […] Il forte sentire, credilo a me, egli è una liquida sottile infiammabile qualità, che per ogni nostra vena e fibra trascorre, ed a tutti i sensi si affaccia. Or, che saran questi grandi, che in altro nol sono, che nella potenza degli occhi? Non sono in quella neppure; s’infingono, s’ingannano, per ingannare[314]. 

 

È come se l’amico si ponesse in qualità di voce della coscienza (una coscienza disingannatrice) volta a illuminare Alfieri del vero essere delle cose, a mostrargli che l’«umano delirio», così ubriaco di forti passioni (del «forte sentire») ancora si pasce di un’eterna quanto inutile rincorsa al fantasma della fama, e di tutti gli altri ideali che ad essa si avvicinano. E anche lui stesso, infatti, dichiara: «non desiderava altro al mondo che il poter praticar la virtù: di quella parlo, che sola è la vera […]; quella, che conoscer

 

Fubini, cit., p. 227. Come Alfieri intende nel suo dialogo esaltare le qualità e la nobiltà d’animo dell’amico quand’era in vita, anche il recanatese rievoca, qui, la bellezza (sia fisica che intellettuale) di una donna di cui ora si conserva mera materia in via di dissolvenza. Cfr. introduzione di U. Dotti a G. Leopardi, Canti, a cura di U. Dotti, cit., p. 125: «Se la natura umana – si chiede infatti Leopardi – è soltanto costituita di miseria e di fango, come sembra attestare il destino del nostro corpo dopo la morte, come si spiegano i sentimenti elevati, le nobili e grandi azioni, il sentirsi dominatori dell’universo? Se invece essa è costituita anche da materia nobile (almeno in parte), capace di elevarsi al di sopra di quanto è soggetto alla corruzione e alla putrefazione, come mai sentimenti così alti e magnanimi cadono in potere della materia più ignobile di cui è composta la fonte della loro ispirazione, la bellezza muliebre, e, non diversamente da questa materia, tali sentimenti sono provvisori e destinati a spegnersi?». 

si può, ma immedesimarsela non mai, se non col continuo, pubblico, libero, e laudato esercizio di essa»[315]. Eppure, il mondo è mero inganno. 

 Ma Alfieri, a differenza di Leopardi-Bruto, non demorde, anzi spera vivamente che una virtù quasi più grande ancora di quella antica possa sopravvivere nei tempi moderni, e intende farne manifesto per i suoi contemporanei e per i posteri, sfoggiando l’esempio di Gori Gandellini[316]:

 

Io […] nutriva assai speranza di poter con evidenza dimostrare, che la virtù vi può essere ancor nei più servili tempi, e nei più viziosi governi; che tal virtù vi può essere, la quale, anche nulla operando, a quella che il più operasse giammai, si pareggi; e che in somma, quando ella nasce e dimora là dove tutto l’impedisce, la distrugge, o la scaccia, egli è ufficio di retto uomo, non che di verace amico, il manifestarla a tutti per consolare e incoraggire i pochissimi buoni, e per vie più confondere e intimorire i moltissimi rei. […] Ed ecco ancora un’altra particolar tua grandezza. Gli uomini conosci, ed i tempi e sì pure ti ostini a reputare non rara cosa la virtù, ed il vero[317].

 

E sembra quasi parlare direttamente al suicida di Filippi, quando rivolgendosi all’amico gli dice: «ignote eran forse le tue parti sublimi di verace antica virtù che ti avrebbero fatto di tua propria luce brillare in mezzo ai più sommi uomini di Roma libera»111.

E però, solo il Bruto di Leopardi ha il coraggio di scavalcare, nel suo essere presuntuosamente egoista, l’amarezza occorsa nel contesto storico, di porsi in conflitto con quel violento disinganno a cui non vuol credere: la virtù, per lui, è «stolta». Come nell’ultimo atto di una tragedia, il soliloquio di Bruto si tinge di toni altisonanti che costellano lo scenario greve su cui si spegne «l’ultima età dell’immaginazione», vissuta, come si è detto, da un Giacomo che in piena crisi esistenziale ha tuttavia intuito che «contro la degradazione del presente è possibile una battaglia culturale che utilizzi la letteratura per elevare la protesta contro il male e testimoniare i valori»[318]. Attraverso il

 

suo Bruto, Leopardi ha inteso mostrare quanto il giudizio umano – il giudizio, in questo caso, di un militante antitirannico – sia spesso soggetto a errore: nel suo anelito furioso, l’uomo insegue i fantasmi del proprio desiderio, si agita affannosamente nella rincorsa agli ideali ormai svaniti finendo per mettere in forse i suoi progetti razionali, poiché preda di quelle passioni irrazionali che guidano e condizionano il suo agire. Di fatto, le azioni grandi non possono più essere quelle degli eroi (poiché gli eroi son tutti caduti, hanno ceduto alla necessità), ma diventano quelle «di chi con la poesia punta a un’operazione intellettuale […] alta e coraggiosa» dal momento che «la virtù non è soltanto appannaggio dell’eroe per l’azione»[319], ma ha traslato verso la vocazione poetica e filosofica. 

Nel caso di Bruto, che si prepara a fronteggiare l’opposizione cesariana attraverso una battaglia che è anche – e soprattutto – una battaglia ideologica, «l’operazione implica già in partenza l’esito negativo sul piano della storia, ma questa sconfitta non impedisce la vittoria della parola»[320]. E infatti Bruto non si fa scrupoli, nel suo monologo funebre, di dequalificare la virtù a cosa di poco conto, di cantar vittoria bestemmiando gli dèi e ostentare giudizi di scherno nei confronti dei «marmorei numi», addirittura dubitando, quasi, perfino della loro esistenza («Se numi avete in Flegetonte albergo / O su le nubi», vv. 20-21), e alfierianamente mostrandosi «del giusto cielo / disprezzator sacrilego mendace»[321]. Questo disprezzo, che Bruto manifesta non solo nei riguardi dell’Olimpo ma anche verso sé stesso, è ravvisabile, ancora una volta, nel ritratto che Alfieri dipinge per l’amico:  

 

Sprezzator di te stesso io ti conobbi pur sempre già in vita; ed in ciò altresì, come in ogni altra cosa, del tutto ti conobbi dissimile, già non dirò dai volgari, ma dai più sommi uomini ancora: e perciò degno ti credeva, e ti credo (soffri ch’io il dica; adulazion qui non entra) degno d’esser primo fra i sommi[322].

 

E nonostante si disprezzasse in prima persona, era proprio in virtù di quella sua peculiarità che Alfieri lo ammirava, poiché solo così il suo differenziarsi «dai più sommi uomini» rendeva l’amico degno di lode e riconoscimento: e si potrebbe allora tracciare un parallelo

 

tutto, ben so, ti è nausea e noja; nulla t’inalza; nulla ti punge; nulla ti lusinga; ma, né cangiarlo tu puoi, né in un altro tuo esistere, se non col pensiero, e coi scritti. Pensa dunque, ancor tel ridico, pensa, e scrivi, a tuo senno; ma parla, e vivi, ed opera cogli uomini a senno dei più».

tra Alfieri-Leopardi e Gori Gandellini-Bruto. A tal proposito, si può affermare, con Angiola Ferraris, che «gli itinerari di Alfieri e di Leopardi alla ricerca della virtù perduta convergono nell’approdo finale all’idealizzazione dell’ethos eroico delle repubbliche antiche» – e, di fatto, tanto l’uno quanto l’altro sognano che la civiltà moderna rifiorisca proprio grazie all’apprendimento della morale antica e a un suo rinnovato e giusto uso – «la cui radice di areté/virtus alimentò per secoli la tradizione culturale del pensiero nobiliare europeo, attivamente operante, con accentuazioni diverse, nella formazione intellettuale dei due poeti»[323]. 

 Ma per Leopardi, l’antica virtù si spegne con Bruto: col suo suicidio, l’ultimo eroe sotterra anche l’ultimo, grande valore.  

 

2. LE PASSIONI DI BRUTO  

 

Io lasciava te immerso 

fra le tempeste di mille umane passioni[324].

 

2.1. UN EFFERATO DISPREZZO

Fra i numerosi sentimenti che accendono l’animo impetuoso di Bruto, primo fra tutti è emerso, in linea con l’alfierismo di Leopardi, un efferato disprezzo (verso qualcuno o qualcosa, ma anche verso sé stessi) che, mescolato al titanismo, è una matrice comune nei Canti composti dal ’21 in poi. Questo emerge, ad esempio, dai vv. 53-68 del Pensiero dominante, che sembrano riprendere proprio il passo de La virtù sconosciuta citato alla fine del paragrafo precedente: 

 

Sempre i codardi, e l’alme

Ingenerose, abbiette

Ebbi in dispregio. Or punge ogni atto indegno

Subito i sensi miei; 

Move l’alma ogni esempio Dell’umana viltà subito a sdegno.

Di questa età superba,

Che di vote speranze si nutrica,

Vaga di ciance, e di virtù nemica;

 

Stolta, che l’util chiede,

E inutile la vita

Quindi più sempre divenir non vede;

Maggior mi sento. A scherno 

Ho gli umani giudizi; e il vario volgo  A’ bei pensieri infesto,  

E degno tuo disprezzator, calpesto[325].  

 

Nel commentare il punto nevralgico del canto, Antonio Negri mostra come la riflessione etica del Leopardi maturo allarghi le sue maglie, nella disamina di temi che spaziano dall’amore alla morte al sogno. Ma «su base etica il mondo delle illusioni conoscitive viene discriminandosi, esso stesso», e allora «il riconoscimento dell’illusione amorosa, creativa, costruisce il mondo della verità, meglio, lo approssima, lo circonda, lo riorganizza»[326]: anche se tutto è pura illusione, il sentimento dell’amore riesce, con la sua «potenza etica»[327], a “dominare” una visione del mondo fino a quel momento troppo arida, così che il significato di quel «nulla» che è il mondo trova la sua espressione poetica.

Come Alfieri, anche Leopardi, si è detto, nutre un certo biasimo verso il suo «secol superbo e sciocco» (La ginestra, v. 53), che è nemico della virtù e si alimenta di vane speranze. E come Bruto, che all’indomani della disfatta pensa ed elabora il suo grido di protesta, nonostante l’autorità del fato lo travolga, così per il recanatese «la stessa mente, pur essendo sotto la dominazione, sembra dotata di una forza e di una risolutezza uguali alla potenza dominatrice»[328]. E allora giudica le sue genti (il «vario volgo»), che sono ignobili, capaci solo di sentimenti vili, e non si accorgono di vivere cercando sì l’utile (in accordo con la cultura contemporanea)[329], ma disprezzando (poiché non lo comprendono) il pensiero più nobile di tutti: l’amore, ai cui bei concetti sembrano estranei. Certo qui il tema è ben diverso, poiché si tratta della «trascrizione di un grande, adulto amore»124

 

quell’amore che invadeva l’animo «ardentissimo» di Giacomo e tuttavia non corrisposto da Fanny. Eppure, proprio per questo «l’adattarsi a una situazione moralmente e sentimentalmente umiliante sarebbe consentaneo con lo stato d’animo di rafforzata intransigenza morale, che il Pensiero dominante ci descrive»[330]: e con ciò, Leopardi si sente un individuo più sensibilmente maggiore sia rispetto al suo tempo, che alla moltitudine di anime codarde e vuote, grazie a una «orgogliosa coscienza della propria superiorità, propria di chi non ha soltanto sentito, ma giudicato secondo un saldo sistema di pensiero la pochezza altrui»[331]. 

 E come nel Bruto minore la «prole infelice» era oggetto di «ludibrio e scherno» per gli immortali abitatori dell’Olimpo, qui, nel Pensiero dominante, il giudizio si ribalta, perché è Leopardi stesso – mortale abitatore terreno – ad avere «a scherno» le ferme convinzioni ostentate da una massa di uomini infelici che credono nel progresso dei lumi127. E a ragione commenta Bosco quando afferma che tra questi versi e quelli del Bruto «non c’è sostanziale differenza di timbro, anche in certo gladiatorismo un poco esteriore. Il fatto è che l’orgoglio titanico è tanto più forte quanto più forte è la facoltà d’illusione»[332]. E Leopardi, che negli anni ’30 era immerso nella passione amorosa per Fanny, a differenza del suo Bruto non giudica l’umanità in virtù di un odio disperato che lo erge idealmente a incontrastato “signore di Roma”, bensì proprio guidato da quel sentimento d’amore che lo irradia di nuova e fiera consapevolezza del suo sentire, che gli fa vedere, per contrasto, la meschinità del sentimento comune.

Un’aura di forte spregio è evidente anche – e soprattutto – nei versi finali di A se stesso (in cui il poeta è solo, «disperato e sprezzante e bestemmiante come Bruto»)129, che costituiscono una delle punte più alte e crude mai scritte del recanatese: 

 

Ormai disprezza

Te, la natura, il brutto 

Poter che, ascoso, a comun danno impera, 

 

E l’infinita vanità del tutto[333].

 

Similmente a quanto accade a Bruto, ancora nel 1835 (data di stesura del componimento), per Leopardi «il sentimento altissimo della propria personalità […] giunge, per così dire, al massimo della sua eroica tensione, risolvendosi in un atteggiamento di totale disprezzo verso ogni cosa e creatura e illusione, e persino verso il proprio “cuore”»131. E se è vero che «la veemenza dell’ingiuria è pari alla veemenza dell’amore»[334], si spiega come questo atteggiamento (che è una condanna senza protesta) sia palpabile già dai primi due versi del componimento («Or poserai per sempre, / Stanco mio cor. Perì l’inganno estremo», vv. 1-2), in cui, nell’evanescenza dell’ultimo inganno (che per Giacomo era l’amore, sia quello provato per Fanny-Aspasia, sia quello stesso «Amor, di nostra vita ultimo inganno» della canzone Ad Angelo Mai e che ritorna in forma mitica e larvale nella Storia del genere umano) si legge il medesimo testamento di Bruto che ripudia l’inganno della virtù, perito «per sempre», ma che è qui ripetuto «meno programmaticamente e fuori d’ogni amplificazione storica, […] in chiave d’angoscia più intensa»[335]. In questi versi, il recanatese invita il suo cuore stanco a dispregiare ogni nemico: sé stesso, la natura, la legge arcana e nascosta che governa la natura stessa [336] , e l’«infinita vanità» (cioè l’«inutile inconsistenza»)[337] di ogni cosa. Ma, come già si è detto, Leopardi è ormai arrivato, a questo punto, a uno stadio di maturata saggezza, virtuoso nella “pazienza”: Bruto non sarebbe stato in grado, al posto suo, di disprezzare la vanità del tutto sostando immobile in una resa silenziosa, ma si è fatto in un unico momento «accusatore feroce della divinità e del fato, e l’infelice odiatore di se stesso»136.

 

 

2.2. L’ALTO RISCHIO DELLAMOR PROPRIO: LEGOISMO

Quando non si riesce a discernere il disprezzo della vita dal disprezzo di sé, si rischia di confondere i due piani, incorrendo in gesti che possono apparire incauti (come, nel caso più estremo, il suicidio). Ma il suicidio di Bruto è tutt’altro che incauto, è anzi l’espressione ultima del suo individualissimo pathos, che, sebbene tempestoso, è guidato da un unico sentimento, più intenso di tutti: l’egoismo. 

 

Bisogna distinguere tra egoismo e amor proprio. Il primo non è che una specie del secondo. L’egoismo è quando l’uomo ripone il suo amor proprio in non pensare che a se stesso, non operare che per se stesso immediatamente, rigettando l’operare per altrui con intenzione lontana e non ben distinta dall’operante, ma reale, saldissima e continua, d’indirizzare quelle medesime operazioni a se stesso come ad ultimo ed unico vero fine, il che l’amor proprio può ben fare, e fa. Ho detto altrove che l’amor proprio è tanto maggiore nell’uomo quanto in esso è maggiore la vita o la vitalità, e questa è tanto maggiore nell’uomo quanto maggiore è la forza e l’attività dell’animo, e del corpo ancora. Ma questo, che è verissimo dell’amor proprio, non è né si deve intendere egoismo. […] I fanciulli, i giovani, gli uomini sensibili sono assai più teneri di se stessi che nol sono i loro contrarii. Così generalmente furono gli antichi rispetto ai moderni, e i selvaggi rispetto ai civili, perché più forti di corpo, più forti ed attivi e vivaci d’animo e d’immaginazione (sì per le circostanze fisiche, sì per le morali), meno disingannati, e insomma maggiormente e più intensamente viventi[338]. 

 

Alla base della sezione Trattato delle passioni umane, «ricalcata per vie indirette su Rousseau, Leopardi pone il concetto di amor proprio (forse non sufficientemente distinto da quello di amore di sé[339]. Il passo riportato, risalente all’agosto 1823, è uno dei più noti scritti dal recanatese attorno al tema dell’egoismo e dell’amor proprio, passioni centrali non solo nel personaggio di Bruto ma soprattutto nella disamina delle passioni umane in generale (poiché «ogni qualunque operazione dell’animo nostro ha sempre la

 

sua certa e inevitabile origine nell’egoismo»)[340]. Nel Bruto minore si ravvisa, tra l’altro, anche la differenza evidenziata da Leopardi, in brani affini al precedente, riguardo la peculiarità distintiva degli uomini, rispetto agli altri animali, di agire moralmente di fronte agli eventi e alle sfide della natura, nonché di capacitarsi delle proprie passioni, a differenza di quelle «fortunate belve» che, mosse dal mero istinto di autoconservazione, trascorrono ogni giorno più vicine alla «tarda età» senza aver coscienza del naturale decorso delle cose[341]. Infatti, «il patire, cioè la capacità di subire una passione, è comune a tutte le creature: vegetali, animali, uomini»; la discrepanza tra gli uni e gli altri sta appunto nella consapevolezza (che è più forte negli uomini) «e quindi nella conoscenza del proprio male o del male nel mondo»[342]. Secondo Leopardi, infatti, l’uomo è destinato a crescere a livello morale, ma «questa capacità di crescere moralmente più di qualsiasi altro vivente non è un dono della natura; è puramente un fatto accidentale, né previsto né voluto da essa»[343]. Naturalmente, all’altezza del 1821 Leopardi non ha ancora maturato un pensiero definitivo, si porta dietro gli strascichi della delusione storica; e pertanto, questo primo stadio della sua filosofia (da cui passa trasversalmente il Bruto minore) è quello in cui la condizione di infelicità e insoddisfazione dell’uomo è vista come «un portato essenzialmente storico, e nella quale le nozioni di male agìto e male subìto tendono a sovrapporsi e in un certo senso a confondersi»: l’esempio di Bruto incarna, da un lato, il momento leopardiano in cui «il male (allontanamento dalla natura, uso eccessivo della ragione) è un prodotto dell’agire dell’uomo e di esso l’uomo subisce le conseguenze»[344]. Ma, dall’altro, come si diceva già in precedenza, essendo il Bruto un momento di passaggio in toto ecco che in esso si contendono e la fase del “pessimismo

 

storico” e la fase del “pessimismo cosmico”, poiché già Bruto, con la sua bestemmia e desiderio di vendetta instilla il germe della rivolta contro l’indifferente Natura. A questo proposito, non si può trascurare un breve ma esemplare passo dello Zibaldone, in cui è illustrato come «il sentimento della vendetta è così grato che spesso si desidera d’essere ingiuriato per potersi vendicare, e non dico già solamente da un nemico abituale, ma da un indifferente, o anche (massime in certi momenti d’umor nero) da un amico»[345]. Così, quell’«indifferente» verso cui si può nutrire un forte sentimento di vendetta è, nel caso di Bruto, l’Olimpo (e, leopardianamente, la natura).

Dal Bruto minore insomma iniziano a concretizzarsi una serie di riflessioni sui sentimenti umani, sulla natura degli uomini e delle cose che, partendo proprio dall’analisi delle passioni, permettono di considerare il pensiero di Leopardi «come una lunga, ininterrotta meditazione sull’enigma del male, da intendersi sia come male morale, cioè come colpa, peccato e simili, sia, e soprattutto, come male subìto, ovvero come sofferenza, infelicità, pena»[346].

Seguendo la terminologia proposta da Marco Moneta, si potrebbe affermare che Bruto sperimenta sia un male morale, poiché si macchia della colpa del suicidio, sia un male subìto, poiché il suo rammarico – e, dunque, la sua infelicità – gli causa una tale afflizione, un tale disgusto, che quasi pare travolto dalle passioni: cioè, le subisce. Come se il soggetto del componimento non fosse tanto Bruto in sé, quanto le passioni di Bruto. La sua non è solo una sconfitta politica, ma, sul piano personale, diventa una felicità negata: come espone Moneta, la riflessione di Leopardi è sempre più segnata da un «compianto per la felicità negata […] dove con quest’espressione si deve intendere, in modo assai prossimo all’antico significato di eudaimonìa, non tanto la mancata realizzazione degli obiettivi dell’agire, quanto» – e ciò vale ugualmente per Bruto – «la non riuscita della vita, la quale, anche per Leopardi, non è un obiettivo dell’agire, ma il suo stesso principio o condizione»[347]. Bruto non riesce a concludere la vita: la recide troppo in fretta. E la sua diventa «la favola d’un fiore reciso dalla ragione»[348].

 

 Di fatto, l’egoismo di Bruto s’innerva conseguentemente al sopraggiungere della ragione – causa per cui l’uomo sperimenta una irrisolvibile infelicità –, quella ragione disvelatrice dell’agro inganno della vita, nonché «vocazione che lo umilia e lo condanna nei confronti d’ogni altro essere e della stessa materia vivente»[349]. Una volta che la ragione ha provveduto a disingannarlo, mostrando il carattere illusorio degli antichi valori, ecco che anche l’ideale eroico si trasforma «e si integra in quello dell’eroe del vero: la verità diventa suprema dignità umana, virtù»[350]. Eppure Bruto è talmente pieno di sé, talmente sprezzante, che perde anche l’ultima fiamma di dignità, o meglio sceglie di perderla, e firma il suo testamento invocando una totale cancellazione del suo ricordo dalla sfera dell’umano, attraverso una auto-umiliazione che dissolva i suoi resti e il suo nome assieme alla polvere. 

 Ma come tutti gli uomini, anche Bruto certo non agisce esclusivamente mosso dalla presenza di idee astratte, bensì, come abbiamo detto, da passioni: è come una molla che scatta, e questa molla è, appunto, l’amor proprio, che è «sottilissimo, e s’insinua da per tutto, e si trova nascosto ne’ luoghi più reconditi del nostro cuore, e che paiono più impenetrabili a questa passione»[351]:

 

Ma l’amor di se stesso è l’unica possibile molla delle azioni e dei sentimenti umani, secondo ch’è applicato a questo o quello scopo virtuoso o vizioso, grande o basso ec. Diminuita dunque, e depressa, e ridotta a pochissimo (cioè a quanto meno è possibile mentre l’uomo vive) l’elasticità e la forza di molla, l’uomo non è più capace né di azioni, né di sentimenti vivi e forti ec. né verso se stesso, né verso gli altri, giacché anche verso gli altri, anche ai sacrifizi ec. non lo può spingere altra forza che l’amor proprio, in quella tal guisa applicato e diretto. E così l’uomo ch’è divenuto per forza indifferente verso tutto, è ridotto all’inazione fisica e morale. E l’indebolimento dell’amor proprio, in quanto amor proprio e radicalmente, […] cioè il vero indebolimento di questo amore, è cagione dell’indebolimento della virtù, dell’entusiasmo, dell’eroismo, della magnanimità, di tutto quello che sembra a prima vista il

 

doloroso moto d’affetti, ma la favola amara d’un fiore reciso dalla ragione e disseccato e conservato nella mente come un relitto prezioso e raro, un’immagine di aridità e di morte suggestivamente dilatata dal piano storico a sfondi cosmici e metafisici».

più nemico dell’amor proprio, il più bisognoso del suo abbassamento per trionfare e manifestarsi, il più contrario e danneggiato dalla forza dell’amor individuale151.  

 

L’amor proprio, tuttavia, non è un sentimento fatto e finito di per sé. A seconda della capacità di assuefazione di ognuno (che è una sorta di malleabilità, di plasticità dell’animo umano)152, infatti, esso può portare a due diversi esiti: il primo è «la trasformazione dell’amor proprio in amor patrio, congiunta al costituirsi della nazione, fondata sull’uguaglianza-libertà e sull’utilità comune»[352], ovverosia l’eroismo (l’amor proprio in quanto tale), che si verifica quando l’assuefazione abituale si alimenta di verità e illusione, di forza e passione, e riesce dunque a plasmare la natura trasformandola in civiltà attraverso la creazione di opere sublimi (sono i valori della società antica, ad esempio l’amor di patria, l’aspirazione al bello, eccetera). Ma se è vero che ogni azione dell’uomo «è condizionata da emozioni, molte volte non risolte, che impediscono di realizzare il consiglio degli antichi: conoscere se stessi»[353], ecco che l’altro risultato – il più infido – è, invece, «la trasformazione dell’amor proprio in egoismo, congiunta alla società individualistica, priva di vero amor patrio, e quindi di virtù»[354]. E questo risultato non è altro che il troppo amor di sé, cioè «l’egoismo imperante e l’odio verso i propri simili, passione nera sulla quale, secondo Leopardi, è strutturata la società»[355].   Sull’importanza che un comportamento egoistico assume nella costruzione di una buona società, Leopardi insiste a lungo (e lo farà in maniera più ampia nel Discorso sullo

 

151 Z 958,1, in ivi, pp. 44-45: «Così il detto indebolimento secca la vena della poesia, e dell’immaginazione, e l’uomo non amando, se non poco, se stesso, non ama più la natura; non sentendo il proprio affetto, non sente più la natura, né l’efficacia della bellezza ec. Una nebbia grevissima d’indifferenza sorgente immediata d’inazione e insensibilità, si spande su tutto l’animo suo, e su tutte le sue facoltà, da che egli è divenuto indifferente, o poco sensibile verso quell’oggetto ch’è il solo capace d’interessarlo e di muoverlo moralmente o fisicamente verso tutti gli altri oggetti in qualunque modo, dico se stesso [19. Aprile. 1821]». 152 Secondo quanto scrive Leopardi in Z 208, «L’assuefazione è una seconda natura, e s’introduce quasi insensibilmente, e porta o distrugge delle qualità innumerabili, che acquistate o perdute, ci persuadiamo ben presto di non potere avere, o di non poter non avere, e ascriviamo a leggi eterne e immutabili, a sistema naturale, a Provvidenza ec. l’opera del caso e delle circostanze accidentali e arbitrarie», in G. Leopardi, Tutte le opere, con introduzione e a cura di W. Binni, con la collaborazione di E. Ghidetti, Firenze, Sansoni, 1969, vol. II, p. 95.

stato presente dei costumi degl’Italiani); in particolare, in Z 669,1 è esposto un ragionamento che ben può riflettere la scelta di Bruto a fronte di una società in declino: 

 

Quanto più si trova nell’individuo il se stesso, tanto meno esiste veramente la società. Così se l’egoismo è intero, la società non esiste se non di nome. Perché ciascuno individuo non avendo per fine se non se medesimo, non curando affatto il ben comune, e nessun pensiero o azione sua essendo diretta al bene o piacere altrui, ciascuno individuo forma da se solo una società a parte, ed intera, e perfettamente distinta, giacché è perfettamente distinto il suo fine; e così il mondo torna qual era da principio, e innanzi all’origine della società, la quale resta sciolta quanto al fatto e alla sostanza, e quanto alla ragione ed essenza sua[356].

 

Tuttavia, la società può funzionare solo grazie a un atteggiamento scambievole, di cooperazione, in cui ogni uomo fa conto dell’altro, considerandolo come necessario alla propria felicità: se ognuno pensasse unicamente a sé stesso, si ricadrebbe in uno stato primordiale. E così si legge nella Ginestra, «ultima incarnazione dell’ideale eroico leopardiano, identificato ormai con tutta l’umanità»[357]:

 

E quell'orror che primo Contro l'empia natura

Strinse i mortali in social catena,

Fia ricondotto in parte

Da verace saper, l'onesto e il retto

Conversar cittadino,

E giustizia e pietade, altra radice

Avranno allor che non superbe fole,

Ove fondata probità del volgo

Così star suole in piede

Quale star può quel ch'ha in error la sede[358].

 

L’argomentazione racchiusa in questi versi pare essere una ripresa del passo zibaldoniano citato sopra: a nulla valgono le «favole tracotanti (che raccontano cioè di una inesistente superiorità o centralità dell’uomo)»[359] a reggere una società – poiché la reggerebbero al pari di una qualsiasi teoria fondata su errore –; sono invece i giusti e onesti rapporti sociali

 

ad aver radici ben più salde, atti a condurre le masse a un educato percorso morale. Come commenta Luporini, in questo caso «il vero e la ragione non sono più nemici dell’uomo e della sua felicità, ma hanno nell’umanità funzione liberatrice (nulla al ver detraendo) dalle “superbe fole”» che ingannano l’uomo[360]. 

Ma l’eroismo era il sentimento tipico degli antichi, magnanimi e virtuosi. E Bruto, che sta sul limine tra antico e moderno, si nutre voracemente di questa nera passione dell’egoismo, proprio perché non è stato in grado di accettare il disincanto e la disillusione, non ha seguito alcun principio di utilitas o di altruismo: così operando, «l’Egoismo diviene la negazione dei fini comuni che connotano il viver civile»[361], e stende il tappeto rosso all’arrivo della barbarie («A spezzar le romane inclite mura / chiama i gotici brandi», Bruto minore, vv. 8-9). Non solo: l’egoismo è un vero e proprio vizio, «la sigla abbietta dell’uomo contemporaneo»[362], che per la troppa ragione spegne la facoltà immaginativa e trascina l’uomo nella discoperta dell’arido vero, così che arriva a odiare la vita pubblica, senza pensare ad altro se non al suo tornaconto personale: 

 

La cagione di questo è che l’odio è passione […]. Sentite i filosofi. Bisogna fare che l’uomo si muova per la ragione, come, anzi piú assai che per la passione, anzi si muova per la sola ragione e dovere. Bubbole. La natura degli uomini e delle cose può ben esser corrotta, ma non corretta. E se lasciassimo fare alla natura, le cose andrebbero benissimo, non ostante la detta superiorità della passione sulla ragione. Non bisogna estinguer la passione colla ragione, ma convertir la ragione in passione; fare che il dovere, la virtú, l’eroismo ec. diventino passioni. Tali sono per natura. Tali erano presso gli antichi, e le cose andavano molto meglio. Ma, quando la sola passione del mondo è l’egoismo, allora si ha ben ragione di gridar contro la passione. Ma come spegner l’egoismo colla ragione che n’é la nutrice, dissipando le illusioni? E senza ciò, l’uomo privo di passioni non si muoverebbe per loro, ma neanche per la ragione, perché le cose son fatte cosí e non si possono cambiare; ché la ragione non è forza viva né motrice, e l’uomo non farà altro che

 

divenirne indolente, inattivo, immobile, indifferente, infingardo, com’é divenuto in grandissima parte[363].  

 

Dal momento che la virtù di Bruto non è più una virtù pubblica, ma prettamente egocentrata, solipsistica, e «stolta», destinata a svanire con l’abiura, ne deriva che il più alto rischio derivante dall’egoismo è questo: che essendo un sentimento «inseparabile dall’uomo», si espanda universalmente nel cuore corrotto di tutti gli uomini, portando così a una totale perdita della virtù quale valore a fondamento della società:  

 

L’egoismo è sempre stata la peste della società e quanto è stato maggiore, tanto peggiore è stata la condizione della società; e quindi tanto peggiori essenzialmente quelle istituzioni che maggiormente lo favoriscono o direttamente o indirettamente, come fa soprattutto il dispotismo […]. L’egoismo è inseparabile dall’uomo, cioè l’amor proprio; ma per egoismo s’intende più propriamente un amor proprio mal diretto, male impiegato, rivolto ai propri vantaggi reali, e non a quelli che derivano dall’eroismo, dai sacrifizi, dalle virtù, dall’onore, dall’amicizia ec. Quando dunque questo egoismo è giunto al colmo, per intensità e per universalità, e quando, a motivo e dell’intensità e massime dell’universalità, si è levata la maschera […], allora la natura del commercio sociale […] cangia quasi intieramente. Perché ciascuno pensando per se (tanto per sua propria inclinazione, quanto perché nessun altro vi pensa più, e perché il bene di ciascheduno è confidato a lui solo), si superano tutti i riguardi, l’uno toglie la preda dalla bocca e dalle unghie dell’altro; gl’individui di quella che si chiama società sono ciascheduno in guerra più o meno aperta con ciascun altro e con tutti insieme; il più forte sotto qualunque riguardo, la vince; il cedere agli altri qualsivoglia cosa o per creanza o per virtù, onore ec., è inutile, dannoso e pazzo, perché gli altri non ti son grati, non ti rendono nulla, e di quanto tu cedi loro o di quella minore resistenza che opponi loro, profittano in loro vantaggio solamente e quindi in danno tuo[364].  

 

Secondo Leopardi, dire che l’egoismo è «inseparabile dall’uomo» implica che questo coincide con lo stato in assoluto più primordiale dell’uomo, ovvero lo stato naturale inteso come anteriore alla nascita della società e che anzi mette in mostra il carattere antisociale degli esseri umani. Prendendo in prestito le parole di Luporini, si può affermare che «lo stato naturale è qui inteso, alla maniera di Hobbes, come egoismo assoluto e originario, ma proprio per questo come stato pre-sociale, come stato che anzi denunzierebbe la

 

fondamentale asocialità o antisocialità dell’uomo»[365]. Dire che nella società moderna sia ormai imperante l’egoismo individuale non significa considerarla come coincidente con lo stato naturale, bensì con uno stato di barbarie poiché in essa vige la corruzione, ossia il decadimento delle vere e antiche virtù che stavano alla base della società. È in questo aspetto che Bruto si avvicina spaventosamente al moderno: perché, rimpiangendo la virtù caduta e scagliandosi contro una società futura che non vuole veder rifiorire, si comporta quale barbaro egoista che, togliendosi la vita, mette da parte qualsiasi pensiero rivolto verso l’altro, rinnegando le fondamenta del vivere comune.

Volendo riprendere le espressioni dello stesso Leopardi, l’egoismo è, più che un “risultato”, «una patologia, un indebolimento della vitalità e forza del carattere»[366] che, nella sua portata individuale, tende a distruggere la società. Dunque egoismo e altruismo non sono che due differenti assuefazioni dell’amor proprio, la prima tipica del vizio, la seconda della virtù, e dipendono dalla capacità dell’uomo a operare in società sulla base delle proprie inclinazioni emotive e volitive, poiché è «nell’ambito del processo (non meramente adattivo) dell’assuefazione, che si svolge la dinamica degli affetti»[367].

A proposito di eroismo, si è detto già che Bruto non è un eroe nel senso classico e tradizionale della parola, bensì lo è solo da un particolare punto di vista – il suo –, poiché, come evidenziato anche da Marcazzan, «l’eroismo del Bruto ha per oggetto se stesso, un’affermazione che misura la sua altezza non dall’urto con una società inerte e restia, ma coll’implacabilità di una legge irremovibile e colla marmorea indifferenza dei

 

numi»[368]. E assieme ai numi, odia sé stesso. Bruto, insomma, è il perfetto esempio di colui che, secondo Leopardi, diventa eroico nel vizio:

 

Quel giovane che fu d’animo eroico nella virtù, come sogliono essere tutti quelli che nascono con grande e forte immaginazione e sentimento, se per forza dell’esperienza, delle sventure, degli esempi, disingannato dalla virtù arriva a lasciarla, diviene eroico nel vizio e capace di molto maggiori errori che non sono gli altri ec. Non già per una continuazione di entusiasmo applicato al male, ma per un eccesso di freddezza che è sempre compagna della malvagità. Egli diviene un eroe di freddezza tanto più intrepido, duro, ghiacciato, quanto era stato più fervido […]. In tutte le cose gli eccessi si toccano assai più fra loro che col loro mezzo, e l’uomo eccessivo in qualunque cosa è molto più inclinato e proclive all’eccesso contrario che al mezzo. Ed è molto più facile, conseguente e naturale, per la forza e la qualità di un’indole eccessiva, il saltare dall’uno all’opposto estremo che il recarsi e fermarsi nel mezzo ec. ec[369]. 

 

Bruto infatti rimpiange sì la virtù (e come Aretofilo Metanoeto del Galantuomo e Mondo è un vero penitente della virtù), ma in preda a uno stato d’animo atrabiliare gremito d’odio piomba immancabilmente nel vizio dell’egoismo, e si spinge al suicidio. Il quale, è un atto di profondo egoismo – anzi l’atto più immorale e contronatura che possa esser concepito dalla mente umana, secondo quelle che saranno le successive e maturate idee leopardiane[370] – perché chi lo compie lo fa per soddisfare il più vile interesse personale, senza contemplare le conseguenze che la sua morte porterà alla società. E Bruto, rimuginando esclusivamente sulla sconfitta, medita il suicidio perché i suoi sentimenti scaturiscono dal suo animo afflitto (e corrotto dall’antica idea che virtù e amor di patria potessero risanare le crepe lasciate da un governo dispotico). E a seguito di una tale confusione emotiva, e di un gesto così gravoso, sembrerebbe quasi che le ultime parole del suicida di Filippi rispecchino un atteggiamento al limite del nichilismo[371]. Ma il nichilismo leopardiano maturo (che non è più ravvisabile nel contesto del Bruto minore), piuttosto, punta il dito contro una natura indifferente a qualsiasi azione umana e non, e questa indifferenza, questa ostilità, è un gigantesco niente. La natura, cioè, non ha

 

riguardi, e non può, per sua stessa sostanza, provare pietà per le sciagure che naturalmente causano l’infelicità dell’uomo.

 Ad ogni modo, come accennato a inizio capitolo, la condizione spirituale di Bruto è, come quella di Leopardi nel ‘21, complessa, a metà tra l’eccessivamente sentimentale e il prematuramente filosofico, e si potrebbe addirittura definirla «un ingorgo sentimentale, un vano desiderio e una disperazione così condensata e violenta, così estrema, da riversarsi nella sfera del pensiero e determinarne i concetti e i giudizi»[372]. E se da una parte Leopardi giunge alla condanna del cristianesimo, Bruto nella sua personalissima preghiera infrange le leggi dell’Olimpo, così che «tutto nella cupa canzone, nel canto dell’eroe solo, suicida e protestatario (e d’altronde alfierianamente “molle di fraterno sangue”) contribuisce a questa bestemmia indignata e senza mezzi termini»[373]. Il prode valoroso, nella sua beffarda rivolta contro gli dèi, oppone a quella spietata legge che condanna l’uomo all’infelicità il suo maligno sorriso, «la sua voluttà di annientamento totale (fuori di ogni foscoliana religione del sepolcro e della memoria), la sua fremente e gridata bestemmia»[374].

 

2.3. IL TITANISMO DI BRUTO NEL RINNEGAMENTO DELL’OLIMPO  

Dopo aver mostrato la sua predilezione verso gli eroi, e in particolare verso gli eroi tragici classici, nel Leopardi del ’21 è presente quello che Bosco definisce il «secondo momento del titanismo leopardiano»[375], che vede proprio nella canzone del Bruto il suo punto di massima espressione, mentre prende le mosse dall’iniziale connotazione alfieriana. Infatti, il Bruto che replica alla tiranna destra del fato non è più l’eroe che si trova solo a combattere contro un’umanità che non vede la via d’uscita dal governo dispotico: ma è «la solitudine interna dell’uomo che non vede alcuna mèta, e quella già perseguita

 

riconosce come un’illusione; la solitudine, appunto, di chi si accorge di aver combattuto per una parola, non per una cosa salda»[376]: «e la tiranna / tua destra, allor che vincitrice il grava, / indomito scrollando si pompeggia» (vv. 40-41).

 Come Leopardi, anche Bruto, meditando sulla presente sconfitta (che è tanto lontana dal futuro che avrebbe voluto riservare a Roma) «si pone come accusatore del cielo e del mondo, cioè della storia: conosce il cammino della storia, ma non ne prende atto, non l’accetta»[377], e il volto più potente e intimo del suo titanismo sta nel suo porsi superiore agli dèi, sbeffeggiandoli e sorridendo malizioso mentre s’infligge il colpo mortale. Nel Bruto coesistono dunque l’accusa alla virtù e l’accusa agli dèi e al fato: questo fa sì che «la figura storica di Bruto seguace della dottrina stoica ceda alla presenza dell’io poetico che in lui si proietta»[378], così che in lui possa fondersi, in maniera inscindibile, la sensibilità viva di Giacomo: contro ogni residuo di stoicismo, Bruto diventa a sua volta tiranno dei suoi celesti padroni, e così colpisce la legge fraudolenta che governa il divenire della storia accusando gli dèi vili di empietà, nel momento in cui questa nega agli uomini la liberazione attraverso il suicidio: 

 

                            A voi, marmorei numi,

(Se numi avete in Flegetonte albergo 

O su le nubi) a voi ludibrio e scherno

È la prole infelice

A cui templi chiedeste, e frodolenta  Legge al mortale insulta.

Dunque tanto i celesti odii commove 

La terrena pietà? dunque degli empi

Siedi, Giove, a tutela? e quando esulta

Per l’aere il nembo, e quando  

Il tuon rapido spingi,

Ne’ giusti e pii la sacra fiamma stringi?[379]

 

Se, come si è detto, con la sua protesta Bruto decide di fare del suicidio un atto simbolico, «ergendosi titanicamente contro gli dèi che hanno oltraggiato la virtus e la pietas, in quanto hanno decretato la fine di un mondo giovane ed eroico che, nutrito ancora della “immaginazione” (e quindi della poesia), riponeva fiducia nel divino e lo onorava con i

 

templi»181, ne deriva che in queste domande retoriche di Bruto si innerva il germe di una prematura accusa alla natura matrigna e indifferente, che, agli occhi del recanatese, si prende gioco degli uomini trasformando le loro sventure in oggetto di sollazzo:

 

Spiace agli Dei chi violento irrompe

Nel Tartaro. Non fora

Tanto valor ne’ molli eterni petti.

Forse i travagli nostri, e forse il cielo

I casi acerbi e gl’infelici affetti

Giocondo agli ozi suoi spettacol pose?[380]

 

Il divieto di uccidersi, insito in qualunque religione (a partire, per Leopardi, da quella cristiana, e per Bruto da quella pagana) era stato puntualmente riservato da Giove in esclusiva ai figli di Prometeo: ma Bruto ha deliberato di infrangerlo, e nel suo atteggiamento di titanica renitenza al fato sfida gli dèi esternando il suo disprezzo anche nei confronti di eventuali posteri che avrebbero potuto tributargli riconoscimenti di gloria, così che «l’insulto blasfemo dell’eroe suicida assume nel finale una dimensione cosmica»[381].

 Ciò che invece, nel Bruto, non poteva del tutto delinearsi (poiché la filosofia di Leopardi era, nel ’21, ancora relativamente acerba) era un «alto concetto d’uomo»[382] – per usare le parole di Ghan Singh –, un «uomo che si distingue dagli altri appunto per merito delle sue qualità morali e personali nonché in virtù di una maggior consapevolezza e più intima cognizione del mal di vivere che “ci fu dato in sorte”»185. Certo dal Bruto

 

181 L. Felici, L’Olimpo abbandonato. Leopardi tra «favole antiche» e «disperati affetti», Venezia, Marsilio, 2005, p. 28.

minore trapela un greve senso di oppressione che il cesaricida sperimenta di fronte all’inesorabilità degli eventi (nel suo caso, storici), il che lo porta ad assumere un atteggiamento di altissimo titanismo. Ma, superata questa fase di renitenza al fato, in cui il suicidio è giustificato se questo significa rifiuto di vivere secondo inganno – ciecamente prostrandosi all’autorità del Wille che causa dolore e insoddisfazione permanenti186 – Leopardi maturo arriverà a comprendere che «più l’uomo si sente schiacciato o minacciato, dalla natura o dal “brutto poter ascoso”, più egli si dimostra capace decisamente di sopportare l’insopportabile», e, spiega Singh, «quasi di diventare superiore a se stesso nonché a chi lo minaccia e lo sfida»187.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

per così dire il tipo della verità, è indifferente per l’uomo. la sua felicità può consistere nella cognizione e giudizio vero o falso. Il necessario è che questo giudizio, convenga veramente alla sua natura” (Z 381)». 186 Cfr. commento introduttivo di A. Campana per A se stesso, in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di A. Campana, p. 401: «A partire da ASS si svolge perciò, nei canti finali del liber, un’ulteriore tranche del pensiero leopardiano, che apparenta in modo a dir poco sorprendente […] L. ad Arthur Schopenhauer, il quale, nella sua opera, fa riferimento all’italiano […]. In maniera non dissimile da L., Schopenhauer, nel Mondo come volontà e rappresentazione (Iª ed. dic. 1818), afferma che il solo modo per l’uomo di affrancarsi dal Wille (Volontà), ossia dalla incausata azione di controllo della Natura sui viventi, creati e fatti accoppiare tramite l’amore (un sentimento che, legato ai sensi, non è che una manifestazione particolare e strumentale di tale Wille) allo scopo di far continuare l’esistenza della macchina universale, è autoimporsi la Noluntas, il rifiuto, il ribaltamento di tutto ciò verso cui la Natura sprona col Wille: dunque a) l’abbandono dell’inganno fenomenico, per quanto “dolce”, e la presa di coscienza assoluta del Wille, ossia della cosa-in-sé, della verità noumenica del naturale (nell’ultimo L.: ASS, le due sepolcrali, Pal, TDL, G); b) il rifiuto del suicidio (che L. ha già affermato nel Plotino-Porfirio), c) l’ascesi, ossia l’estirpazione del proprio desiderio di esistere, di godere, di volere (cfr. a tal proposito gli interi ASS e Asp); d) l’etica della pietà universale, esito di un amore disinteressato, puro, perciò svincolato dalla Natura (chiaramente, in L., nella “tappa” della G). Vi è quindi una coerenza filosofica molto profonda nei Canti che vanno dal XXVIII al XXXIV, i quali cercano risposte operative alla bassezza della condizione umana, cercano vie di liberazione per l’uomo dalla tirannia della natura, insomma un autenticamente fondato illuminismo». 187 Entrambe le citazioni sono prese da G. Singh, op. cit., p. 73.

2.4. LA FINE DEGLI EROI: UN SUICIDIO ANTICO

 

Di te, in te stessa, l'attività assoluta

Era una lotta contro la natura

Che è dimessa al vento

Succube alla furia

Ma tu non soccombevi

Eri impennata

Sulla tua forma finita e creata[383]  

 

Quando Bruto scopre che la sconfitta di Filippi comporta la perdita della virtù, è la sua stessa vita a non avere senso, perché l’illusione perduta (la virtù eroica) era la più importante nell’immaginario classico. L’odio di Bruto è riversato su molteplici cause che lo infiammano: la sconfitta, il cielo, gli uomini, ma soprattutto: sé stesso – e l’odio verso se stesso diviene allora la causa della violenza che si scatena in una forma autodistruttiva che dall’abiura giunge fino al suicidio (atto nemmeno troppo estremo nella concezione di Bruto, dal momento che «anticamente gli uomini si uccidevano per eroismo per illusioni per passioni violente ec. e le loro morti erano illustri»)[384]. E Leopardi, in quel periodo, ha una precisa opinione attorno al suicidio: laddove i moderni si violentano per puro tedio e astio verso la vita, per gli antichi «il loro stesso suicidio era a suo modo una manifestazione dell’amor vitae»[385]. Nel momento in cui Leopardi tende a trasporre in poesia ciò che il suo pensiero filosofico andava man mano costruendo, per esprimere la sua idea riguardo a un tema così delicato dovette prendere in prestito la figura di Bruto per poter trasporre la sua voce presente in un corpo antico. Tornano utili le parole di De Sanctis: 

 

Giunge a Bruto a traverso le sue idee fisse e se le tira appresso anche nel mondo di concepirle e di svolgerle. La vanità della vita, ch’è la sua idea fissa, non balza innanzi a Bruto, come una rivelazione, una verità immediata e in quel modo concitato che sogliono tenere gl’infelici, no. Vuol ragionare e dimostrare. Ragionando a quel modo, l’uomo dimostra la legittimità del suicidio, ma non si uccide più. Bruto è così disposto a

 

ragionare, che può sino distinguere varie specie della natura, le stelle, gli uccelli, le fiere e riassumere ordinatamente il discorso[386].

 

Nel momento in cui Bruto arriva a dispregiarsi completamente, in questo disprezzo fa in modo di accelerare la sua corsa alla fine (non) naturale delle cose: il suo è un suicidio «non stoico, benvoluto e quasi protetto dagli dèi, se ispirato da elevati motivi morali e politici, come quello esemplare di Catone, ma suicidio ostacolato come atto superbo ed empio, non rispettante il momento assegnato dalla sorte di ciascuno»[387].

Non solo: c’è un motivo ben più profondo che si staglia nella filosofia del Bruto minore, ed è, se vogliamo, un motivo etico. Come accuratamente espone Marcazzan, 

Riconosciuta l’infelicità non solo come attributo dell’essere ma come ragione e principio del male, il tema del suicidio si pone non più come larva vagheggiata da una sensibilità inquieta o come impegno di coerenza coll’atteggiamento di una mente compenetratasi dalla vanità e dell’inutilità delle cose, ma come momento di responsabilità morale; non più tentazione, o rinuncia, o cieca fatalità, ma scelta consapevole e liberazione dalla schiavitù di una legge che inesorabilmente deteriora ogni essere e ogni cosa vivente[388]. 

 

Dunque, per comprendere l’eticità del gesto di Bruto (relativamente alla visione soggettiva di Leopardi) è necessario immedesimarsi in quella forte tentazione che il cesaricida provava nel voler infrangere la legge del cielo e sovvertire l’ordine morale (e naturale, e storico) delle cose fino a quel momento conosciuto, che ora gli si riversava addosso come misura della sua fragilità di essere umano[389]. 

 Prima ancora di concludere la vita, ormai ritenuta inutile, Bruto opta per un solipsistico isolamento[390] che lo differenzia dal comune comportamento di quegli uomini

 

che, in punto di morte, rivolgono una speranzosa preghiera ai «sordi Regi» celesti o infernali. Ma quando decide di morire, tutto in lui è già spento («Ben sento / in noi di cari inganni, / non che la speme, il desiderio è spento», A se stesso, vv. 5-7), perché il suo suicidio come atto ribelle è compiuto «con accento di sfida, come volesse dire: – Che potete più farmi? –»196. Nella sua disperazione, che non è più solo il grido isolato di un penitente della virtù, ma il coro di voci spezzate dell’intero genere umano in lotta contro il fato, Leopardi si identifica con lui: e questa identificazione si completa in maniera ancor più drammatica nell’Ultimo canto di Saffo[391], «ove la coscienza del proprio merito e della propria grandezza da parte di Saffo va di pari passo con la cognizione del proprio dolore e dell’infelicità»[392], due forme di consapevolezza in cui lo stesso Leopardi si riconosce. C’è un principale elemento di comunanza col Bruto che occorre mettere in risalto prima di tutto: posto che il recanatese avesse tratto l’ispirazione poetica per la Saffo dalla Corinne di Madame de Staël[393], fa notare Lucio Felici che l’autrice «ha costruito il suo personaggio sovrapponendo costumi e filosofia moderni a un carattere vicino a quello degli antichi: e ciò rientra nel progetto del “parere antichi che pensassero alla moderna”, cui appartengono sia il Bruto minore che la Saffo»[394]. Quali che siano le fonti, comunque, come per il Bruto minore anche per l’Ultimo canto di Saffo i veri precedenti tematici sono da ricercare nell’esperienza personale di Leopardi.

 

disprezzo assumeva le proporzioni di una catastrofe cosmica. Si sentiva abietto; e così penetrato di abiezione, da diventare incapace di amare e di scrivere», in P. Citati, op. cit., p. 44.

196 F. De Sanctis, op. cit., p. 186: «Il suo suicidio è un atto di ribellione alla natura, compiuto con coscienza di ribelle e con accento di sfida, come volesse dire: – Che potete più farmi? – Nel punto di morire tutto è già morto in lui, ogni credenza alla virtù, alla gloria, all’umanità, alla divinità, alla natura».

E come lui, il suicida di Filippi, prima ancora che la poetessa greca, così mosso da una affaticata interiorità degli affetti tenta di «conciliare in un’immagine esterna di sé le istanze della passione e i fantasmi della ragione, di dar voce e vita e movimento alla concentrata fissità della mente e a una sofferenza fattasi via via più silenziosa e più chiusa»[395]. E silenziosa e chiusa è appunto la sua iconica morte (non vista né udita da nessuno), proprio per questo spesso affiancata a quella – ancor più silenziosa – di Saffo, che si getta dalla rupe di Leucade a seguito della disperazione d’amore[396]:

 

Sottentra il morbo, e la vecchiezza, e l’ombra

Della gelida morte. Ecco di tante

Sperate palme e dilettosi errori,

Il Tartaro m’avanza; e il prode ingegno

Han la tenaria Diva

E l’atra notte, e la silente riva[397].

 

Diversamente dal Bruto, qui non c’è nemmeno la minima descrizione del suicidio, ma dai versi riportati emerge subito che «l’atra notte» evocata nel finale ricalca lo sfondo della canzone gemella («Bruto per l’atra notte in erma sede», v. 11), e in generale le espressioni più cupe che suggeriscono oscurità e mistero rendono l’atmosfera densa di solitudine, al pari della deserta piana di Filippi[398]. Tuttavia, la notte contemplata da Saffo nell’incipit del canto è una «placida notte» illuminata dal «verecondo raggio / della cadente luna»

 

(vv. 1-2): uno scenario certamente più sereno e tranquillizzante di quello macabro del Bruto205. 

Come osservato dalla critica, «il furore sacrilego di Bruto diventa elegia accorata, interrogazione sbigottita e angosciosa, nell’Ultimo canto di Saffo»[399], ma laddove il primo bestemmia, la seconda si lascia accogliere dalla riva «silente» già conscia di essere vinta, così che proviamo per lei una pietà che viceversa non possiamo sentire per Bruto[400]. Una delle principali differenze tra i due sta nella motivazione che li spinge al suicidio: se per Bruto è un atto di protesta e di riconquista della propria dignità (pur nel momento in cui, negandosi la possibilità di vivere, la perde), per Saffo è invece tutto l’opposto, è una quieta rassegnazione, perché dei tanti beni non le rimane che il Tartaro – e cioè un male, un errore (e vi è in questo verso una componente d’ironia)[401]. Valga a confronto questo breve brano dello Zibaldone: 

 

Non vale dire che i piaceri, i beni, la felicità di questo mondo, sono tutti inganni. Che resta levati via questi inganni? E chi per le sue sventure manca di questi benché ingannosi piaceri e beni, che altro gode o spera quaggiù? In somma l’infelice è veramente e positivamente infelice; quando anche il suo male non consista che in assenza di beni;

 

205 Ivi, p. 838: «L’opposizione Bruto-Saffo si riflette anche sul piano paesistico, nella diversità tra la notte di Bruto, inquieta di ombre funeste, e la “placida notte” di Saffo, illuminata dal raggio “verecondo” della luna al tramonto nell’ora trascolorante che precede il mattino». Cfr. anche note di A. Campana in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di A. Campana, cit., p. 197: «Si noti come L. costruisca ad arte un paesaggio del tutto indifferente ai mali di Saffo: la notte è Placida; il raggio della luna verecondo (bianco, ma anche – come accennato – “incolpevole”, “puro”, rispetto al fallo, al nefando eccesso di cui è macchiata Saffo anzi il natale); la selva è tacita». 

laddove è pur troppo vero che non si dà vera né soda felicità, e che l’uomo felice, non è veramente tale[402].

 

Inutile, a questo punto, ribadire la comunanza della Saffo col Bruto minore, specialmente nella misura in cui i protagonisti delle due canzoni si pongono come alter ego del poeta: l’uno poiché penitente della virtù, l’altra poiché sensibilissima ma non conforme agli ideali estetici del suo tempo[403]. Il primo accenno alla dissociazione tra bellezza e virtù si trova, nel Leopardi, nella già citata lettera al Giordani del 26 aprile 1819[404], in cui «la constatazione di un divorzio tra bellezza e virtù si accompagna a un tentativo di abiura della stessa virtù» (e con un Leopardi che bestemmia come Bruto moribondo!), «fondendo così in un solo nodo di disinganno esistenziale i due temi (dissociazione fortuna/virtù, dissociazione bellezza/virtù)»[405] che formano il dittico di canzoni intitolate a due iconiche personalità antiche. 

Le due figure dunque non intendono evocare un mito, ma «incarnano invece due celebri suicidi dell’antichità – fra storia e leggenda – a diretto e drammatico confronto con le divinità supreme, ritenute responsabili delle loro disgrazie»213, ponendosi, a loro modo, come “eroi”, entrambi tagliati fuori dal sistema della natura. Come osservato da Blasucci, le voci di Bruto e Saffo, nel loro essere complementari, non definiscono solo una parabola unitaria attorno al delicato tema del suicidio nella compagine dei Canti, ma sono soprattutto lo spettro ancestrale della viva personalità leopardiana, sia sul piano storico sia su quello speculativo-sensitivo: dunque, se «la denuncia di Bruto si svolge in un ambito essenzialmente etico-storico […]; la denuncia di Saffo si svolge in un ambito atemporale ed esistenziale»214, poiché il suo dramma, ancorché antico, parte dalla sua situazione particolare per poi riflettere la condizione umana in generale. E, in questo senso, il suo suicidio è significativo, esemplare e allegorico tanto quanto quello di Bruto,

 

nella misura in cui la loro prospettiva di infelicità si allarga all’universalità di tutti gli uomini, antichi o moderni che siano. 

Perciò, se l’abiura di Bruto riflette la delusione storica di Leopardi giovane, «il lamento di Saffo corrisponde alle domande che Leopardi si pone su un piano gnoseologico ed etico»215, e la sua sensazione di esclusione dal sistema della natura, dell’ordine e della bellezza è la trasposizione poetica non solo del suo pensiero nel periodo ’21-’22, ma del suo stesso patire, poiché, come già notava il De Sanctis, «nella favola della Saffo dovette sentire tutto se stesso»[406]. E non a caso la lirica leopardiana degli anni ’20-’22 è «il movimento di uno spiazzamento globale» che rispecchia tutta la sua crisi interiore, una crisi però che «non è drammatica, è bonaccia. Umida, pesante, avvolgente, paralizzante»[407], come una lenta e logorante attesa (sono quelli, infatti, gli anni in cui si acuisce la deformazione fisica di Leopardi – tanto che, a quanto riporta Citati, già nel 1819 è lo stesso Giacomo a definirsi «deforme» – causata dal progredire delle malattie che innescano in lui un sempre più riprovevole disgusto della sua figura. Ed è questo, allora, il suo elemento di vicinanza alla poetessa greca: la bruttezza della forma, ossia l’estetica esteriore ingiustamente sproporzionata a quella interiore, mista agli amori assaporati da lontano)[408]. Infatti, come espone Leopardi stesso, il canto «intende di rappresentare la infelicità di un animo delicato, tenero, sensitivo, nobile e caldo, posto in

 

215 F. Cacciapuoti, op. cit., p. 123: «Difatti, se nel pensiero leopardiano permane la visione di un sistema naturale equilibrato e volto essenzialmente al bene di tutte le parti che lo compongono, uomo compreso, il primo elemento che caratterizza il dolore di Saffo è appunto l’essere considerata fuori da questo sistema». 

un corpo brutto e giovane»[409]. Un ritratto infelice, miserevole (eppure perfetto) del «giovane favoloso»[410], che si completa con le eleganti parole di Ranieri:

 

Questi fu di statura mediocre, chinata ed esile, di colore bianco che volgeva al pallido, di testa grossa, di fronte quadra e larga, d’occhi cilestri e languidi, di naso proffilato, di lineamenti delicatissimi, di pronunziazione modesta e alquanto fioca, e d’un sorriso ineffabile e quasi celeste[411].

 

Dunque, quale doppio di Leopardi, anche Saffo avverte un senso di emarginazione, «si vede come alterità rispetto a un mondo naturale»[412], e in questa esclusione ha origine la causa prima di un dolore (sia fisico che morale) che la induce col suo auto-compianto ad abbandonarsi al molle spettacolo suicida, dopo aver a lungo meditato su una probabile colpa e rimpianto un fato meno ingiusto, esprimendo in questo modo la violenza di una tale afflizione[413]. Come per Bruto, anche per la poetessa greca Leopardi ha saputo cogliere il personaggio «a catastrofe compiuta, nell’atto che l’amore non è in naufragio, ma è naufragato e da un pezzo»[414], e assieme all’amore/virtù si assottiglia, fino a venir meno, ogni illusione dell’età giovane, ogni minuscolo barlume di desiderio e ogni ormai vago accenno di fiducia nella natura.

Nonostante Leopardi abbia preso spunto, anche in questo caso, da una fonte classica, il dramma della sua Saffo non è tanto la sofferenza provocata da una passione erotica mai corrisposta da Faone; non c’è, nel componimento, alcun delirio di amorosi sensi (almeno, non in forma accentuata come nell’epistola ovidiana) bensì emergono «il

 

dramma dell’esclusione della bellezza»225 – che instaura un amaro contrasto tra un animo estremamente sensibile dotato d’intelligenza e un corpo brutto benché giovane – e la sua antichità, che, assieme all’alone di vaghezza che la circonda, le conferisce lo statuto di soggetto poetico. Ma la canzone non tratta il tema della bellezza/bruttezza in sé quale causa di infelicità: Saffo, riflettendo sul suo caso singolo, «che è una specola privilegiata di osservazione, riesce ad intuire meccanismi negativi più generali del vivere e della natura, così come è in grado di fare il pensatore L., minato nel fisico da molti mali»[415]. Come ha osservato De Sanctis, «che la Saffo suicida, l’amante non amata di Faone, sia altra da quella, poco monta: il poeta ne ha fatta una sola»[416]: ciò vuol dire che in questa situazione estetica il personaggio leopardiano non mostra lo stesso afflato erotico di quello ovidiano; piuttosto, con il suo soliloquio volto alla ricerca di una colpa causante un’insanabile infelicità, «il tema dell’Ultimo canto di Saffo suppone una sensibilità squisitamente moderna»[417].

Nel suo non ostentato eroismo, Saffo potrebbe porsi al pari di un Ettore: ma se la virtù sventurata di Ettore è funzionale alla vittoria di Achille affinché a questi venga conferita gloria eterna, la Saffo leopardiana è invece già debole in partenza (e come lei, «anche Leopardi sarebbe morto giovane, superando e spezzando ogni limite, disprezzando la realtà, giungendo oltre l’estremo»)229, poiché la natura non le ha donato bellezza muliebre: «Si mihi difficilis formam natura negavit, / Ingenio formae damna

 

225 L. Felici, op. cit., p. 30: «Per Leopardi (e per il personaggio da lui poeticamente ricercato con evidenti risonanze autobiografiche) armonia del corpo significa partecipazione all’armonia della natura; chi, dotato di particolare sensibilità, è privo della bellezza del corpo si trova al cospetto della natura nella stessa condizione disperata di un amante non corrisposto». Cfr. Z 722, 1 in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova edizione tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., p. 43: «Lo sventurato non bello, e maggiormente se vecchio, potrà esser compatito, ma difficilmente pianto. Così nelle tragedie, ne’ poemi, ne’ romanzi ec. come nella vita. (6. Marzo. 1821)».

repende meo» 230 . Così, il sentimento della poetessa «si assolutizza nella coscienza cosmica di un’esclusione, di una corrispondenza negata fra individuo e natura»[418]:

 

Ahi di cotesta

Infinita beltà parte nessuna

Alla misera Saffo i numi e l’empia  

Sorte non fenno. A’ tuoi superbi regni

Vile, o natura, e grave ospite addetta, E dispregiata amante, alle vezzose Tue forme il core e le pupille invano  Supplichevole intendo232.

 

Nel monologo funebre della poetessa l’invocazione all’amato appare soltanto nel finale, ed è piuttosto la natura a riempire il ruolo che lui avrebbe rivestito, indossando l’abito di un amante irraggiungibile. E, come Leopardi, Saffo «è fuori da ogni schema, […] volta a un destino di esclusione proprio per la sua diversità»[419], ma soprattutto nutre un dolore intenso amplificato da una sensibilità acuta, che la porta a chiedersi quale sia stato il suo errore, dove risieda, insomma, la sua immedicabile colpa: 

 

            Qual fallo mai, qual sì nefando eccesso Macchiommi anzi il natale, onde sì torvo Il ciel mi fosse e di fortuna il volto?

In che peccai bambina, allor che ignara

Di misfatto è la vita, onde poi scemo

Di giovanezza, e disfiorato, al fuso

Dell’indomita Parca si volvesse 

 

230 P. O. Nasone, Sappho Phaoni, vv. 31-32, in P.O. Nasone, op. cit., p. 282. Cfr. Premessa all’Ultimo canto di Saffo, in G. Leopardi, Poesie e prose vol. I, cit., p. 681: «Il fondamento di questa Canzone sono i versi che Ovidio scrive in persona di Saffo, epist. 15 v. 31 segg. Si mihi difficilis formam natura negavit etc. La cosa più difficile del mondo, e quasi impossibile, si è d’interessare per una persona brutta; e io non avrei preso mai quest’assunto di commuovere i Lettori sopra la sventura della bruttezza, se in questo particolar caso, che ho scelto a bella posta, non avessi trovato molte circostanze che sono di grandissimo aiuto, cioè 1. la gioventù di Saffo, e il suo esser di donna. Noi scriviamo principalmente agli uomini. Ora ni moza fea, ni vieja ermosa, dicono gli spagnuoli. 2. il suo grandissimo spirito, ingegno, sensibilità, fama, anzi gloria immortale, e le sue note disavventure, le quali circostanze pare che la debbano fare amabile e graziosa, ancorché non bella: o se non lei, almeno la sua memoria. 3. e soprattutto, la sua antichità. Il grande spazio frapposto fra Saffo e noi, confonde le immagini, e dà luogo a quel vago ed incerto che favorisce sommamente la poesia. Per bruttissima che Saffo potesse essere, che certo non fu, l’antichità, l’oscurità de’ tempi, l’incertezza ec. introducono quelle illusioni che suppliscono ad ogni difetto».

Il ferrigno mio stame?234

 

Anche se Saffo ignora l’origine del suo errore, osa lo stesso esclamare parole di sdegno verso la natura vile e verso gli dèi. Ma la sua non è «l’ira di Bruto minore, non è la pietosa favola della Primavera»[420]: è la sua stessa coscienza che, dal fondo del suo animo lacerato, emerge per diventare un canto corale intonato dalla pluralità delle voci degli umani che sbagliano, un requiem in onore della «negletta prole» che nasce «al pianto», poiché insudiciata dall’onta di un destino infelice («Per Dio! perché dunque nasce l’uomo? e perché genera? per poi racconsolar quelli che ha generati del medesimo esser stati generati?»)[421]. 

Si noti, oltre al tema di un errore originario che macchia di peccato chi lo commette, e all’evidente inimicizia del cielo nei confronti della poetessa, il ritornare dell’elemento del ferro («ferrigno stame»), di cui si è già parlato, a proposito del suicidio degli eroi tragici, nel paragrafo dedicato ad Alfieri[422]. 

Ciò che però emerge in primo piano è che, a differenza di Bruto, Saffo non si oppone al «destino invitto» attraverso una feroce ribellione, ma con un delicato lamento che interroga la natura del proprio errore: benché si tratti di un suicidio antico, Leopardi «ha messo in lei qualcosa in più: il senso di una protesta dell’individuo contro una stortura

 

234 G. Leopardi, Ultimo canto di Saffo, vv. 38-44, in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di M. Fubini, cit., pp. 99-100. Saffo cerca una colpa che possa giustificare la sua condizione infelice. Cfr. Bruto minore, v. 61: «di colpa ignare e de’ lor proprii danni». Cfr. anche note di A. Campana in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di A. Campana, cit., p. 201: «Nei versi è chiara la riflessione sul peccato originale della teologia cattolica».

del fato»[423]. E nel suo canto desolato si legano la malinconia lasciata da un vuoto d’amore e un inguaribile senso di colpa. Tuttavia, anche per Leopardi – similmente a Saffo, se questa è per lui la «corda femminile» complementare[424] – nella prospettiva di un’infelicità comune anche il dolore è avvertito come «un piacere sottile, che pervade chi lo prova, [e] diventa parte di un certo godimento, quando la sofferenza viene trasformata in un principio vitale, quale è appunto il piacere»[425]. E ciò fa capire quanto Leopardi avesse saputo vedere in profondità (ma quella profondità comune a tutto il genere umano), cogliendo i segreti essenziali dell’animo, poiché lui 

 

Vedeva e non vedeva. Egli era un gigante, ma era l’uomo. Soffriva come un dio tutto ciò di cui noi non conosciamo se non un riflesso; accoglieva per gli spazi della sua anima, tremendamente e dolcemente ingrandite, tutte le nostre voci di dolore, di meraviglia, d’affetto, e se ne spandevano echi sublimi. Il sentimento della vita sì bella e fugace lo dominava come un prodigio. Sentì e rese come nessuno ancora il soprannaturale di certe cose come la Bellezza, l’Amore, la Speranza. Ebbe e ci diede il senso dello spazio, del tempo, e, con esso, lo sgomento della nostra piccolezza, l’affannato interrogare, il ripiegarsi muto[426]. 

 

In questa prospettiva di dolore, ecco che in entrambi i casi – tanto nel Bruto quanto nella Saffo – il suicidio è ancora del tutto lecito: e specialmente nel Bruto, nella svolta giustificativa del suicidio, viene chiamata in causa la natura, «reina un tempo e diva» (v. 55), che aveva prescritto all’uomo una vita libera da sventure e colpe, «proprie del vivere civilizzato […]; ma dal momento che un costume empio (le istituzioni civili, la ragione), ha distrutto quei “regni beati”, come può la natura lamentarsi di una morte non procurata da lei?»242. Ecco allora che il suicidio diventa un atto “contro-natura” (non nel significato che Leopardi intenderà qualche anno dopo, nel Frammento sul suicidio, di atto estremamente immorale quanto eticamente inconcepibile), poiché, nel momento in cui le si staglia contro con la sua egoistica forza autodistruttrice, va a infrangere la legge di natura da lei stessa stabilita, dimostrandosi quindi come gesto eroico poiché

 

accompagnato, anche per Saffo, da un’insoddisfazione, da un’inquietudine dello spirito che avrebbe impedito per sempre di vivere “secondo natura”. Questa l’idea di Leopardi all’altezza del 1821 (che ancora giustificava il suicidio nella misura in cui, se è vero che l’uomo vive secondo ragione e non secondo natura, allora è legittimato a morire prematuramente, e per sua stessa mano, per scelta ragionata e non a causa del decorso suo naturale):

 

Il suicidio è contro natura. Ma viviamo noi secondo natura? Non l’abbiamo al tutto abbandonata per seguir la ragione? Non siamo animali ragionevoli, cioè diversissimi dai naturali? La ragione non ci mostra ad evidenza l’utilità di morire? Desideremmo noi di ucciderci, se non conoscessimo altro movente altro maestro della vita che la natura, e se fossimo ancora, come già fummo, nello stato naturale? Perché dunque, dovendo vivere contro natura, non possiamo morire contro natura? perché, se quello è ragionevole, questo non lo è? perché, se la ragione ci ha da esser maestra nella vita, l’ha da determinare, regolare, predominare, non l’ha da essere, non può far altrettanto della morte? Misuriamo noi il bene o il male delle nostre azioni dalla natura? no, ma dalla ragione. Perché tutte le altre dalla ragione e questa dalla natura? Non c’è che dire. La presente condizione dell’uomo obbligandolo a vivere e pensare ed operare secondo ragione, e vietandogli di uccidersi, è contraddittoria. O il suicidio non è contro la morale sebben contro natura, o la nostra vita, essendo contro natura, è contro la morale. Questo no, dunque neppur quello[427].  

 

In ogni caso, e al di là di quella che era la motivazione che li spingeva a voler compiere un atto oltremodo violento, sia Bruto che Saffo incontrano nella loro sventura quella «ferrata necessità», ma non sono in grado, nella loro sensibilità ancora in parte antica, di riconoscerlo come male necessario, e faticano a comprenderlo. Così che «quello che a Bruto è empietà, a lei è mistero»[428].

 Nel suo essere antica, Saffo si avvicina, come Bruto, a Niobe, che si professa «vinta, ma non credente», e per questo «non maledice la vita, ma parte da essa sconsolata di lasciarla senza averla goduta»245: 

 

In luogo che un’anima grande ceda alla necessità, non è forse cosa che tanto la conduca all’odio atroce, dichiarato e selvaggio contro se stessa e la vita, quanto la considerazione

 

della necessità e irreparabilità de’ suoi mali, infelicità, disgrazie ec. Soltanto l’uomo vile o debole, o non costante o senza forza di passioni, sia per natura, sia per abito, sia per lungo uso ed esercizio di sventure e patimenti ed esperienza delle cose e della natura del mondo, che l’abbia domato e mansuefatto; soltanto costoro cedono alla necessità e se ne fanno anzi un conforto nelle sventure, dicendo che sarebbe da pazzo il ripugnare e combatterla ec. Ma gli antichi sempre piú grandi, magnanimi e forti di noi, nell’eccesso delle sventure e nella considerazione della necessità di esse, e della forza invincibile che li rendeva infelici e gli stringeva e legava alla loro miseria senza che potessero rimediarvi e sottrarsene, concepivano odio e furore contro il fato e bestemmiavano gli Dei, dichiarandosi in certo modo nemici del cielo, impotenti bensí e incapaci di vittoria o di vendetta, ma non perciò domati, né ammansati, né meno, anzi tanto piú desiderosi di vendicarsi, quanto la miseria e la necessità era maggiore. Di ciò si hanno molti esempi nelle storie. […] Di Niobe, dopo la sua sventura, si racconta, se non fallo, come bestemmiava gli Dei e si professava vinta, ma non cedente. 

 

In questo passo dello Zibaldone (che verrà riportato in maniera quasi completa più sotto), in cui il nome di Niobe e quello di Giobbe caratterizzano la diversità del dolore e della sventura negli antichi rispetto ai moderni[429], Leopardi condensa: liceità del suicidio; concetto di “necessità”; sentimento di odio verso sé stessi (provato e dagli antichi, tanto nobilmente più grandi dei moderni, e da lui medesimo); invettiva contro la religione. Per Bruto, più che per Saffo, l’odio verso sé stesso diventa talmente accecante da cancellare ogni residuo di timore verso gli dèi, così che l’unico soggetto protagonista della battaglia contro la vita finisce per essere unicamente l’aspirante suicida, similmente a quanto era accaduto a Leopardi stesso in quel periodo di crisi:

 

Noi che non riconosciamo né fortuna né destino né forza alcuna di necessità personificata che ci costringa, non abbiamo altra persona da rivolger l’odio e il furore (se siamo magnanimi e costanti e incapaci di cedere) fuori di noi stessi; e quindi concepiamo contro la nostra persona un odio veramente micidiale, come del piú feroce e capitale nemico e ci compiaciamo nell’idea della morte volontaria, dello strazio di noi stessi, della medesima infelicità che ci opprime e che arriviamo a desiderarci anche maggiore, come nell’idea della vendetta contro un oggetto di odio e di rabbia somma. Io, ogni volta che mi persuadeva della necessità e perpetuità del mio stato infelice e che, volgendomi disperatamente e freneticamente per ogni dove, non trovava rimedio possibile, né speranza nessuna; in luogo di cedere o di consolarmi colla considerazione

 

dell’impossibile e della necessità indipendente da me, concepiva un odio furioso di me stesso, giacché l’infelicità ch’io odiava non risiedeva se non in me stesso; io dunque era il solo soggetto possibile dell’odio, non avendo né riconoscendo esternamente altra persona colla quale potessi irritarmi de’ miei mali, e quindi altro soggetto capace di essere odiato per questo motivo. Concepiva un desiderio ardente di vendicarmi sopra me stesso e colla mia vita della mia, necessaria infelicità inseparabile dall’esistenza mia e provava una gioia feroce ma somma nell’idea del suicidio. L’immobilità delle cose contrastando colla immobilità mia: nell’urto, non essendo io capace di cedere, ammollirmi e piegare; molto meno le cose; la vittima di questa battaglia non poteva essere se non io.

 

Se gli antichi erano magnanimi, e conservavano un certo rispetto per le entità considerate superiori, per i moderni «la rassegnazione alla “necessità” del destino è da Leopardi stigmatizzata come espressione di viltà e pusillanimità»[430]. D’altro canto, «nel pensiero arcaico il fato […] corrispondeva a una visione dell’universo come ordine, dominato dalla Necessità assoluta di tipo matematico»[431]. E per gli antichi, il rimedio dal dolore non era la conoscenza della verità (come per Bruto), bensì proprio il rifugiarsi nelle illusioni, perché «gli antichi, come gli ignoranti e i fanciulli, considerano l’immaginario come verità e quindi, quando si sollevano alla riflessione filosofica, devono porre la verità come rimedio all’angoscia e al dolore»[432]. Ma Bruto non è antico, e tuttavia non ancora moderno: egli sta sulla soglia. Il suo rimedio al dolore è una verità diversa da quella degli antichi, perché le illusioni non esistono più. E allora, in questo caso, ecco che il suo suicidio può (e deve) essere ancora giustificato non solo per i motivi che abbiamo finora esaminato, ma anche perché per lui «la trasformazione dell’odio contro se stesso in pietà verso se stesso, che consente al disperato di resistere alla tentazione della vendetta “contro natura” del suicidio»250 non avviene: nel suo afflato nervoso, una rivalutazione dei propri sentimenti meschini non è minimamente contemplabile.

 

 Ecco spiegato allora che la sua è esattamente la stessa rivolta morale di Niobe e di Giobbe, che, assorbiti dalla sciagura, si mettono a inveire contro la giustizia divina e giungono al limite della bestemmia maledicendo la loro condizione di sventurati: 

 

Oggidí (eccetto nei mali derivati dagli uomini) non si riconosce persona colpevole delle nostre miserie o tale che la Religione c’impedisce in tutti i modi di creder colpevole e quindi degna di odio. Tuttavia, anche nella religione di oggidí, l’eccesso dell’infelicità indipendente dagli uomini e dalle persone visibili spinge talvolta all’odio e alle bestemmie degli enti invisibili e superiori: e questo, tanto piú quanto piú l’uomo (per altra parte costante e magnanimo) è credente e religioso. Giobbe si rivolse a lagnarsi e quasi bestemmiare tanto Dio, quanto se stesso, la sua vita, la sua nascita ec.[433].

 

Così per loro, quanto per Bruto, «il rifiuto di ogni teodicea razionale»[434] diventa, assieme con l’incresciosa violenza suicida, l’affermazione cieca della volontà, del proprio statuto eroico, nonché il rifiuto di sottomettersi a un’autorità più grande, reclamando, con la propria pretesa, la nefandezza del «giusto cielo». Inoltre, Leopardi in questo passo «respinge la visione provvidenzialistica della storia, che assegna al Cristianesimo, in quanto religione “vera”, la salvezza del mondo antico dalla decadenza morale» [435] , riaffermando così la superiorità e nobiltà d’animo degli antichi. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

2.5. BRUTO CONTRO LA «FERRATA NECESSITÀ»

 

Era il male oscuro di cui le storie e le leggi e le universe discipline delle gran cattedre persistono a dover ignorare la causa; i modi: e lo si porta dentro di sé per tutto 

il fulgurato scoscendere d’una vita, più greve ogni giorno, immedicato[436]. 

 

Volendo prendere in prestito una semplice ma efficacissima espressione di Umberto Bosco, «con Bruto minore siamo a un passo dal più leopardiano Leopardi»[437]: quella «ferrata necessità»[438] che sta al centro del componimento è l’intuizione della futura natura matrigna, ovverosia una causa cosmica del male a cui l’uomo può solo soccombere inerme. Quel giovane che nel 1819 soccombeva alla forzata prigionia in casa Antici, svuotato della libertà poiché vinto dalla “necessità” del rigore paterno, e pensava ad uccidersi, già combatteva prorompente nel suo intimo una disperata battaglia contro un destino che pareva già scritto, e che non smise di portare avanti sino agli anni più vicini alla sua morte. Questa la testimonianza di Ranieri, che con una delicatezza sottilissima lo definisce «un immortale uomo, ma un mortale malato»[439]:

 

Cessa, egli mi disse, allora, dalla vana impresa di consolare un disperato. Io, appunto da quella disperata parola, tolsi il destro di non me ne disperare. E tanto feci e tanto dissi, che, finalmente, il suo cuore ne intenerì, e proruppe, quasi lacrimando, nelle seguenti parole: Recanati e morte sono per me tutt’uno: e fra qualche dì io andrò a morire in Recanati. Tutti i miei lunghi sforzi si rompono alla fine incontro al Fato, che mi conduce a quel mio odiato sepolcro[440].

 

Sembra di leggere il medesimo testamento di Bruto. E Giacomo non è altro che lo stesso Bruto, nel momento in cui realizza che «quando il dolore, e la rovina stessa di Roma, non sono più effetto del malvolere degli uomini, ma della necessità, […] può ancora maledire e vincere la necessità uccidendosi»[441]. E Bruto con la sua abiura non solo si pente di aver creduto nella virtù, ma esprime tutta la sua feroce riluttanza al fato: come spiega Cacciapuoti, «il concetto di renitenza al fato, […] è qui reso nella rappresentazione di un duello tra l’individuo che soffre e il fato, che vince: ma l’azione è rappresentata in una scena antica, secondo i modi di un ideale classico tipico della poesia alfieriana»[442]. E questa renitenza sta tutta nel mantenere un carattere fermo, freddo, implacabile nella mira a un ideale, nonostante l’opposizione dei necessari eventi – in questo caso: la disfatta dei cesaricidi – che possono scuotere l’ordine prestabilito. Nello scenario storico-tragico della battaglia di Filippi, la necessità è anche la rovina di Roma, che «muore perché tutto nel mondo è “schiavo di morte”»[443] e la natura non vede né la gloria né la sventura: la morte di Roma è «ferrata necessità», e combatterla è vano e illusorio. Lo scenario di disfatta storica della lontana Repubblica si ripresenta, come detto, nell’Italia del 1821, e allora Leopardi si rende conto che «la storia, il progresso, i Lumi hanno svuotato la storia di virtù», e i suoi toni, come quelli di Bruto, esprimono la loro collera per «un secolo borioso che non sa costruire ma sa solo parlare, in cui la mancanza di realismo si coniuga a sdolcinate utopie»[444]. Né Bruto, né tantomeno Leopardi, erano in grado di accettare la sventura, ma piuttosto vi si stagliavano contro rivolgendo al cielo pesanti parole: «Leopardi infatti già in quest’epoca mancava della fondamentale sottomissione e accettazione delle sventure come Heimsuchung, come visita provvidenziale e salvatrice, come “provvida sventura”»263.

Nella misura in cui Bruto sa di nutrire dentro di sé un turbine di sentimenti – che, accompagnati dalla delusione storica e personale, lo spingono a un definitivo, angoscioso atto –, nella sua irruenza, cede. E sbaglia: lui non è capace di assuefazione, non ha cioè,

 

ciò che era il Padre. Il figlio doveva rimanere a Recanati, nella biblioteca, che era la sua casa, la sua passione, il suo tempio. “Assicuratevi che la felicità di Giacomo è tutta nello studio, e qui può attendervi meglio che altrove”». 

in sé, quella capacità di modellare le sue azioni, le sue idee, le sue aspettative a seconda della situazione che gli si presenta innanzi[445]. Ciò accade perché, tutto focalizzato nella sua amarezza, Bruto rimane bloccato, e «nel fallire del tentativo di giustificare la sua epoca, di vedere in essa un principio di vita nuova» (che sarebbe idealmente accorsa all’indomani del cesaricidio), «resta fuori, insoddisfatta, e come sospesa nel vuoto, la volontà di superamento»[446], esattamente come rimaneva sospeso nel vuoto, agli occhi di Leopardi, lo sforzo dei moti rivoluzionari. E dunque, di fronte alla «ferrata necessità», il nostro suicida non è in grado di piegarsi, di modificarsi: ma solo di gridare, di rinnegare il cielo e tagliare in un secondo la vita che gli si prospettava futura, in un immutato atteggiamento di scherno e di rivolta contro l’infame destino:

 

Preme il destino invitto e la ferrata necessità gl’infermi schiavi di morte: e se a cessar non vale gli oltraggi lor, de’ necessari danni si consola il plebeo266.

 

Certo da questi versi emerge un concetto tanto lontano dall’idea di un male storico, di una colpa dell’uomo causatrice di danni; sembrerebbe piuttosto che le sciagure accadano a prescindere anche a un prode valoroso come Bruto, che, per conto suo, ha agito nel giusto. Ma è un “giusto”, appunto, egoista e, almeno in teoria, inusitato, poiché l’umanità è composta soprattutto da individui più savi «che agli oltraggi del destino non oppongono la fiera resistenza di Bruto, ma la consolatoria consapevolezza della loro inevitabilità»[447]. 

 

Sebbene Bruto si proponga come un alter ego di Leopardi, ciò che al cesaricida manca è, di fronte all’invettiva contro il fato, la virtù della pazienza (che anzi è «la più eroica delle virtù perché non ha nessuna apparenza d’eroico»!)[448], sostituita invece da un’acrimonia che investe e guida ogni sua azione, perché, sentendosi superiore, si ribella agli eventi, si uccide «e con ciò diventa vincitore nell’atto stesso d’esser vinto»[449]. Ma per Leopardi, anche colui che dispera deve tentare comunque di vivere. Di fatto, come espone Vigorelli,

 

La protesta, che rimane costante contro il destino e il proprio fato personale, si coniuga tuttavia con una riscoperta della virtù della pazienza, come habitus sociale e come via praticabile di salvezza nel mondo, anziché fuori dal mondo. L’ideale di saggezza inseguito da Leopardi non è quello del dio stoico, ma del tantalico eroe dell’antica tragedia, consapevole del fato ma ad esso renitente, fedele alla terra, anche quando essa si riveli un inferno dei viventi[450].

 

E Bruto, oltre a non avere “pazienza”, per di più non si pente del suo gesto, poiché ciò implicherebbe il riconoscere, da parte sua, di aver commesso una colpa: ma dal suo punto di vista, la colpa è della storia, degli dèi, del cielo, e questa visione relativamente ristretta non gli consente nemmeno di provare un dolore, per così dire, completo, ma solo a metà – la metà dell’ego[451]. 

Quella a cui perviene Bruto – e assieme a lui, su un piano filosofico-esistenziale, Leopardi – di fronte all’irreparabilità della sconfitta, non è solo la compresenza di un male storico e cosmico al tempo stesso, ma comincia ad essere una vera e propria cognizione del dolore, l’intuizione di un «principio gnoseologico del male inerente all’esistenza stessa, che non è per l’esistente»272, insomma una sorta di male costitutivo non tanto

 

dell’uomo quanto della natura del tempo e della storia, funesto, insopportabile; ma alla vita consustanziale e necessario. Come spiega Marco Moneta, 

 

Sia come sia, certo è che alla giustificazione del male come mera accidentalità, Leopardi, con la nuova strategia difensiva, fa subentrare una sua giustificazione quale elemento che svolge una funzione (positiva) all’interno della totalità. A venir messa in risalto, di conseguenza, è la capacità che tutti gli elementi, anche quelli più negativi, hanno di contribuire all’armonia del tutto. In tal modo, rispetto al “sistema della natura”, il male finisce col perdere il carattere dell’accidentalità per assumere il marchio della provvidenziale necessità, dell’armoniosa positività del negativo[452]. 

 

Insomma, col Bruto minore la lirica leopardiana comincia progressivamente ad impregnarsi «di quel pessimismo morale e stoico che si farà sentire sempre di più nel decidere e nel plasmare la sostanza e la struttura nonché l’ethos dell’arte e del pensiero di Leopardi»[453], fino a raggiungere l’acme stilistico, esistenziale e filosofico del Canto notturno e della Ginestra.

Nel Bruto minore vi è quindi una compresenza dei due momenti leopardiani – quello dell’ostilità nei confronti del progresso e della storia e quello dell’astio nei confronti della natura – espressa proprio nell’immagine del fato contro cui si erge l’ideale eroico incarnato dal cesaricida, e del «destino invitto» che schiaccia i mortali figli di Prometeo:  dunque, ecco che nella canzone «dèi, fato, necessità ormai si identificano, sono soltanto nomi diversi di un potere occulto e malvagio che infierisce sull’umanità indifesa, schiava di morte»[454]. Il prode valoroso dovrebbe essere colui che accetta di essere sopraffatto dalla necessità; ma per Leopardi quel prode è Bruto: e questi può solo ribellarsi, e così facendo, quello che era il suo valore di un tempo scema verso l’inettitudine, verso la miseria, scivolando nell’indifferenza e nell’egoismo. E «via via che il fato da “storia” si trasforma, o meglio si allarga, in “natura”, l’eroe diventa sempre meno l’individuo singolo, eccezionale, soggetto romantico di poesia […] per farsi generale ideale umano»[455]: di fatto, Bruto non è un soggetto poetico idealizzato, non è un eroe come quelli di Omero, ma rappresenta quell’ideale di lotta contro il destino avverso che

 

accompagnerà Giacomo fino al 1832, per sostenerlo nella sua acre risposta alla lettera a De Sinner.  

Ciò che inizia a emergere, insomma, nel Bruto minore – proprio perché è la poesia che segna un passaggio necessario nella filosofia di Leopardi – è che l’«ethos leopardiano […] non è legato a, né ispirato dagli ideali di altissimo valore morale raggiungibili solo da poche persone eccezionalmente dotate o fornite di esperienze privilegiate» (quale poteva essere, appunto, la figura di Bruto), ma è «radicato nella consapevolezza di un destino e di un’esperienza comuni a tutti gli uomini»[456]. E questo a rigor del fatto che ciò che interessava veramente a Leopardi, nonostante la sua intensa partecipazione emotiva portata in luce da echi autobiografici sempre presenti nei suoi componimenti, «non era il suo destino, la sua condizione esistenziale, bensì quella dell’umanità»[457]. Di fatto, la matrice di una natura indifferente che accomuna il fatale destino di tutti gli uomini è presente già nel Bruto: 

 

Oh casi! oh gener vano! abbietta parte 

Siam delle cose; e non le tinte glebe, 

Non gli ululati spechi 

Turbò nostra sciagura,

Né scolorò le stelle umana cura279.

 

Da questi versi trapela la non infinita piccolezza dell’uomo, un nulla in confronto all’immensità della natura che, assieme agli dèi e al fato, diventa tutt’uno con la «ferrata necessità» e non si scompone di fronte alle sciagure e alle tensioni che divorano l’animo sempre turbato dell’uomo, dopo che, sperimentato il vero, arriva ad elaborare un «pensiero che afferma la realtà del nulla»[458] – quella stessa realtà che Bruto sconfitto a Filippi vedeva stagliarsi inesorabile di fronte a sé. L’uomo-Bruto diventa perciò, per il

Leopardi del ’21, l’ideale di uomo che andava rincorrendo e plasmando, perché è un eroe

 

vinto che si interroga sulla sua condizione sventurata: così, acquisendo nella filosofia del recanatese un ruolo estremamente cruciale, l’uomo «finisce col condizionare quanto il Leopardi ha da dire sulla natura, sull’universo e sull’essenza delle cose». E, come afferma Singh, «la filosofia o la metafisica leopardiana è profondamente permeata da una consapevolezza morale-esistenziale il cui fulcro è l’uomo»281 in quanto unità di misura per indagare le possibilità delle leggi cosmiche e universali (quelle dominate, appunto, dalla necessità).

 Il concetto di indifferenza della natura espresso nei versi del Bruto riportati sopra riecheggia, con una costruzione simile, nell’Ultimo canto di Saffo, in cui viene ribadito che le imprese virtuose, qualora provengano da un corpo brutto (e dunque sciagurato) non valgono agli occhi del «Padre» anch’esso indifferente: 

 

                            Negletta prole 

Nascemmo al pianto, e la ragione in grembo

De’ celesti si posa. Oh cure, oh speme

De’ più verdi anni! Alle sembianze il Padre,  

Alle amene sembianze eterno regno

Diè nelle genti; e per virili imprese,

Per dotta lira o canto,

Virtù non luce in disadorno ammanto. 

Morremo282. Il velo indegno a terra sparto, 

Rifuggirà l’ignudo animo a Dite,

E il crudo fallo emenderà del cieco

 

281  Entrambe le citazioni sono prese da ivi, p. 73.

282  Di nuovo, Leopardi ritorna sulle fonti classiche: cfr. Z 2217,1 in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova edizione tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., pp. 70-71: «Didone, Aen. 4. 659. Seg. Moriemur inultae, Sed moriamur, ait. Sic sic iuvat ire sub umbras. Virgilio volle qui esprimere (fino e profondo sentimento e degno di un uomo conoscitore de’ cuori ed esperto delle passioni e delle sventure, come lui) quel piacere che l’animo prova nel considerare e rappresentarsi, non solo vivamente, ma minutamente, intimamente e pienamente la sua disgrazia, i suoi mali; nell’esagerarli, anche, a se stesso, se può (che se può, certo lo fa), nel riconoscere o nel figurarsi, ma certo persuadersi e procurare con ogni sforzo di persuadersi fermamente, ch’essi sono eccessivi, senza fine, senza limiti, senza rimedio né impedimento né compenso né consolazione veruna possibile, senza alcuna circostanza che gli alleggerisca; nel vedere insomma e sentire vivacemente che la sua sventura è propriamente immensa e perfetta e quanta può essere per tutte le parti e precluso e ben serrato ogni adito o alla speranza o alla consolazione qualunque, in maniera che l’uomo resti propriamente solo colla sua intera sventura. Questi sentimenti si provano negli accessi di disperazione, nel gustare il passeggero conforto del pianto (dove l’uomo si piglia piacere a immaginarsi piú infelice che può), talvolta anche nel primo punto e sentimento o novella ec. del suo male ec. L’uomo in tali pensieri ammira, anzi stupisce di se stesso, riguardandosi (o proccurando di riguardarsi, con fare anche forza alla sua ragione e imponendole espressamente silenzio, nella sua, coll’immaginazione) come per assolutamente straordinario, straordinario o come costante in sí gran calamità, o semplicemente come capace di tanta sventura, di tanto dolore e tanto straordinariamente oppresso dal destino; o come abbastanza forte da potere pur vedere chiaramente, pienamente, vivamente e sentire profondamente tutta quanta la sua disgrazia. (3. Dicembre 1821)». Si tratta di considerazioni che, indubbiamente, scaturiscono dalle riflessioni portate avanti da Leopardi nello stesso periodo e nello stesso momento spirituale in cui scrisse il Bruto minore.

Dispensator de’ casi[459].  

 

L’espressione «negletta prole / nascemmo al pianto» sembra ricalcare ciò che nel Bruto è espresso con «abbietta parte / siam delle cose» (vv. 101-102), a ribadire che nella filosofia di Leopardi l’uomo – o meglio: l’uomo costitutivamente infelice – è solo una menomissima parte (ignobile, spregevole, vile) dell’universo, e che il genere umano nasce infelice per sua stessa naturale condizione. Con ciò, l’Ultimo canto di Saffo «assume la tragedia come tale, e la impone alla trama del senso»[460], rafforzando lo stesso giudizio emanato anche da Bruto, ovvero: la negazione di qualsiasi posto privilegiato – sia esso nell’inferno o altrove – per «il velo indegno a terra sparto», ossia per il suicida che «corregge, gettando via da sé il corpo deforme, il tragico errore del destino»[461], rifiutando in questo modo di consacrare la sua anima ai regni celesti o sotterranei[462]. In entrambi i canti «la posizione lirica è quella del dolore»[463] e il dramma etico si impone come reale proprio perché nasce da un riferimento soggettivo.

E il «cieco / dispensator de’ casi» è quello stesso fato, quella stessa necessità che ritorna anche, nel significato estremo di “morte”, qualche anno più tardi (fra il 1831 e il 1833) nel Pensiero dominante, composto in un periodo in cui per Leopardi «inizia l’affermazione dell’Io “gettato” nell’esistenza, della sua dignità, dei suoi diritti e istanze più profondi»[464] nella lotta titanica contro la natura e il fato, che si fanno destinatari della lettera di protesta in nome dell’«arido vero»:

 

Giammai d’allor che in pria Questa vita che sia per prova intesi, Timor di morte non mi strinse il petto.

Oggi mi pare un gioco

Quella che il mondo inetto,

Talor lodando, ognora abborre e trema,

 

Necessitade estrema;

E se periglio appar, con un sorriso Le sue minacce a contemplar m’affiso289.

 

Così inebriato dalla nuova potenza del sentimento amoroso, Leopardi in questo canto si mostra come rinnovato nell’animo, e finalmente esente da quel «timor di morte» che lo attanagliava dal momento in cui comprese la pochezza e la fragilità della vita: e quella necessità estrema che è la morte, ora gli pare non solo cosa di poco conto, ma addirittura oggetto di divertimento. Per Bruto, il discorso è un poco diverso: se lui guarda in faccia la morte con atteggiamento provocatorio, come se fosse l’avversaria di una tenzone di cui già si proclama vincitore, non è perché il suo timore (della morte stessa, degli dèi, del fato) si è attenuato in virtù di un sentimento ben più nobile; bensì perché è consapevole che ciò che rimane della sua vita altro non è se non un ignobile proseguimento degno soltanto di disprezzo. Bruto non prova timore290. È anzi del tutto consapevole delle sue azioni. Rivolge il suo ghigno agli dèi e al fato. Bruto è disilluso: il fantasma della virtù è ormai morto, e lui con esso: compie il gesto estremo, s’infiltra nell’amara sorte che egli stesso aveva riservato a Cesare. E quando «maligno alle nere ombre sorride» è come Giacomo che, di fronte all’eventualità della morte, si sofferma «ad ammirare la bellezza

 

289                 G. Leopardi, Il pensiero dominante, vv. 44-52, in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di M. Fubini, cit., p. 201. Corsivi miei. 

290                 Cfr. Z 2206, 1 in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova edizione tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., p. 70: «Il timore, passione immediatamente figlia dell’amor proprio e della propria conservazione, e quindi inseparabile dall’uomo, ma soprattutto manifesta e propria nell’uomo primitivo, nel fanciullo, in coloro che piú conservano dello stato naturale; passione strettissimamente comune all’uomo con ogni specie di animali e carattere generale de’ viventi; una tal passione è la piú egoistica del mondo. Nel timore l’uomo si isola perfettamente, si stacca da’ suoi piú cari e pena pochissimo (anzi quasi da necessità naturale è portato) a sacrificarli ec. per salvarsi. Né solo dalle persone, o da tutto ciò ch’é in qualche modo altrui, ma dalle cose stesse piú proprie sue, piú preziose, piú necessarie, l’uomo si stacca quando teme, come il navigante che getta in mare il frutto de’ suoi piú lunghi travagli e anche di tutta la sua vita, i suoi mezzi di sussistenza. Onde si può dire che il timore è la perfezione e la piú pura quintessenza dell’egoismo, perché riduce l’uomo non solo a curar puramente le cose sue, ma a staccarsi anche da queste per non curar che il puro e nudo se stesso, ossia la nudissima esistenza del suo proprio individuo separata da qualunque altra possibile esistenza. Fino le parti di se medesimo sacrifica l’uomo nel timore per salvarsi la vita, alla quale e a quel solo che l’é assolutamente necessario in qualunque istante, si riduce e si rannicchia la cura e la passione dell’uomo nel timore. Si può dir che il se stesso diviene allora piú piccolo e ristretto che può, affine di conservarsi, e consente a gettare tutte le proprie parti non necessarie, per salvare quel tanto ch’è inseparabile dal suo essere, che lo forma, e in cui esso necessariam. e sostanzialm. consiste. (1. Dicembre 1821)». Commenta così Cacciapuoti: «La similitudine dell’amor proprio con la materia, elemento centrale del brano precedente, è qui ripresa nel richiamo al principio di conservazione, da cui dipende la passione del Timore. L’Egoismo, più volte dichiarato implicito all’amor proprio, diviene ora sommo, in quanto, appunto, necessario alla conservazione: come avviene nei processi della materia, cui è funzionale anche la morte. L’analisi dei comportamenti generati da questa passione mette in luce il processo di atrofizzazione dell’io e il “rannicchiarsi” (verbo usato da Leopardi nella descrizione di tutti gli stati legati alla paura e all’angoscia in una comprensione del meccanismo psicofisico) dell’uomo a difesa del suo nucleo essenziale».

(contemplar) delle sue minacce, col sorriso sulle labbra»[465]: l’odio che provava verso sé stesso e i Numi può solo trasformarsi, se non in pietà, in una petrosa indifferenza che segna il limite ultimo della sua disperazione, perché «il riso dell’uomo sensitivo e oppresso da fiera calamità è segno di disperazione già matura»[466].

 Poco dopo il Pensiero dominante, si vede come «la concezione leopardiana della natura tenda ad assumere una configurazione mitica»[467], e nel 1835 torna l’emblema di quella «ferrata necessità» incontrata nel ’21: giunto alla piena maturità, Leopardi arriva a «teorizzare il male come ragione dell’esistenza nell’abbozzo ad Arimane», figura che esprime una compiuta identificazione tra divinità, fato e natura e che, «in virtù del suo carattere mitico-simbolico affiora alla luce della coscienza da un passato tanto remoto da coincidere con un eterno presente»[468]. Nell’inno, diversamente dai Canti, «adombrerà una più radicale disperazione e una ribellione anche più caparbia, ma sull’ala di un discorso più solenne, di un respiro che non avrà più niente di quell’angustia»[469], e che comincia ricalcando l’incipit del Pensiero dominante («Dolcissimo, possente / dominator di mia profonda mente; terribile, ma caro / dono del ciel», vv. 1-3) come invocazione a un’autorità tanto potente quanto misteriosa ed eternamente trionfatrice[470]: 

 

Re delle cose, autor del mondo, arcana

Malvagità, sommo potere e somma 

Intelligenza, eterno

Dator de’ mali e reggitor del moto[471]

 

L’inno, sublime preghiera rivolta, prima ancora che dal «mondo civile», dal poeta stesso all’«autor del mondo» affinché gli conceda il più sommo di tutti i piaceri[472], che lo liberi

 

– per sempre – dalla morsa vitale che lo costringe a sentire e patire la sua miserabile condizione («non posso, non posso più della vita») «interessa anzitutto come testimonianza o conferma dell’idea leopardiana dell’assoluta sovranità del male nell’universo»[473], imprescindibile e fortissima, ma che può essere allietata dagli uomini se, stringendosi «in social catena» (La ginestra, v. 149) per combattere le «angosce / della guerra comune» (La ginestra, vv. 134-135), riescono a trovare in loro la virtù della “pazienza”.

 Ecco allora che la «tematica antiteistica»[474] affrontata già nel ’21 nel Bruto minore continua e riaffiora, dal passato fino alla bruciante attualità, nell’abbozzo Ad Arimane, e si riconduce a quel disegno di conversione al moderno che Leopardi sperimenta nel corso degli anni ’20 e ’30. Come rileva Angiola Ferraris, nella chiusura dell’inno «la presenza di Arimane nella veste di epifania mitica del male conferisce alla tensione eroica insita nella concezione della morte come supremo gesto di rivolta contro il fato un peculiare accento antiteistico»[475], indicativo di una precisa continuità tematica iniziata col Bruto e destinata a ritrovare sempre maggior risalto nelle opere del Leopardi maturo, che rappresentano gli esiti conclusivi del suo pessimismo materialistico. In quest’ottica, la sfida ad Arimane, che rievoca la protesta di Bruto contro le divinità indifferenti, «sembra contenere un richiamo implicito all’esemplarità del modello di comportamento etico offerto dall’areté degli antichi greci, la cui attitudine eroica di fronte alla morte esercitò […] una suggestione profonda sull’ultimo Leopardi»[476].

 Così, eticamente impossibilitato – per sua stessa dottrina morale[477] – a conseguire, come fosse il termine ultimo di un travagliato percorso, il suicidio, Leopardi si insinua

 

vecchiezza è male sommo: perché priva l’uomo di tutti i piaceri lasciandogliene gli appetiti; e porta seco tutti i dolori. Nondimeno gli uomini temono la morte, e desiderano la vecchiezza».

nelle figure antiche da lui stesso rievocate: ponendo il suicidio del suo Bruto come apostasia di tutti quegli «errori magnanimi» che compongono la vita, e incorniciando il suo gesto brutale in una «atra notte» in cui nessuno vede e nessuno ode, catarticamente lui stesso lo compie: e si libera. Come Saffo, «Bruto suicida non era una fantasia del Leopardi, né un dato reale ch’egli potesse in qualche modo alterare o mutare»[478]: era, in un certo senso, una piccola parte della sua anima sensibile.  

 

ma per gli altri) di una più forte consolazione e compassione avrebbe fatto dell’assuefazione apatica, come ipotesi di durativo, immobile adeguamento allo status, un punto necessario di superamento; piegato quanto meno, il cinico, pratico, socratico stoicismo di Epitteto a quelle istanze eclettiche senechiane e ciceroniane che prevedevano l’unione di sapienza, virtù, amicizia in un più generale legame tra gli uomini».

III IN LIMINE

 

Da qualche tempo è recente anche l'antico

Il disco del discobolo è cromato

Nella testa di Seneca si sente

Il motorino di un frullatore

Nelle piramidi continuamente

Scatta un otturatore

E in te, Tubinga,

 In te non c'è un juke-box e non un tostapane

Tu mi risparmi d'essere testimone antico e recente

Delle istruzioni lette attentamente[479]

 

 

1. PASSAGGIO, ADEMPIMENTO. UNA «MUTAZIONE TOTALE»  

Quel passaggio cruciale, nell’animo del giovane Giacomo, tra l’antico e il moderno, quella «mutazione totale» che lo trascina lentamente verso la saggezza del materialismo filosofico e progressivamente lo persuade di abbandonare l’indole patriotticosentimentale delle prime canzoni, avvenne già, come detto, nel 1819: nella crisi (etica, estetica, personale) si presenta per lui una circostanza paradossalmente favorevole, in cui, «rifiutando il mito, la filosofia si presenta come epistéme della verità […], conoscenza assolutamente non smentibile e definitiva»[480]:

 

Sono stato sempre sventurato, ma le mie sventure d’allora erano piene di vita e mi disperavano, perché mi pareva (non veramente alla ragione, ma ad una saldissima immaginazione) che m’impedissero la felicità, della quale gli altri credea che godessero. In somma il mio stato era allora in tutto e per tutto come quello degli antichi. […] La mutazione totale in me, e il passaggio dallo stato antico al moderno, seguì si può dire dentro un anno, cioè nel 1819, dove, privato dell’uso della vista e della continua distrazione della lettura, cominciai a sentire la mia infelicità in un modo assai più tenebroso, cominciai ad abbandonar la speranza, a riflettere profondamente sopra le cose […] a divenir filosofo di professione (di poeta ch’io era), a sentire l’infelicità certa del mondo in luogo di conoscerla; e questo anche per uno stato di languore corporale, che tanto più mi allontanava dagli antichi e mi avvicinava ai moderni. Allora l’immaginazione

 

in me fu sommamente infiacchita, e quantunque la facoltà dell’invenzione allora appunto crescesse in me grandemente, anzi quasi cominciasse, verteva però principalmente o sopra affari di prosa o sopra poesie sentimentali. […] Così si può ben dire che, in rigor di termini, poeti non erano se non gli antichi, e non sono ora se non i fanciulli o giovanetti, e i moderni che hanno questo nome non sono altro che filosofi. Ed io infatti non divenni sentimentale, se non quando, perduta la fantasia, divenni insensibile alla natura e tutto dedito alla ragione e al vero, in somma filosofo[481].   

 

Questo noto passo dello Zibaldone[482], che costituisce uno snodo fondamentale per la piena comprensione del pensiero del recanatese, si allinea idealmente al medesimo stato d’animo provato da Bruto, nell’arco di pochi istanti, all’insorgere della sconfitta: «ma prima che questa catastrofe avvenga, mentre il richiamo al presente occupa progressivamente uno spazio testuale sempre maggiore», quel 1819 così significativo «segna il mutamento del sentimento/immagine di Roma entro l’evoluzione del pensiero leopardiano sugli antichi/moderni»[483]. Mentre riflette sul suo stato d’animo e, parimenti, sulla condizione di Bruto moribondo, Leopardi realizza che «Roma gioca una parte centrale, non più come sede di spazio immaginario ma piuttosto come luogo concreto cui riferire bisogni di cambiamento»[484]: così, l’attimo del disinganno si congiunge, sul piano stilistico, con la conversione alla prosa e alla filosofia, la quale «ha precisamente questo significato, di rinuncia all’eroica disperazione e alle magnanime illusioni, di adozione di un atteggiamento rassegnato-ironico di fronte alla realtà»[485]. 

  Così per Leopardi, come anche per Bruto, questa «mutazione totale» tra due età (esteriori, storiche; e interiori, personali), e tra il tempo dell’immaginazione (coincidente con la poesia) e quello della ragione (coincidente con la saggezza filosofica) è stata definita da critici come una specie di “caduta”, una «poderosa accelerazione del processo di assuefazione che accompagna la crescita di qualsiasi ente – sia esso un individuo, una

 

generazione, l’intera umanità – con una drammatica e improvvisa precipitazione del vero nell’esperienza» [486], a cui segue un forzato ma necessario adeguamento a una nuova condizione, che, per essere compresa e accettata, prevede il ripensamento dell’ordine morale fino allora vigente. Per Leopardi, che sorretto dalla sua forza d’animo è sempre più “virtuoso nella pazienza”, tale ripensamento è, per quanto complesso, tuttavia possibile e praticabile; per Bruto no. «Uno sconfitto che non accetta la sconfitta» non vuole mettere in discussione gli antichi valori creduti saldi ed eterni; non si scinde dai suoi idoli di sangue[487].

La verità che si staglia violenta di fronte a Bruto scatena, nel suo animo ancora in parte antico, il rifiuto di conoscerla e dunque «la denegazione di ogni sistema etico, della disperazione di ogni gerarchia di valori, anzi della constatazione dell’insignificanza dei valori stessi»[488]; per Giacomo, invece, «all’apparir del vero»[489] ecco che il disvelamento dei giovanili errori mette in gioco un pretesto per rivalutare tutto ciò che si era creduto certo, delineando così «lo scontro tra illusione e verità, tra Natura e Ragione, tra mito e realtà, tra un “dover essere” per tanti secoli creduto e operante ed un “essere”, al contrario, che una volta scoperto produce amarezza»[490]. 

È nel periodo ’19-’21, allora, che Leopardi sperimenta il desiderio di una ricerca della verità che, come arriverà ad intendere con gli anni, non può mai essere totale (poiché se «il vero consiste essenzialmente nel dubbio»[491], significa che «non v’è quasi altra verità assoluta se non che Tutto è relativo»)14 specie se affidata interamente alla ragione: 

 

 

La ragione è nemica della natura, non già quella ragione primitiva di cui si serve l’uomo nello stato naturale, e di cui partecipano gli altri animali, parimente liberi, e perciò necessariamente capaci di conoscere. Questa l’ha posta nell’uomo la stessa natura, e nella natura non si trovano contraddizioni. Nemico della natura è quell’uso della ragione che non è naturale, quell’uso eccessivo ch’è proprio solamente dell’uomo, e dell’uomo corrotto: nemico della natura, perciò appunto che non è naturale, né proprio dell’uomo primitivo[492].

 

In quel periodo – in cui ancora non concepisce l’esistenza di una natura matrigna generatrice di quelle stesse illusioni che ingannano gli uomini – Leopardi passa in rassegna, riconsidera e svaluta il cristianesimo, poiché impone all’uomo la via della rassegnazione coprendo i sentimenti con il velo della vergogna e del timor di Dio: attraverso i pensieri del suo Zibaldone, Leopardi rivela che «un vero e proprio abisso è quello che distingue l’uomo antico e pagano da quello moderno e cristiano»[493]. In particolare, riguardo la riconsiderazione che Leopardi opera nei confronti non solo della religione cattolica, ma in generale di tutte le credenze ormai superate, sia esemplare il commento di Timpanaro:

 

È proprio questa esigenza di smascheramento degli «errori barbari» del cattolicismo che fa superare al Leopardi ogni residuo di dubbio sull’opportunità o meno di rivelare agli uomini il male della condizione umana in tutta la sua crudezza: alla convinzione del «valore sociale del vero» […] il Leopardi giunge perché l’esperienza gli ha dimostrato che nell’epoca attuale il vuoto dell’ignoranza non è riempito dalle gagliarde e magnanime illusioni dei primitivi, ma da un ibrido connubio delle deprimenti superstizioni medievali con un progressismo superficiale e falso, incapace di dare la felicità all’uomo: meglio, allora, quella «fiera compiacenza» che è prodotta da una lucida disperazione, e che costituisce, in un mondo in cui l’azione eroica è ormai preclusa, l’ultima e paradossale forma di «virtù» classicheggiante[494]. 

 

Rispetto alle sue precedenti idee, esposte ad esempio nel Saggio sopra gli errori popolari degli antichi (1815)[495], in cui ancora riteneva che fosse «da stolto dire che la natura cioè

 

insomma Iddio abbia errato»[496], Leopardi tendeva ora a identificare, per quanto possibile, ragione e Dio: e dunque il suo sistema, «per spiegare la caduta dell’uomo in uno stato di progressiva infelicità, sostituisce al concetto di Dio creatore e punitore quello di una natura primigenia assalita e degradata dalla ragione»[497]. 

 Quello stato di progressiva infelicità che l’uomo sperimenta da quando viene al mondo, certo è causato dall’imbarbarimento della ragione, specie nella misura in cui l’uomo è animale razionale. E però, «dopo il rinnegamento della virtù operato da Bruto, la virtù moderna rinasceva […] sotto la forma del riso»21. Infatti, Leopardi trova il modo di sviare un poco da questa dura condizione attribuendo «un valore positivo alla vita»[498] nell’Elogio degli uccelli, più precisamente nell’elogio del riso, «come indice della disperazione umana; sulla forza che esso possiede nell’ambito della società»[499] e sul fatto che indica crescita morale e consapevolezza. Dal momento che «pensarono alcuni che siccome l’uomo è definito per animale intellettivo o razionale», Leopardi ne deduce che «potesse non meno sufficientemente essere definito per animale risibile; parendo loro che il riso non fosse meno proprio e particolare all’uomo, che la ragione»[500]. Il riso infatti è, al pari della ragione, un’arma potentissima, grazie alla quale gli uomini «ricevono non piccolo benefizio»:

 

Gli uomini, come sono infelicissimi sopra tutti gli altri animali, eziandio sono dilettati più che qualunque altro, da ogni non travagliosa alienazione di mente, dalla dimenticanza di se medesimi, dalla intermissione, per dir così, della vita; donde o interrompendosi o per qualche tempo scemandosi loro il senso e il conoscimento dei propri mali, ricevono non piccolo benefizio[501].

 

Certo Leopardi si riferisce a un riso «alto», proprio dell’uomo civile, che è in grado di rompere il freno della ragione: è il «riso maturo e perfetto […] di chi sente e intende; e

 

dal suo sentire intendendo ricava un particolare piacere»[502]. È un riso che riesce, in qualche modo, a sciogliere l’inganno della vita. Naturalmente, nell’operetta non manca, nella considerazione sull’attualità della condizione umana, una menzione alle illusioni cadute al sopravvenire dell’epoca della ragione: in veste di Amelio filosofo solitario, Leopardi accenna a un’ipotesi di scrittura sulla storia del riso, che narrerà 

 

i suoi fatti e i suoi casi e le sue fortune, da indi in poi, fino a questo tempo presente; nel quale egli si trova essere in dignità e stato maggiore che non fosse mai; tenendo nelle nazioni civili un luogo, e facendo un ufficio, coi quali esso supplisce per qualche modo alle parti esercitate in altri tempi dalla virtù, dalla giustizia, dall’onore e simili; e in molte cose raffrenando e spaventando gli uomini dalle male opere[503].

 

È dunque chiara l’idea che Leopardi ha dell’età moderna: una civiltà composta da uomini pervasi da «grande tristezza d’animo», che «non serbano alcuno amore alla vita, certissimi della vanità di ogni bene umano, presso che incapaci di ogni gioia, e privi di ogni speranza», meno che il riso. Ma non è per tutti così. Chi è consapevole della propria infelicità, si salva, perché è capace di riderne: di fatto, «quanto conoscono meglio la vanità dei predetti beni, e l’infelicità della vita; e quanto meno sperano, e meno eziandio sono atti a godere; tanto maggiormente sogliono i particolari uomini essere inclinati al riso»[504], soprattutto perché «nello stile del riso si esprime l’individualità dell’uomo: il suo carattere, la sua educazione, l’idea ch’egli ha delle cose»[505]. Dopo il rinnegamento della virtù, Leopardi si sentiva incoraggiato a ripensare a una nuova – e più positiva! – concezione del mondo, attribuendo al riso un valore rigenerativo, poiché «nel riso era comunque implicita una virtù: lo smascheramento dei tanti pregiudizi millenari e quello della stessa morale fondata su siffatti pregiudizi»[506]. 

Non si confondano, tuttavia, i due piani. L’essere consapevoli della vanità della vita, e supplire le sofferenze con l’abilità di ridere, è cosa ben diversa dal conoscere la verità tramite l’uso della pura ragione. Come espone Rigoni nel saggio L’estetizzazione

 

dell’antico [507] , «la “verità”, che offre la ragione come ragione, è la più parziale e superficiale, e anche la più menzognera»[508]. Sembrerebbe una contraddizione, ma ciò che intende il critico in questa sede è che «Leopardi smaschera presto il mito della cosiddetta conoscenza disinteressata» [509] proprio nel momento in cui diviene «filosofo di professione»: la sua sete di verità si affida sempre meno al sapere fine a sé stesso e predilige piuttosto una completezza gnoseologica che incorpori assieme passione e ragione, in «una sorta di discorso anti-epitteteo perché Leopardi non elimina la passione con la ragione, ma converte la ragione in passione, distingue la passione moderna dall’antica»[510]. Non del tutto vicino agli antichi, dunque, e alla natura nuda, né totalmente integrato tra gli illuministi moderni (la cui linea ideologica, sostenuta con fermezza da Monaldo e dallo zio Carlo Antici, permeava indiscussa casa Leopardi come un’ombra indelebile); ma una via di mezzo vissuta da chi sta sulla soglia, in quel momento di passaggio in cui si avverte che «dentro la crisalide della ragione, si agita la farfalla insaziabile del desiderio del piacere, generato dall’amor proprio, che non vuole conoscere infinitamente, ma infinitamente sentire»[511]. Nella misura in cui il sentimento naturale dell’uomo è una connaturata fame di felicità, ne deriva che il desiderio di raggiungerla – e dunque di sentire quel piacere – si interseca con l’altrettanto innato bisogno di conoscere il vero:

 

L’uomo dunque inclinando alla perfez. o felicità, inclina sommamente alla cognizione del vero. […] L’oggetto della facoltà di conoscere, è la verità. L’estensione di questa facoltà si misura dal desiderio. L’uomo sente un desiderio infinito di conoscere e così di amare. Dunque la sua facoltà conoscitiva, o l’intelligenza è capace di conoscere la verità infinita; la sua facoltà di amare, è capace di amare il Bene infinito. Laddove la sua facoltà di agire essendo limitata, egli non sente un desiderio finito di agire, come essere fisico.

 

Dunque la felicità dell’uomo consiste nella perfezione della conoscenza; dell’amore, o sia disposizione dell’anima verso gli oggetti; e dall’azione che deriva da questi due principii36.

 

Questo estratto zibaldoniano fa parte di una breve rassegna in risposta all’Essai sur l’indifférence en matière de religion di Lamennais, che lo esorta a intersecare i piani della natura e della storia con quello della religione[512]. Nel ’19 Leopardi è ancora piuttosto ancorato alla religione cristiana – poiché considerata generatrice di felicità al pari delle illusioni[513] –, e di fatto la sua religiosità «prima di dileguarsi definitivamente, conosce ancora periodi di travaglio e di meditazione dolorosa, ritorni di ascetismo»[514]. Tuttavia, a distanza di pochi anni non si esime dal deprecare quella stessa religione, specie nel momento in cui, ponendola a confronto con le credenze degli antichi, realizza che quelle, a differenza delle moderne, «potenziavano fortemente la felicità temporale esaltando le energie vitali dell’uomo» [515] . A rigore, come riportato più volte dalla critica, è dal confronto con le tesi di Lamennais che Leopardi trova conferma delle sue idee: nel 1820 concorda, per lo più, con il teologo francese, «ma rinnova profondamente il rapporto tra la religione e le illusioni: il progressivo decadimento della storia della civiltà è spiegabile per Leopardi come per Lamennais con la sostituzione della filosofia alla religione»[516], poiché «la filosofia era stata “la distruttrice di Roma” e la storia romana dimostrava quanto fosse vero che “la religione si ritrova presso la culla di tutti i popoli, a guisa che

 

36 Z 378, 1, in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova edizione tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., pp. 295-297. Il pensiero è datato 8 dicembre 1820; e pochi mesi prima, nel novembre 1820, lo stesso Leopardi scriveva, in Z 351, 2 che «ogni felicità fondata sul vero, è falsissima, o vogliamo dire, ogni felicità si trova falsa e vana, quando l’oggetto suo giunge ad esser conosciuto nella sua realtà e verità», in ivi, p. 136. Si badi che in questo passo Leopardi utilizza, in riferimento all’oggetto che procurerebbe felicità, proprio il verbo conoscere, senza fare riferimento al sentire.

la filosofia si è trovata sempre vicina alla lor tomba”»[517]. E tuttavia, il termine di paragone di cui usufruisce il recanatese non è tanto la differenza di credo: piuttosto, «il metro di cui si serve è il grado di felicità»[518]: 

 

Quale idea avessero gli antichi della felicità, e quindi dell’infelicità, dell’uomo in questa vita, della sua gloria, delle sue imprese, e come tutto ciò paresse loro solido e reale, si può arguire anche da questo, che delle grandi felicità ed imprese umane ne credevano invidiosi gli stessi Dei, e temevano perciò l’invidia loro, ed era lor cura in tali casi deprecari la divina invidia, in maniera che stimavano anche fortuna, e, se ben mi ricordo, si proccuravano espressamente qualche leggero male, per dare soddisfazione agli Dei e mitigare l’invidia loro[519].

 

E ancora, nei pensieri del 1821, è chiaro che «un presupposto necessario del pessimismo storico era la felicità degli antichi, o almeno il carattere meramente passeggero ed episodico della loro infelicità»[520]:

 

Chi è o fu più felice? Gli antichi coi loro sacrifizi, le loro cure, le loro inquietudini, negozi, attività, imprese, pericoli: o noi, colla nostra sicurezza, tranquillità, non curanza, ordine, pace, inazione, amore del nostro bene e non curanza di quello degli altri o del pubblico ec.? Gli antichi col loro eroismo o noi col nostro egoismo?[521]

 

La diatriba attorno al potere salvifico delle illusioni – sia presso gli antichi che presso i moderni – è centrale proprio in questo biennio ’19-’21, in cui per Leopardi l’immaginazione è «una facoltà estranea non solo alla verità assoluta della ragione e della scienza, ma anche alla verità individuale e psicologica del cuore, che è essa pure un carattere moderno»47, e si inserisce perfettamente nella dinamica del Bruto minore – e, forse ancor più, della Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto vicini a morte. Sia da esempio questo altro brano dello Zibaldone, datato 18-20 agosto 1820: 

 

Le illusioni, per quanto sieno illanguidite e smascherate dalla ragione, tuttavia restano ancora nel mondo e compongono la massima parte della nostra vita. E non basta conoscer

 

tutto per perderle, ancorché sapute vane. E perdute una volta, né si perdono in modo che non ne resti una radice vigorosissima, e, continuando a vivere, tornano a rifiorire in dispetto di tutta l’esperienza e certezza acquistata. Io ho veduto persone savissime, espertissime, piene di cognizioni, di sapere e di filosofia, infelicissime, perdere tutte le illusioni, e desiderar la morte come unico bene[522]. 

 

Fin qui, sembrerebbe che Leopardi stia stilando una sorta di parafrasi che anticipa il sentire del suo stesso Bruto penitente della virtù, che rimpiange con essa tutte le illusioni e le credenze religiose e l’amor di patria e la fiducia nella storia. Ma, poco sotto, riprende l’argomentazione mettendo al centro, a mo’ di exemplum, la propria esperienza, per dimostrare quanto le illusioni, anche – e soprattutto – quando son credute svanite, sempre rifioriscono accompagnando l’uomo persino nella più misera quotidianità: 

 

Ed a me pure è avvenuto lo stesso cento volte, di disperarmi propriamente per non poter morire e poi riprendere i soliti disegni e castelli in aria intorno alla vita futura e anche un poco di allegria passeggera. E quella disperazione e quel ritorno non avevano cagion sufficiente di alternarsi, giacché la disperazione era prodotta da cause che duravano quasi intieramente nel tempo ch’io riprendeva le mie illusioni[523].

 

Certamente, questo mutamento non sorge dalle pagine ancora bianche del suo diario filosofico: a ispirarlo è la partecipazione alla disputa letteraria di quegli anni (sulla scia della Querelle des Ancients e des Modernes), una sorta di «confronto protonazionale, che lascia in eredità all’Italia a venire una tensione irrisolta fra apertura culturale e autarchia, e tra fame di moderno e arroccamento sul passato»[524], nonché l’influsso di intellettuali del calibro di Madame De Staël[525]. Come espone D’Intino, Leopardi non condivide del tutto la posizione teorica della scrittrice, che intende affidare un ruolo di primaria importanza

 

al progresso (infatti, la posizione di Leopardi è singolare poiché è «totalmente acompromissoria, rifiutando sia, esplicitamente, le poetiche “romantiche” […] che, implicitamente, la prassi classicista dell’imitazione, e finanche l’idea stessa di classicità tout court»)[526]. Tuttavia, «la baronessa, esaltando la morale socratica, ammetteva che gli antichi riuscivano ad essere virtuosi – ed erano dunque un modello da imitare – nonostante la loro cecità sul vero»[527]. E di nuovo può risultare illuminante il passo dello Zibaldone 315, 1 sopracitato, quando Leopardi, in riferimento agli «scrittori di vero e squisito sentimentale», enuncia che

 

Quanto più era vivo in loro il sentimento della vanità delle illusioni, tanto più si prefiggevano e speravano di conseguire un fine illusorio, e col desiderio della morte vivamente sentito e vivamente espresso non cercavano altro che di procurarsi alcuni piaceri della vita. E così tutti i filosofi che scrivono e trattano le miserabili verità della nostra natura, e ch’essendo privi d’illusioni, in fondo non cercano poi altro veramente col loro libro che di crearsi e godersi alcuni illusorii vantaggi della vita[528]. 

 

Di fatto, per Leopardi «è proprio dopo il ’23 che il motivo della superiorità degli antichi, oltre che riproporsi massicciamente, trova la sua formulazione più precisa e più profonda», nel momento in cui apprende che «la grandezza degli antichi è dovuta esclusivamente alla loro anteriorità alle verità positive che irretiranno il mondo moderno»[529]: e Bruto è la riprova che il sopraggiungere della verità, fino a quel momento celata dal velo ingannatore, designa la fine incontrovertibile di un’epoca ormai interamente decorsa, sigillando per sempre l’età delle favole antiche e decretando una netta cesura tra due fasi antitetiche della civiltà umana. All’altezza del ’21, «l’accordo religione-ragione, in cui Leopardi aveva ancora così fermamente creduto al tempo del Saggio sopra gli errori popolari, era definitivamente rotto»56. Infatti, se presso gli antichi

 

la religione, al pari delle illusioni, era funzionale a contenere l’assalto della pura e fredda ragione, ciò non vale per Bruto (che, come Giacomo, era ormai già quasi filosofo): 

 

Quando l’uomo veramente sventurato si accorge e sente profondamente l’impossibilità d’esser felice e la somma e certa infelicità dell’uomo, comincia dal divenire indifferente intorno a se stesso, come persona che non può sperar nulla né perdere e soffrire più di quello ch’ella già preveda e sappia. Ma se la sventura arriva al colmo, l’indifferenza non basta: egli perde quasi affatto l’amor di se, ch’era già da questa indifferenza così violato, o piuttosto lo rivolge in un modo tutto contrario al consueto degli uomini: egli passa ad odiare la vita, l’esistenza e se stesso, egli si abborre come un nemico: e allora è quando l’aspetto di nuove sventure o l’idea e l’atto del suicidio gli danno una terribile e quasi barbara allegrezza, massimamente se egli pervenga ad uccidersi essendone impedito da altrui; allora è il tempo di quel maligno amaro e ironico sorriso, simile a quello della vendetta eseguita da un uomo crudele, dopo forte lungo e irritato desiderio: il qual sorriso è l’ultima espressione della estrema disperazione e della somma infelicità[530].

 

È chiaro che già nel ’19 serpeggiava nella mente del recanatese l’idea di un altero, eroico suicida che trae un certo piacere nel togliersi la vita di fronte agli dèi fieramente rinnegati: e dunque, attraverso l’imprecazione di Bruto, Leopardi stesso estingue ogni dubbio: i moderni filosofi sono troppo accecati dall’aridità del vero per tornare a credere nelle care illusioni.  

Dunque, nell’epoca della ragione, «bisogna far sì che ciò che si ritiene vero razionalmente (ma che mette in pericolo la vita, o la vitalità dell’individuo), diventi qualcosa di accettabile o addirittura entusiasmante», di modo che «il martire [possa] addirittura superare il timore del pericolo, e godere della propria stessa morte»[531]. E anche se Bruto certo si avvicina al ruolo di martire, tuttavia non lo estingue, poiché, nonostante goda della sua morte, non lo fa in virtù di un motivo nobile, come poteva essere, presso gli antichi, la rivendicazione della libertà. E però, al sopraggiungere del moderno passione e ragione si sovrappongono, dal momento che «persuasione, passione e illusione tendono a convergere in un’unica zona sensibile, non ben distinta da quella razionale, che è la sola a garantire l’energia, il movimento, e dunque la possibilità di agire»; e – continua D’Intino

 

– «senza questo tipo di persuasione non ci sono azioni, e dunque non ci sono costumi, e dunque neanche la necessità di una morale»[532]. 

Certo le grandi azioni, e un’alta morale, erano tipiche delle civiltà antiche di Atene e di Roma, rette dalle vitali illusioni: ma quelle civiltà sono scomparse, la decadenza cominciata in Occidente con la fine della libertà romana è inevitabilmente intersecata, per Leopardi, coi successi cognitivi della scienza moderna. Ma in mezzo a tutte quelle divergenze che allontanano l’uomo antico dal moderno, c’è un buco di trama: e a Leopardi interessa proprio quel passaggio, il momento in cui «Bruto aveva dubitato della virtù e in pari tempo l’aveva affermata con l’azione e il comportamento», ergendosi a «eroe di frontiera, insieme antico e moderno»[533]. Per dirla con Luporini, il Bruto minore è una «zona», «il luogo poetico dove si trasfigura la virtù da antica a moderna»[534]. E Leopardi la assume tutta su di sé. 

 

2. BRUTO E TEOFRASTO: «LULTIMA ETÀ DELLIMMAGINAZIONE»  

 

Se procedi t’ imbatti

tu forse nel fantasma che ti salva:

si compongono qui le storie, gli atti scancellati pel giuoco del futuro[535].

 

A completare il quadro semantico del mutamento, non basta più solo il cesaricida pomposo del Bruto minore, ma deve necessariamente subentrare il Bruto della Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto vicini a morte – che è sempre il medesimo personaggio, penitente e traditore della virtù, ma visto “dall’esterno” ed esente dal pronunciare qualsiasi monologo. Nella Comparazione, diversamente dalla canzone, Bruto non è rappresentato tanto come un eroe, quanto, piuttosto, come un antieroe: infatti, nel testo in prosa, «essenziale, sintetica, inascoltata, la sentenza di Bruto si incentra sul solo problema dell’abiura della virtù e della contrapposizione alla fortuna» – spiega Zandrino – mentre «nel monologo della canzone, concitato e gridato, convulso

 

e acceso, enfatico e aulicamente forzato, la negazione della virtù stessa in assoluto […] è unita alle accuse blasfeme contro “gl’inesorandi Numi”»[536], e alle considerazioni di natura speculativa proprie del Leopardi neo-filosofo. 

 Un altro aspetto rilevato da Zandrino riguarda la peculiare solitudine del Bruto leopardiano che, nel suo ritiro privato, sperimenta su di sé quella mutazione della natura dei tempi che si riversa, inesorabilmente, sulla sua persona, facendo di lui l’unico testimone di una metamorfosi epocale. In questo Leopardi prende le mosse dalle fonti storiche, poiché «la solitudine fisica e morale dell’eroe leopardiano rovescia soprattutto l’immagine ideale plutarchiana di Bruto che ritiratosi in disparte con due o tre amici si uccide con l’aiuto di Stratone»[537], confortato di non esser stato deluso se non dalla fortuna.

Così infatti viene descritto l’atteggiamento del suicida di Filippi nella Comparazione: 

 

Di poi ci hanno a persuadere che un uomo sopraffatto da una calamità eccessiva e irreparabile, disanimato e sdegnato della vita e della fortuna; uscito di tutti i desiderii, e di tutti gl’inganni delle speranze; risoluto di preoccupare il destino mortale e di punirsi della propria infelicità; nell’ora medesima che esso sta per dividersi eternamente dagli uomini, s’affatichi a correr dietro al fantasma della gloria, e vada studiando e componendo le parole e i concetti per ingannare i circostanti, e farsi avere in pregio da quelli che egli si dispone a fuggire, e in quella terra che se gli rappresenta per odiosissima e dispregevole[538].

 

Leopardi ha optato cioè per una scena vuota, un quadro da cui emerge il testamento solipsistico di un individuo di fronte all’umanità: al contrario, lo stesso Bruto «ne Le vite parallele, si uccide rendendo, di fronte agli amici, alta testimonianza alla virtù e alla libertà repubblicana con la stessa serena consapevolezza di Catone, simbolo della libertà»[539]. E perciò Leopardi porta in scena non un Bruto storico, ma un Bruto morale, quasi filosofo – antico ma non ancora moderno –, che si rende conto che «un’altra felicità

 

non si trova» e che «la filosofia moderna non si dee vantare di nulla se non è capace di ridurci a uno stato nel quale possiamo esser felici»[540]: se le virtù antiche convenivano all’uomo, le loro larve moderne non gli convengono affatto, e se «allora si viveva anche morendo, […] ora si muore vivendo», poiché i tempi nuovi sono decaduti in mano alla barbara ragione. È chiaro allora che «tale ragione risiede precisamente nel fatto che i moderni hanno sviluppato quel positivo principio spirituale che, per Leopardi, è causa di decadenza e insieme di infelicità»[541], e che dunque «questo è anche il vero discrimine fra le due essenziali e opposte fasi della civiltà umana»[542].

 Riguardo a questo discrimine, e all’importanza che la scienza del vero ha assunto nei modelli di pensiero antico e poi moderno, Leopardi riflette in alcuni brani dello Zibaldone del 1820 dedicati alla figura di Teofrasto (in quanto filosofo antico, saggio e tutto dedito alla scienza del vero). La predilezione per Teofrasto (rispetto a Bruto) è evidente nella misura in cui, secondo Luporini, questi brani sembrano in un primo momento seguire un percorso tematico a sé, al punto che «il ricorso comparativo al personaggio Bruto appare pressoché un puntello per dare robustezza di contrasto, con la singolarità dell’accostamento, a ciò che Leopardi voleva dire di Teofrasto»[543], ma in realtà «da quell’accostamento molto costruito, sia negli elementi differenziali sia in quelli d’identità, scaturiscono significati altrimenti non riducibili a ognuno dei due personaggi separatamente presi»71:

 

Del rimanente mi pare che Teofrasto, forse solo fra gli antichi o più di qualunque altro, amando la gloria e gli studi, sentisse per altro l’infelicità inevitabile della natura umana, l’inutilità de’ travagli e soprattutto l’impero della fortuna e la sua preponderanza sopra la virtù relativamente alla felicità dell’uomo e anche del saggio, al contrario degli altri filosofi tanto meno profondi quanto più superbi, i quali ordinariamente si compiacevano di credere il filosofo felice di per se, e la virtù sola o la sapienza bastanti per se medesime alla felicità. Laonde Teofrasto non ebbe giustizia dagli antichi, incapaci di conoscere quella profondità di tristo e doloroso sentimento che lo faceva parlare. […] Ma così si

 

vede anche che Teofrasto, conoscendo le illusioni, non però le fuggiva o le proscriveva, come i nostri pazzi filosofi, ma le cercava e le amava[544].

 

Una delle prime divergenze che si incontrano tra il pensiero di Teofrasto e quello di Bruto sta nella loro considerazione della fortuna: se per il primo «l’impero della fortuna» si ergeva sopra la virtù e la felicità, per il secondo è invece tutto il contrario, come si evince già dall’incipit della Comparazione. Qui, sono le stesse parole di Bruto, secondo la testimonianza di Cassio Dione, a sottolineare questa gerarchia: «O virtù miserabile, eri una parola nuda, e io ti seguiva come tu fossi una cosa: ma tu sottostavi alla fortuna»[545]. E infatti, proprio presso gli antichi la fortuna era considerata un’entità di forza superiore, al pari di una «ferrata necessità», poiché era in grado, talvolta, di privare gli uomini della felicità, «la quale essi stimavano possibilissima a conseguire, anzi propria dell’uomo, se non quanto la fortuna gliela vietasse»[546]. Come ha rilevato Luporini, la Comparazione «si svolge sul filo, ora più evidente ora più nascosto, di un interrogativo: ha Teofrasto “vicino a morte” (come del resto Bruto, a sua guisa) oltrepassato veramente quel limite degli antichi?». Quel limite risiederebbe proprio nel concetto di “fortuna”, e dunque i casi di Bruto e Teofrasto sarebbero esemplari proprio perché i due «pronunciando in punto di morte quelle sentenze si sono collocati al di là di quel limite»[547]: 

 

E più maraviglia ci debbono fare le sentenze di Teofrasto, quanto che le condizioni della sua morte non si potevano chiamare infelici, e non pare che Teofrasto se ne potesse rammaricare, avendo conseguito e goduto fino allora per lunghissimo spazio il suo principale intento, ch’era stata la gloria. Laddove il concetto di Bruto fu come un’ispirazione della calamità, la quale alcune volte ha la forza di rivelare all’animo nostro quasi un’altra terra, e persuaderlo vivamente di cose tali, che bisogna poi lungo tempo a fare che la ragione le trovi da se medesima, e le insegni all’universale degli uomini, o anche de’ filosofi solamente[548]. 

 

Sebbene il testo metta in primo piano le ultime sentenze di due “anime grandi” che, con la loro apostasia, rinnegano i valori che avevano contrassegnato la loro vita, «Leopardi

 

mostra di apprezzare Teofrasto perché, comunque egli fosse giunto a quelle sue ultime conclusioni, il suo percorso di vita […] è stato una via del sapere concreto»[549]. Teofrasto – a differenza di Bruto che, invece, si ritrova ad essere tanto più violento quanto più si era illuso – è già disilluso e per questo, anche negli ultimi istanti, si mostra calmo e consapevole: perciò Teofrasto dichiara la vanità della vita, e la quasi inesistente correlazione tra virtù e felicità, «ma pur avendo compreso la nullità e verità d’ogni cosa, procura non solo di nasconderla e dissimularla agli altri, ma anche a se medesimo»[550]. Spesa l’intera vita a studiare la scienza del vero, di certo «non è maraviglia che Teofrasto arrivasse a conoscere la somma della sapienza, cioè la vanità della vita e della sapienza medesima»[551]: sempre nello Zibaldone, infatti, è presente un brano che verrà ripreso nella Comparazione, in cui le parole di Teofrasto riportate da Leopardi gli appaiono come «una voce isolata di pessimismo ragionato […] in un mondo ancora rigoglioso di illusioni»[552]:

 

Diogene Laerzio […] dice dunque che Teofrasto venuto a morte e domandato da’ suoi discepoli se lasciasse loro nessun ricordo o comandamento, rispose: Niuno; salvo che l’uomo disprezza e gitta molti piaceri a causa della gloria. Ma non così tosto incomincia a vivere, che la morte gli sopravviene. Perciò l’amore della gloria è così svantaggioso come che sia. Vivete felici, e lasciate gli studi, che vogliono gran fatica; o coltivategli a dovere, che portano gran fama. Se non che la vanità della vita è maggiore che l’utilità. Per me non è più tempo a deliberare: voi altri considerate quello che sta più spediente. E così dicendo spirò [553]. 

 

La Comparazione costituisce un’importante riflessione attorno alla vanità delle illusioni e alla superiorità della scienza in quanto portatrice di verità cosiddette “assolute”, le quali denudano l’uomo dal velo protettivo dell’immaginazione e lo discostano dal senso di

 

devozione verso gli ideali: si legge infatti che «Teofrasto […] moriva, diciamo così, penitente della gloria, come poi Bruto della virtù»[554]. Le due apostasie, specie quella del pensatore greco, dimostrano non solo la vanità delle illusioni ma anche il continuo impulso a desiderarle e cercarle, perché «se Teofrasto vicino a morte le abbandonò e quasi le rinegò come Bruto, questo stesso è una prova di quanto le avesse amate, perché non si ripudia quello che non s’è mai amato, né si abbandona quello che non s’è mai seguito»[555]. Ne deriva che l’ampia disamina di Leopardi sopra i due testamenti di Bruto e Teofrasto sia volta a criticare la mentalità arcaica (e illusa) su cui poggiavano le credenze d’un tempo, frutto di errori atavici e grossolani[556]: lui pone per entrambi «la questione del sentire» [557] , perché vuole disperatamente «cercare quello che potesse avere indotto nell’animo di Teofrasto il sentimento della vanità della gloria e della vita» [558]. E di conseguenza si può affermare che nella Comparazione emerge, attraverso Teofrasto, la denegazione già tipica dei greci di quegli «errori magnanimi che abbelliscono o più veramente compongono la nostra vita»[559]. La questione, per Leopardi, è serissima: al centro vi era l’indagine delle differenze tra antichi e moderni, non tanto per quel che riguarda usi e costumi quanto per la concezione dell’etica e della morale[560]. 

 Nello sviluppo interno della Comparazione, Leopardi mette ugualmente in evidenza anche la rivolta di Bruto, che però differisce da quella del filosofo greco per la «natura diversa de’ tempi», dal momento che  

 

Teofrasto gli ebbe, se non propizi, tuttavia non ripugnanti a quei sogni e a quei fantasmi che governarono i pensieri e gli atti degli antichi. Laddove possiamo dire che i tempi di Bruto fossero l’ultima età dell’immaginazione, prevalendo finalmente la scienza e l’esperienza del vero e propagandosi anche nel popolo quanto bastava a produr la vecchiezza del mondo. Che se ciò non fosse stato, nè quegli avrebbe avuta occasione di

 

fuggir la vita, come fece, nè la repubblica romana sarebbe morta con lui. Ma non solamente questa, bensì tutta l’antichità, voglio dir l’indole e i costumi antichi di tutte le nazioni civili, erano vicini a spirare insieme colle opinioni che gli avevano generati e gli alimentavano89. 

 

Certo è che mentre l’apostasia di Teofrasto si distingue come un atto di immensa onestà intellettuale, in quanto «le filosofie degli antichi avevano serbato una funzione sociale, di stimolo alla virtù, che mancava alle aride filosofie moderne»[561], quella di Bruto appare svalutata, poiché lui ha compiuto il suo atto libero in una circostanza estremamente non favorevole che sembra aver mancato il tempismo. Ma si noti anche un altro particolare: in questo passaggio di testo sono condensati tutti i temi pregnanti che verranno sviluppati, pochi anni dopo, nella seconda parte della Storia del genere umano, ovvero i sogni, i fantasmi, l’immaginazione, il vero (e questa come le altre Operette costituisce uno degli «spazi della scrittura nei quali si fanno più esplicite le allusioni polemiche e satiriche verso il genere umano superbo e sciocco, che spreca alla vanità e all’egoismo tempo ed energie», ma che al contempo «rimane cieco e indifferente di fronte alla crudeltà insensibile di cui il presente stesso è protagonista»)[562]. 

E la scoperta del vero avviene proprio durante la quarta età del genere umano, tempo in cui scompaiono le «benefiche illusioni» [563] e comincia a imperversare la «vecchiezza del mondo»[564]. A tal proposito, si può affermare che «questo “avanzamento” nella “scienza del cuore umano”, […] è nella Comparazione antedatato rispetto al tempo

 

89 G. Leopardi, Comparazione delle sentenze ec., in G. Leopardi, Poesie e prose vol. II, cit., pp. 273-274. Corsivo mio.

di Bruto e a quella “ultima età dell’immaginazione” che prelude al cristianesimo e all’affermazione del “vero” su cui poggia il moderno»[565]. 

Fa notare Campailla, a proposito della vicinanza tematica tra la Storia del genere umano e la Comparazione, che «Leopardi con un elaborato mito viene a dirci quindi quanto già ci aveva detto con l’apostasia di Teofrasto più che secolare», perché se è vero che il filosofo impiegò “solo” un secolo per arrivare ad intendere «quanto era meglio rimanesse nascosto»[566], migliaia di anni quasi non bastarono agli uomini per raccapezzarsi della loro stessa fralezza e della (fino allora non intelligibile) fallacia del mondo fenomenico. Sentenzia così Leopardi-Teofrasto: 

 

Questi tali rinnegamenti, o vogliamo dire, apostasie da quegli errori magnanimi che abbelliscono o più veramente compongono la nostra vita […] riescono ordinarissimi e giornalieri dopo che l’intelletto umano coll’andare dei secoli ha scoperto, non dico la nudità, ma fino agli scheletri delle cose, e dopo che la sapienza, tenuta dagli antichi per consolazione e rimedio principale della nostra infelicità, s’è ridotta a denunziarla […]. Ma fra gli antichi, assuefatti com’erano a credere, secondo l’insegnamento della natura, che le cose fossero cose e non ombre, e la vita umana destinata ad altro che alla miseria, queste sì fatte apostasie cagionate, non da passioni o vizi, ma dal senso e discernimento della verità, non si trova che intervenissero se non di rado[567].

 

Dunque, è chiaro che il recanatese aveva già da tempo maturato un fermo ragionamento sopra la «infinita vanità del tutto», volto a mostrare che la condizione di infelicità dei moderni, in fin dei conti, non si discosta così tanto da quella degli antichi; tant’è che nella Comparazione il giudizio leopardiano sulla classicità risulta a tratti ambivalente, proprio perché poggia su quel pessimismo di matrice greca (di cui Teofrasto è portavoce) che fa sentire i suoi echi anche nel racconto esistenziale della Storia del genere umano97. 

 Tuttavia – continua Campailla – c’è una differenza da tenere in considerazione: «mentre Teofrasto aveva combattuto sino alla fine in nome delle illusioni e le aveva con fini premeditati alimentate negli altri […], persino il potentissimo Giove ad un certo

 

momento rinunzia a lottare e si arrende alla superiore necessità»[568], dal momento che la protervia dei mortali mette a dura prova anche la pazienza divina. E così, come gli uomini della Storia, anche Teofrasto sceglie di subordinare la «scienza universale […] non allo studio né alla ricerca del bello, ma del suo maggior contrario, ch’è propriamente il vero»[569], pagando però a caro prezzo ciò che da quello studio deriva, e cioè «la vanità della vita e della sapienza medesima; […] l’inutilità de’ sudori umani, e così degl’instituti suoi propri come degli altrui»[570]. 

 E una volta che tutte le illusioni hanno lasciato posto alle loro fievoli ombre, e tanta disperazione e noia hanno prodotto innumerevoli suicidi ignobili – col rischio di decadere verso un «serraglio di disperati» –, gli uomini si trovano «dominati dalla verità, che funziona come rivelazione ulteriore e definitiva del loro stato infelice» [571], e si scoprono del tutto «privati della speranza; colla quale dal principio insino al presente, più che con altro diletto o conforto alcuno, sostentarono la vita»[572]. Dunque, rivolto lo sguardo al vero, gli uomini arrivano finalmente a scontrarsi con la sostanza che sottende il motore dell’esistenza, e cioè un amaro sentimento di vanità e noia, un mero inganno che giustifica la falsità delle illusioni e distrae l’individuo dalla sua condizione di inguaribile infelicità. 

Tornando alla Comparazione, Leopardi ha voluto mettere in evidenza non tanto il contenuto delle due apostasie, quanto il modo in cui i due penitenti hanno rovesciato il senso della propria vita[573]. E se la sentenza di Teofrasto non è influenzata da contingenze esterne, e si conclude tutta nel mero giudizio verbale lasciato ai posteri, per Bruto «la volontà di verità è volontà suicida»[574]; e dunque il suo testamento si traduce in un gesto fisico di estrema violenza perché in fondo capisce che l’esistenza ha come suo unico fine l’infelicità:  

 

Pare che l’essere delle cose abbia per suo proprio ed unico obbietto il morire. Non potendo morire quel che non era, perciò dal nulla scaturiscono le cose che sono. Certo l’ultima causa dell’essere non è la felicità; perocché niuna cosa è felice. Vero è che le creature animate si propongono questo fine in ciascuna opera loro; ma da niuna l’ottengono: e in tutta la loro vita, ingegnandosi, adoperandosi e penando sempre, non patiscono veramente per altro, e non si affaticano, se non per giungere a questo solo intento della natura, che è la morte[575]. 

 

Dalla sentenza di Bruto all’amaro finale del Cantico del gallo silvestre emerge, in ultimo, che «il passaggio a una dimensione cosmica del male, a una constatazione della sofferenza inscritta nella natura umana implica il crollo del valore positivo delle illusioni, che avevano costituito finora il fondamento del vitalismo leopardiano»[576] (di fatto, la Comparazione non fu, al pari del Bruto minore, un’opera generata da un impulso poetico durato venti giorni, ma la conseguenza di una lunga serie di letture da cui scaturisce una concezione del mondo via via più pessimistica e negativa destinata a protrarsi negli anni). 

Dal ’22 a distanza di pochi anni, ancora si può cogliere «l’intento leopardiano di rivestire un programma attuale di riforma morale di panni antichi, attraverso una rilettura personale della filosofia classica»[577], come conferma la lettera del 1825 a Melchiorre Missirini: 

 

Ella mi ricorda molto a proposito il detto di Augusto vicino a morte, il quale si poteva aggiungere a quelli di Bruto e di Teofrasto. Se volessi scusare il mio silenzio, direi, non ch’io volessi lasciare agli uomini il culto della fortuna, divinità traditrice, ma che avendo tolto alla nostra misera vita la virtù e la gloria, a me parve aver fatto tutto, ed assai più che se le avessi anche voluto togliere la fortuna, la quale dai più dei filosofi (almeno in parole) è tenuta per molto inferiore alla gloria ed alla virtù. Onde avendo io ridotti gli uomini alla fortuna, non mi parve necessario di aggiunger altro, perché pochi ignorano la vanità di lei. E molti antichi e moderni hanno, come Augusto, rassomigliato il mondo a un teatro, e la vita umana a una commedia; ma non molti, massimamente tra gli antichi, hanno come Bruto e Teofrasto pronunciata solennemente la vanità della gloria, anche giusta e degna, e della stessa virtù[578].

 

La lettera dimostra che a pochi anni di distanza dalla stesura sia della canzone che della Comparazione, il tema del rinnegamento della virtù e della gloria è ancora ben vivo in

Leopardi. Non solo: la Comparazione non è solo un proseguimento del (o, se si vuole,

 

un’introduzione al) Bruto minore, perché anzi «in Teofrasto e in Bruto si compie una meta-riflessione più ardita, che mette in discussione i fondamenti dell’etica classica, che identifica felicità e virtù»[579]. E se da una parte il recanatese si riconosce anche in Teofrasto, perché «aveva – come il Leopardi giovane – un “sapere enciclopedico” […]» e perché «il pessimismo non aveva spento in lui, come nemmeno nel Leopardi, la fiamma patriottica e libertaria!»[580], dall’altra (e per molti anni) Bruto rimarrà il suo fantasma, la sua larva accompagnatrice. Similmente a quanto sostenuto nel paragone tra il Bruto e la Saffo, anche in questo caso si può affermare che Bruto e Teofrasto siano due metà complementari del pensiero del recanatese, «quella alfieriana e agonistica, quale si era espressa nelle Canzoni, e quella ragionativa e filosofica, a cui il Leopardi avrebbe di lì a poco dato espressione nelle Operette»[581].

 

3. VERSO LATARASSIA: EPITTETO E LA MORALE

 

Piove sui nuovi epistèmi del primate a due piedi, 

sull’uomo indiato, sul cielo ominizzato, sul ceffo dei teologi in tuta o paludati,  piove sul progresso  della contestazione,  piove sui works in regress, piove

sui cipressi malati del cimitero, sgocciola sulla pubblica opinione[582].

 

Con la Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto vicini a morte affiora in Leopardi una preoccupazione pedagogica nel ricercare un equilibrio tra la constatazione – alquanto cinica – di quel “nulla” che è l’esistenza, e il falso appiglio luminoso su cui poggia il progresso. Così, nella sentenza di Teofrasto, si pone una «sfida […]: nulla detrarre al vero, senza spregiare le illusioni. Compiere un passo indietro per

 

non precipitare nell’abisso del nulla, ma per sostarvi, nel periodo breve della nostra vita, con il conforto effimero delle nostre opere»113.

Ora, nella misura in cui le riflessioni storico-civili di Leopardi passano in rassegna passato e presente, mescolando antichità e contemporaneità (specie quando si sofferma sul clima di riforma da lui stesso vissuto) alla ricerca di un modello regolativo, non si può, per continuità tematica con la Comparazione, non prendere in esame il Manuale di Epitteto – o meglio: il Preambolo del volgarizzatore a detto manuale (a cui Leopardi era così legato tanto da compierne una traduzione a suo modo personale)114. L’accostamento delle due opere non è casuale, dal momento che era stato proprio lo stesso Giacomo, a quell’epoca seguace della Stoa, a volerle pubblicare assieme[583]: 

 

Consegnai al signor Moratti il 2° volumetto del Petrarca, e con questa gli consegno, raccomandandoglielo caldamente, il ms. dell’Epitteto, che ho ben riveduto e corretto, alzandomi a bella posta da letto. Confesso che ne sono stato soddisfatto assai: almeno è certo che io non saprei far di meglio […]. Se mai per accrescere il volume dell’Epitteto, ella volesse aggiungervi la mia Comparazione delle sentenze di Bruto e di Teofrasto (cosa che ha relazione colla filosofia stoica, e che in Lombardia non ha potuto esser conosciuta), ella me lo indichi, e nel riveder le prove di stampa, io vi farò quei miglioramenti che tengo già preparati per una seconda edizione[584].

 

Di contro agli ammonimenti dello zio Carlo Antici [585] , Leopardi si era più volte raccomandato con gli editori affinché i due testi figurassero nella stessa sede, perché «un’analoga componente di virile eroismo – quale quella affidata per comune sentenza a

 

113  A. Vigorelli, op. cit., p. 191.

114  Cfr. A. Dolfi, op. cit., pp. 414-415: «Il lessico dell’Epitteto leopardiano, pur legato e ancorato alle ragioni di un libro preesistente (rispettato anche nella sua antica misura), risente insomma e registra quel particolare lessico che sarebbe stato peculiare delle Operette morali, caratterizzato nel suo complesso dalla possibilità di spostamenti di tono, dalla mescolanza significativa di arcaismi e loquela quotidiana (a livello sintagmatico e sintattico), dalla ricerca della chiarezza, del gusto e dell’eufonia».  

Bruto – doveva circolare anche nella radicale e decisa convinzione stoica», mediata in questo caso da Epitteto, «che non mancava di fargli dichiarare contro l’opinione del secolo, il disprezzo per la vita e la riduzione dei desideri e delle cose a nulla»[586]. 

Anche se, come rileva Timpanaro, «una piena adesione del Leopardi alla morale di Epitteto era impedita non solo dalla componente agonistica del suo pessimismo, […] ma anche da precedenti esperienze nel campo della stessa filosofia greca, a cominciare da Teofrasto»[587], già da tempo il recanatese si era avvicinato ai moralisti greci come Socrate ed Epicuro, chiamati in causa nel ’24 nei Detti memorabili di Filippo Ottonieri:

 

Nella vita, quantunque temperatissimo, si professava epicureo, forse per ischerzo più che da senno. Ma condannava Epicuro; dicendo che ai tempi e nella nazione di colui, molto maggior diletto si poteva trarre dagli studi della virtù e della gloria, che dall’ozio, dalla negligenza, e dall’uso delle voluttà del corpo; nelle quali cose quegli riponeva il sommo bene degli uomini. Ed affermava che la dottrina epicurea, proporzionatissima all’età moderna, fu del tutto aliena dall’antica. Nella filosofia, godeva di chiamarsi socratico; […] nè anche ragionava, al modo di Socrate, interrogando e argomentando di continuo; perché diceva che, quantunque i moderni sieno più pazienti degli antichi, non si troverebbe oggi chi sopportasse di rispondere a un migliaio di domande continuate, e di ascoltare un centinaio di conclusioni[588]. 

 

La vicinanza di questo passo dell’operetta al Preambolo del Manuale era già stata notata, a suo tempo, da Fubini, che sottolinea l’importanza che la dottrina stoica (e in generale i dettami propri della saggezza antica) aveva significato per Leopardi nel corso degli anni, anche se «ideali non potevano essere per lui né l’apatia degli stoici né l’atarassia degli epicurei»[589]. Al di là, comunque, dell’interpretazione di Fubini, va detto che «la filosofia ironica, tanto nel caso di Socrate quanto in quello dell’Ottonieri e di Leopardi, nasce come una sorta di reazione alla generale insensibilità del mondo»[590]. Ironia, dunque, da una parte, e stoicismo dall’altra: ma ciò non significa che, per Leopardi, i due modi di interpretare la vita si escludano a vicenda. 

 

Nella considerazione dello stoicismo come filosofia propria degli spiriti deboli, dopo l’Ottonieri «l’interpretazione di Leopardi raccoglie lo spirito di Epitteto, ma nello stesso tempo rivela tutte le sofferenze di un’anima e di un’epoca tormentata» [591] . Riprendendo quindi di sua sponte la dottrina stoica nel Preambolo del volgarizzatore al Manuale, incorpora il pensiero di Epitteto («applicato da Leopardi alla propria esperienza interiore»)[592] nella sua filosofia che, come confessa a Giampietro Vieusseux nel marzo del ’26, gli sarà sempre utile negli anni a venire per «sopportar l’esistenza»:  

 

Credetemi che quel poco (veramente poco) che io posso, lo spenderei volentieri tutto in servizio dell’Italia e vostro, aiutandovi in cotesta impresa secondo le mie forze, e che conosco e apprezzo l’onore che voi mi fate giudicandomi capace di esservi utile. […] Tenete dunque per costante che la mia filosofia (se volete onorarla con questo nome) non è di quel genere che si apprezza ed è gradito in questo secolo; è bensì utile a me stesso, perché mi fa disprezzar la vita e considerar tutte le cose come chimere, e così mi aiuta a sopportar l’esistenza; ma non so quanto possa esser utile alla società, e convenire a chi debba scrivere per un Giornale[593]. 

 

Anche se «le mode filosofiche tra gli anni Venti e Trenta finiscono per coinvolgere e infine mobilitare Leopardi più di quanto egli stesso non avrebbe preveduto quando […] si barricava dietro il proprio isolamento»[594], il richiamo che il recanatese avvertiva per il Manuale (da lui considerato un «manuale di rassegnazione»)[595] era più forte di ogni altra moda. L’attrazione per la morale greca, e in particolare per Epitteto, non era data solo dalla sintonia tra la sua sensibilità matura e lo spirito della Stoa, ma anche dall’intersecarsi dei temi trattati dall’antico pensatore con il nuovo linguaggio leopardiano della conversione alla prosa, tutto dedito, ormai, allo svelamento e all’analisi della sola scienza dell’essere, ossia il vero:  

 

Ed io, che dopo molti travagli dell’animo e molte angosce, ridotto quasi mal mio grado a praticare per abito il predetto insegnamento, ho riportato di cosí fatta pratica e tuttavia riporto una utilitá incredibile, desidero e prego caldamente a tutti quelli che leggeranno queste carte, la facoltá di porlo medesimamente ad esecuzione[596].

 

Rispetto ad ogni altra traduzione, con l’Epitteto il recanatese intendeva fondere un interesse personale con la necessità di divulgare un messaggio a un «pubblico da muovere e convincere all’esecuzione»129 – per quanto lui si ritenesse poco utile alla società –, similmente a quanto aveva fatto già l’anno prima con il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani130, sempre spinto da quella verace volontà di scuotere la sua «povera patria». E nonostante si presentasse lui stesso come «più absent di quel che sarebbe un cieco e sordo»[597], come «moralista solitario, incapace di studi sociali e anzi disprezzando apertamente la politica»[598], l’avvicinamento alla tradizione filosofica di matrice greca nel ’24-’25 vede emergere una sorta di impegno pedagogico del Leopardi più maturo, che si distacca dall’espressione poetica individualistica delle canzoni dei primi anni ’20 per addentrarsi nello studio dei rapporti sociali degli uomini con gli altri uomini e con la natura, per quanto «superficialmente» lui stesso intendesse di conseguirlo[599]. Ma, d’altra parte, «i valori etici su cui Leopardi ha ragionato nel Discorso sui costumi e in ampia parte dello Zibaldone, arrivano a consunzione, sono corrosi dalla realtà del mondo smascherato dalla ragione speculatrice»[600], e la morale (quella che Chiara Fenoglio definisce una «morale fragile»)[601] diventa l’unica maestra che permette a chi la segue di intuire la vanità della vita. Se è vero che a dissipare tutte le magnanime

 

129  A. Dolfi, op. cit., p. 413.

130  Cfr. il commento di R. Melchiori in G. Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani, edizione diretta e introdotta da M.A. Rigoni, testo critico di M. Dondero, commento di R. Melchiori, Milano, Rizzoli, 1998, p. 85: «Il titolo riecheggia, probabilmente, l’Essai sur les mœurs et l’esprit des nations (1756) di Voltaire. Ma, tra gli “antecedenti” del titolo, sono da ricordare nello stesso tempo l’Argomento di una canzone sullo stato presente dell’Italia (1818) e il IV dei Disegni letterari (18191821) in cui si accenna a un’opera che avrebbe dovuto chiamarsi Della condizione presente delle lettere italiane (cfr. G. Leopardi, Poesie e prose [vol. I, cit., p. 620 e vol. II, cit., p. 1207])».

illusioni utili ai popoli «per vivere, agire, espandersi e anche semplicemente per esistere» è stato l’eccessivo sviluppo della coscienza e del sapere, ne deriva che «ogni passo verso la conoscenza è un passo verso la vacuità e la paralisi, poiché la scoperta del vero non è altro che la scoperta del nulla»[602]: 

 

L’ambizione può avere varie forme e vari fini. Una volta ella era desiderio di gloria, passione che fu comunissima. Ma ora questa è cosa troppo grande, troppo nobile, troppo forte e viva perch’ella possa aver luogo nella piccolezza delle idee e delle passioni moderne, ristrette e ridotte in angustissimi termini e in bassissimo grado alla ragione geometrica e dallo stato politico delle società; perch’ella possa compatire collo stato di freddezza e mortificazione che risulta universalmente dalla vita civile delle dette cause; e la gloria è un’illusione troppo splendida e un nome troppo alto perché possa durare dopo la strage delle illusioni, e la conoscenza della verità e realtà delle cose, e del loro peso e valore. L’amore della gloria è incompatibile colla natura de’ tempi presenti, è cosa obsoleta come le usanze e le voci antiquate, non sussiste più, o è così raro, e dove anche sussiste è così debole e inefficace che non può esser principio di grandi beni alla società e molto meno servirle di vincolo, quale egli era in gran parte una volta[603]. 

 

Dal nucleo produttivo del ’24 si evince come «pessimismo, progressivismo, antiteodicea, tutti derivano da una precisa delusione storica e da una serie di riflessioni morali, di una morale protestataria, non mai remissiva»[604]: una volta affacciatosi al vero (e dunque alla filosofia), Leopardi perviene ad affermare che, dopo la «strage delle illusioni», l’uomo moderno è sviscerato di quei sentimenti che un tempo guidavano le azioni grandi, e si ritrova debilitato di quella forza con cui si opponeva al fato. E se l’uomo moderno è quindi un soggetto debole, «a quest’uomo, che non è forte, non ha aspetto eroico, ma si manifesta in tutta la sua fragilità e nella sua debolezza»[605] può occorrere in aiuto la filosofia stoica, poiché suggerisce una via di alleggerimento dal dolore e dalle fatiche, nell’esercizio – quasi ascetico – dell’atarassia[606]: 

 

So bene che a questo mio giudizio è contraria la estimazione universale, reputandosi comunemente che l’esercizio della filosofia stoica non si confaccia, e non sia pure

 

eziandio possibile, se non solamente agli spiriti virili e gagliardi oltre misura. Laddove in sostanza a me pare che il principio e la ragione di tale filosofia, e particolarmente di quella di Epitteto, non istieno giá, come si dice, nella considerazione della forza, ma si bene della debolezza dell’uomo; e similmente che l’uso e l’utilitá di detta filosofia si appartengano piú propriamente a questa che a quella qualitá umana. Perocché non altro è quella tranquillitá dell’animo voluta da Epitteto sopra ogni cosa, e quello stato libero da passione, e quel non darsi pensiero delle cose esterne, se non ciò che noi chiamiamo freddezza d’animo, e noncuranza, o vogliasi indifferenza[607]. 

 

La componente moralistica, rassegnata, del pensiero leopardiano si pone come contrappunto allo sforzo combattivo del Bruto minore: se dal vigore delle illusioni scaturiva un’egoistica sfida alla «ferrata necessità», quasi noncurante della sorte individuale, «così nella morale della decadenza, enunciata da Epitteto, la coscienza dei mali e dell’infelicità degli esseri induce, per la via sinistra della ragione, a “non curarsi di esser beato né fuggire di essere infelice”»[608]. E però, nel momento in cui la natura illusoria della morale era già stata intuita da Teofrasto, essa diventa «una vera e propria forma del vivere»[609] grazie a coloro che, come Bruto e Teofrasto, conoscevano e predicavano la vanità delle illusioni. E a quel punto occorreva un ideale di saggezza che potesse insomma condurre alla piena consapevolezza di sé e delle proprie emozioni, che svelasse non l’occulto segreto dell’arte di essere felice (che «è cosa rancida; insegnata da mille, conosciuta da tutti, praticata da pochissimi, e da nessuno poi con effetto»)[610], ma piuttosto quella di rassegnarsi all’infelicità – che è il naturale stato delle cose –, per arrivare a una controllata indifferenza, a una «una filosofia pratica, che avesse l’unico scopo di guidare al vivere, che soprattutto nascesse dall’analisi della realtà, al punto di scordare o non accorgersi quasi di essere filosofia»145: 

 

Questo altro stato di pace, e quasi di soggezione dell’animo, e di servitú tranquilla, quantunque niente abbia di generoso, è pur conforme a ragione, conveniente alla natura mortale, e libero da una grandissima parte delle molestie, degli affanni e dei dolori di che la vita nostra suole essere tribolata. Imperocché veramente a ottenere quella miglior condizione di vita e quella sola felicitá che si può ritrovare al mondo, non hanno gli uomini finalmente altra via se non questa una, di rinunciare, per cosí dire, la felicitá, ed astenersi quanto è possibile dalla fuga del suo contrario. Ora la noncuranza delle cose di

 

fuori, ingiunta da Epitteto e dagli altri stoici, viene a dire questo appunto, cioè non curarsi di essere beato né fuggire di essere infelice[611].

 

Come si evince da questo passo del Preambolo, pare che la dottrina stoica induca l’uomo a conformarsi a una posizione spirituale che è anch’essa (come Bruto, come Giacomo) in limine, una sorta di stato d’animo di confine poiché non è né da una parte né dall’altra: non è felice, e tuttavia non è infelice: di fatto, l’«utilità di questa disposizione, e della pratica di essa nell’uso del vivere» – spiega Leopardi – «nasce solo da questo, che l’uomo non può nella sua vita per modo alcuno nè conseguir la beatitudine nè schivare una continua infelicità»[612].

 L’Epitteto si mostrava a Leopardi come l’«anello conclusivo di quella catena che secondo la Comparazione aveva portato Teofrasto all’analisi della nullità […] col massimo della sapienza, là dove Bruto aveva usato invece l’intuizione, il massimo della passione»[613]. Ma i tempi son cambiati, e alle illusioni antiche ne sopraggiungono di diverse, alle quali si sarebbe potuto affidare (probabilmente!) Bruto se avesse nutrito anche solo un poco di fiducia nel futuro: 

 

A’ nostri tempi, […] l’ambizione produce un altro sentimento tutto moderno, e di natura sua, siccome di fatto e di nascita, posteriore alle grandi illusioni dell’antichità. Questo sentimento è quello che si chiama onore. È un’illusione esso stesso, perché consiste nella stima che gl’individui fanno della opinione altrui verso loro, opinione che rigorosamente parlando, è cosa di niun conto; ma egli è un’illusione tanto poco alta e viva e luminosa che facilmente nasconde anche agli occhi esercitati dalla cognizione del vero, la sua vanità, e può compatire collo stato presente e colla distruzione di quasi tutte l’altre illusioni, alla quale ella non ripugna se non mediocremente, atteso la sua natura, per così dire, fredda e rimessa[614].

 

Leopardi ha così a cuore l’analisi delle passioni umane, è così tormentato da quella sua «ossessiva domanda sulla natura e il modo di raggiungere la felicità»[615], che pensa all’Epitteto proprio come se fosse il suo Manuale di filosofia pratica («cioè un Epitteto a mio modo»)[616] attraverso cui cerca di persuadere gli uomini a raggiungere uno stadio di non-renitenza sopprimendo così il desiderio di esser felici152. Ma questo concetto, si

 

diceva, può adattarsi solo alla debolezza tipica dell’uomo moderno: e Bruto, che sta lì sulla soglia, che non è antico che non è moderno, non si trafigge il fianco con l’amaro ferro per punire sé stesso o il suo sentimento di infelicità esistenziale, ma lo fa per allontanare un passato divenuto ormai scomodo, per annullare un uomo che ha creduto stoltamente in un abbaglio ora spento. Bruto «si uccide non per negazione, ma per affermare, attraverso un atto negativo, l’inganno della virtù» [617] . E non potendo raggiungere la beatitudine né schivare il suo contrario, è in bilico come quegli uomini che non possono «pervenire a questi fini» e si ritrovano a far guerra contro il destino: 

 

È proprio degli spiriti grandi e forti l’ostinarsi nientedimeno in desiderarli e cercarli ansiosamente, il contrastare, almeno dentro sé medesimi, alla necessitá, e far guerra feroce e mortale al destino, come i sette a Tebe di Eschilo, e come gli altri magnanimi degli antichi tempi. Proprio degli spiriti deboli di natura, o debilitati dall’uso dei mali e dalla cognizione dell’imbecillitá naturale e irreparabile de’ viventi, si è il cedere e conformarsi alla fortuna e al fato, il ridursi a desiderare solamente poco, e questo poco ancora rimessamente; anzi, per cosí dire, il perdere quasi del tutto l’abito e la facoltá, siccome di sperare, cosí di desiderare[618].

 

L’atarassia predicata da Epitteto è però una filosofia della rassegnazione che non può adattarsi – in alcun modo – agli uomini (o agli eroi) di un tempo, specie nel momento in cui l’atteggiamento di ribellione al fato (che Leopardi esemplifica coi Sette a Tebe di Eschilo) è tipicamente antico, e dunque «non vi sono che deboli alla ricerca, contro le tribolazioni dell’esistenza»[619], di uno stato di molle e tranquillo piacere dell’animo. A differenza dunque di Bruto e degli spiriti grandi, che vivono esternando anche le più atroci passioni, il fine che Leopardi si propone con l’Epitteto «è di riattivare quel sostrato di passività, occultato e in apparenza rimosso dalla vana ricerca dell’esteriorità, ma suscettibile di una rinnovata considerazione personale, quale consolazione alla infelicità del vivere»156. Così, solo gli uomini deboli, che consciamente rinunciano a dominare il

 

mondo esterno[620], sono in grado di pervenire a «quella tranquillità d’animo voluta da Epitteto sopra ogni cosa, e quello stato libero da passione, e quel non darsi pensiero delle cose esterne, se non ciò che noi chiamiamo freddezza d’animo, e noncuranza, o vogliasi indifferenza» [621] . Secondo Anna Dolfi, l’intento più profondo della volgarizzazione dell’Epitteto era quello di fornire una sorta di epilogo alla Comparazione tramite «l’immagine di un Bruto che con la saggezza di Teofrasto avrebbe cercato di mitigare l’eccesso umano», reprimendo per quanto possibile le passioni pericolose. In questo modo, accostando i due testi Leopardi avrebbe voluto «fondere il Bruto giovanile col preambolo al volgarizzamento, facendo del Manuale, quale nuda descrizione di uno stato in tempi bui, la terza sentenza […] di un Leopardi/Epitteto vicino a morte»[622] – ma anche, se si vuole, una sorta di compendio che amalgamasse nella stessa sede la saggezza antica con la condizione moderna[623].

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

4. L’ULTIMA VIRTÙ  

 

Ma quando non si ha l’abitudine alla storia, la maggior parte dei fatti del passato sembrano incredibili[624].

 

Ormai disingannato e libero dai vincoli che un tempo gli offrivano la fede, la ragione, la virtù, e persino la verità, «il programma etico leopardiano si riarticola a partire dalle credenze intorno a cui i popoli hanno edificato la loro identità»[625]: se la storia, la civiltà e la religione non sono che mere illusioni, è proprio nel loro essere ingannevole che si deve trovare la tenacia di agire, spinti dalle passioni civili e dalla nuova “persuasione” che regge i principi morali. Attorno a queste macrocategorie, Leopardi condensa tutta la sua riflessione (nel grande inganno universale della natura): e così, in ultimo, «Paralipomeni e Ginestra […] compendiano e rinnovano tutto il pensiero morale leopardiano, o meglio costituiscono il tentativo di forgiare una morale che sostenga la prova del nulla (nel caso dei Paralipomeni) e di una natura deantropomorfizzata (nella Ginestra[626], arrivando a sintetizzare nel suo personalissimo pensiero poesia e filosofia – ma una filosofia pratica, che, come quella dell’Epitteto, possa permettere all’uomo di sopravvivere alla «strage delle illusioni».

 Come si è visto, già nel Bruto minore «l’immagine classica ritrova un fondamento nella storia e nella psicologia degli individui»[627], e la virtù si presenta – comunque, a suo modo – certo come eroismo, ma più che altro come rottura, come momento di respiro al di fuori dell’opacità dell’inganno: e dunque, «se il mondo è quel complesso di inganni che hanno verità, la virtù non può che essere rottura, potenza e creazione di un altro mondo. […] La virtù, per essere, deve essere creazione» [628]. Ma per Bruto non c’è creazione: nella sua violenza lui esprime il suo radicale rifiuto del mondo e dell’esistenza. Nel ’21 Leopardi non solo era pervenuto alla lucida consapevolezza che la virtù non può

 

procedere di pari passo con la felicità, ma soprattutto che la decadenza storica è incontrastabile, al punto che la vicenda del cesaricida «acquista in Leopardi una valenza astorica, o addirittura anti-storica, data l’invocazione finale di Bruto e l’auspicio a una forma di oblio che supera la contingenza e allude al fondamentale rapporto tra uomo e natura»[629]. Nel progresso, nella storia, il mondo si è svuotato della virtù: di fronte a questa vuotezza, servirebbe il ritorno di un’altra virtù, che sia rigogliosa e piena: ma per un disingannato, «la virtù non ha efficacia e consistenza storica; il mondo, nel suo putridume, sì»[630]. Ma affinché questa virtù venga riempita è necessario che essa non sia sola, che non sia, insomma, rinnegata da un unico individuo, ma che una collettività, una «social catena» di individui la rielabori in funzione di un rinnovamento morale e sociale che investa la sua potenza contro gli scoperti inganni della natura. 

E la negazione di Bruto sembrerebbe tornare, in forma diversa, con una consapevolezza autoriale diversa e uno stile diverso, proprio nei Paralipomeni della Batracomiomachia, «dove è all’opera, senza indulgenza e senza tregua, lo spirito della negazione pura e universale»: anche nella battaglia dei topi e delle rane riemergono, inevitabilmente, i fantasmi della gloria della libertà e della virtù, e Leopardi «non risparmia nulla e nessuno», perché tutti sono chiamati a giocare la partita tra oppressi e oppressori, tra reazionari e progressisti; ma soprattutto tra «attese umane e illusioni ultraterrene, cancellando tutte le vie d’uscita, siano storiche o metafisiche, collettive o individuali»[631].

Se i moti risorgimentali del ’20-’21 avevano significato per Leopardi un’amara sconfitta, fra il ’31 e il ’37 la stessa storia si ripete: così che si può leggere nella grande metafora zoomorfa dei Paralipomeni della Batracomiomachia (che «portano a compimento il percorso filosofico leopardiano attraverso il dialogo con gli avi e con la tradizione letteraria al di là della mera tradizione»)[632] un ulteriore accenno polemico – nonché una «demistificazione satirica dell’interpretazione teologizzante delle origini della civiltà»[633] – dei moti insurrezionali del ’31, comprensivi di riferimenti ai disordini

 

dei moti di inizio secolo[634]. Di fatto, «questa bruciante esperienza storica […] trova espressione compiuta nell’amarissima lezione politica insita nella narrazione dell’ascesa e della caduta del regno di Topaia»[635], quasi fosse, in parallelo, il corrispettivo post res perditas del declino inarrestabile della Roma repubblicana oggetto del Bruto. E un po’ come accade nel Bruto minore – così lontano nella storia ma al contempo così drammaticamente vicino – l’agglomerato di fatti storici trattato nel poemetto si proietta «nello spessore di una vicenda lontanissima quanto perenne, che ha il significato di una Urform raggiunta o ripescata dal processo conoscitivo della memoria e della funzione ingannatrice»[636].

Inoltre, i Paralipomeni rappresentano «il tentativo più ampio e di studio concertato, per esprimere le variazioni dell’anima leopardiana sul gran tema della vita e della storia in forma di sentimenti, pensieri, giudizi»[637], oltre che la scelta di operare un continuo raffronto tra epoche distinte, così che in questo caso il testo antico diventa oggetto di studio e di confronto con un presente che rivela la sua modernità sugli antichi attraverso un’ironia dissacrante propria di quest’ultimo lavoro.  

Ma si tenga presente una cosa: dai Canti ai Pensieri allo Zibaldone – e in ultimo, anche coi Paralipomeni –, si evince che una delle tante linee dominanti nel pensiero di Leopardi ruota sempre attorno alla virtù, sia essa ancora «presente e viva» o caduta: così, anche nel sostrato dell’illusione, «questo mondo senza virtù non riesce tuttavia, e mai comunque riuscirà, ad eliminare la potenza della virtù»; ma d’altra parte, come rileva Antonio Negri, «se quello è il mondo, la potenza della virtù non potrà che essere rottura, discriminazione violenta di quella verità che ci soffoca»[638]. 

Certo è che i Paralipomeni rappresentano anche «l’occasione per ritornare sul nesso filosofia-natura-civiltà che aveva impegnato lungamente Leopardi fin dal 1820»176, nel momento in cui l’analisi delle divergenze tra civiltà antica e civiltà moderna aveva

 

rafforzato la teoria secondo cui l’uomo antico (come un Bruto minore) vive delle sue passioni esternandole senza reticenze, mentre l’uomo moderno “imbarbarito” dalla ragione tende, d’altro canto, a reprimersi nell’osservanza di una moralità di costumi confacente alla sua epoca. E nel mondo moderno, «la virtù è tolta perché è tolta la potenza del fare umano, perché è tolta quella potenza in cui consiste il fondamento della virtù»[639].

Tenendo fede alle sue linee di pensiero etico-filosofico, che si accordano, per Leopardi, con il proposito di discorrere attorno alla politica nel segno di un risorgimento della morale civile, spiega Fabio Russo che nei Paralipomeni 

 

ben autentiche sono in lui la mai smessa linea antitirannica e la sua maniera di essere liberale legata al rapporto tra politica e infelicità, non a quello tra politica e condizione felice, alla rilevanza della Virtù, che diventa il sostegno di una non distorta prospettiva politica; e si rivela il mezzo per realizzare quella fratellanza universale che è appunto lo scopo di una sana politica, rivolta in favore dell’uomo[640].

 

Infatti, nella sua veste di poema satirico, ciò che viene preso di mira è proprio tutto quello che ruota attorno alla politica, alla società, ai fatti della storia e, in generale, all’agire umano (o meglio, all’agire animale antropomorfizzato), e tuttavia per Leopardi «un’opera concepita in termini simili riveste […] un’esistenza altamente tragica» [641] che va a compenetrarsi con la sua abilità di denunciare la potenza «terribile ed awful» del riso[642] – «Allor nacque fra’ topi una follia / degna di riso più che di pietade» (VI, vv. 1-2)[643] – fino all’ultima Ginestra («non so se il riso o la pietà prevale», v. 201). Per questi motivi, i Paralipomeni, intonati da una voce tanto distaccata quanto ironica, «raccolgono e condensano il senso di tutta l’ultima produzione leopardiana»[644].

 

Così ritorna «grande la Virtù, simile a una dea»[645], in grado di riaccendere l’animo di chi la trova di fronte a sé (anche solo se immaginata o sognata, e apprezzata persino quando accompagna esseri non umani) quando «alla sola vista del nemico, i topi si danno alla fuga, meno Rubatocchi, che muore da eroe, fornendo al poeta l’occasione di una commossa apostrofe al fantasma della virtù»[646]. Ma è in un certo senso una virtù altra, che poco ha a che fare coi fatti della storia ed è tutta pregna di una nuova luce, tant’è che «nei Paralipomeni la virtù di Rubatocchi brilla di luce solitaria»[647], e il suo atto eroico costituisce «l’epilogo coerente di un itinerario etico-esistenziale che si svolge parallelo a quello degli altri personaggi»186. Così, in questo intento, la virtù praticata dall’eroe topo rovescia la visuale che di essa aveva Bruto, che la percepiva come vana parola nel suo urto contro la «ferrata necessità»[648]. Ecco allora che le due ottave finali del V canto iniziano ricalcando per contrasto la «stolta virtù» dell’iconico incipit del monologo di Bruto:

 

                           Bella virtù, qualor di te s’avvede,  

Come per lieto avvenimento esulta Lo spirto mio: né da sprezzar ti crede

Se in topi anche sii tu nutrita e culta. 

Alla bellezza tua ch’ogni altra eccede,

O nota e chiara o ti ritrovi occulta,

Sempre si prostra: e non pur vera e salda, Ma imaginata ancor, di te si scalda. 

 

            Ahi ma dove sei tu? sognata o finta Sempre? vera nessun giammai ti vide? O fosti già coi topi a un tempo estinta, Né più fra noi la tua beltà sorride?

Ahi se d’allor non fosti invan dipinta,  

Né con Teseo peristi o con Alcide,  Certo d’allora in qua fu ciascun giorno

Più raro il tuo sorriso e meno adorno[649].

 

 

Nel corso del V canto, «l’infamia della fuga e la vigliaccheria dei comportamenti sorcini finiscono quindi per mostrare il vero volto del mondo della politica. […] Su questa melma di disonore si stacca allora la virtù»[650], impersonata da Rubatocchi: «Solo di tutti in sul deserto campo / Rubatocchi restò come cipresso / diritto, immoto, di cercar suo scampo / non estimando a cittadin concesso / dopo l’atto de’ suoi, dopo lo scorno di che principio ai topi era quel giorno» (V, 43). Le ottave che preludono la morte del generale sono pregne di tutta la commozione universale (quella che si palesa quando «Torcon lo sguardo innorridito i Numi» alla morte di Ettore amabile glorioso)[651] di cui si tinge il cielo alla morte dell’eroe, scoprendo così «la metafisica dignità di un’“altra virtù”»[652] – la «bella virtù» declamata in apertura della fine[653]. 

Nel momento in cui gli schieramenti nemici (le rane e i granchi da una parte, i topi dall’altra) si trovano a dover fronteggiare l’ultima battaglia, solo il generale Rubatocchi rimane impassibile e fermo di fronte all’impulso collettivo della fuga al sopraggiungere dell’ormai ovvia sconfitta: è la renitenza al fato, a quella stessa «ferrata necessità» che dalla piana di Filippi arriva fino al campo di battaglia fantastico, animalesco, dei Paralipomeni, permeato da «una souffrance, appunto, proprio qui tale da procurare l’esigenza di tener duro: essere uniti, concordi»[654], stretti in «social catena». Il V canto è al centro del poema, specialmente nella misura in cui Leopardi si sofferma talvolta, fino al VI, sulle glorie passate dell’Italia: ma si tratta di vecchie chimere «che solo una diversa e ontologicamente “altra” virtù riusciranno a far rivivere»[655]. 

Volendo azzardare un paragone pseudo-storico, si potrebbero vedere nelle due opposte fazioni le coppie Bruto-Cassio e Antonio-Ottaviano. Come Bruto che, nel

 

momento del disinganno, non procede nella guerra al nemico (e tuttavia la sposta sull’asse della discordia contro gli dèi e il cielo) e sceglie di isolarsi, similmente si comporta Rubatocchi, che rimane solo (e consapevole!) di fronte al suo destino: in quella circostanza, «il comportamento eroico di Rubatocchi riassume così, in modo esemplare, l’ideale leopardiano della virtù»[656]. In effetti, la disfatta di Rubatocchi pare essere una sorta di contraltare valoroso della morte di Bruto (quando «sudato, e molle di fraterno sangue» calpesta distrattamente i «petti» a terra inermi), poiché entrambi, in un campo quasi deserto, soli nell’ombra, cadono:  

 

            Così pugnando sol contro infiniti Durò finché il veder non venne manco.

Poi che il Sol fu disceso ad altri liti,

Sentendo il mortal corpo afflitto e stanco,

E di punte acerbissime feriti

E laceri in più parti il petto e il fianco, 

Lo scudo ove una selva orrida e fitta

D’aste e d’armi diverse era confitta,  

 

                            Regger più non potendo, ove più folti

Gl’inimici sentia, scagliò lontano.  Storpiati e pesti ne restaron molti,  Altri schiacciati insudiciaro il piano[657]. 

Poscia gli estremi spiriti raccolti,

Pugnando mai non riposò la mano

Finché densato della notte il velo, 

Cadde, ma il suo cader non vide il cielo[658]. 

 

Tutti e due sperimentano, senza dubbio, una morte silenziosa[659]. E anche lo scenario si presenta, a un certo punto del poemetto, simile a quello tetro del Bruto, nel momento in cui «in una notte di maggio, oltre il campo di battaglia pieno di topeschi cadaveri illuminati dalla luna, […] s’intreccia la dimensione umana dei casolari dei contadini con il latrar dei cani»199. Ma mentre Bruto è vile bestemmiatore nonché artefice della sua

 

stessa fine, il generale di Topaia muore da eroe, tanto che la voce narrante «non può fare a meno di dare un doveroso riscontro sulla portata attiva della Virtù», che suona come un «ragguaglio morale, di alta necessità, non appartenente al solo mondo topesco e che raggiunge una dimensione mitica normativa»[660]. Ma la sconfitta dei topi, a vederla come un ritorno pseudo-storico della rovina di Roma antica e della caduta di Bruto, fa in modo che «una linea di comportamento magnanimo virtuoso vien meno», così che tutto il successivo VI canto «viene ad essere la denuncia della non virtù, della mancata applicazione della virtù»[661]. Nella parabola discendente che arriva alla conclusione del poemetto, e nella discesa di Leccafondi all’inferno dei topi, come per Bruto e come per Saffo «ogni favola di paradiso è finalmente tolta, ed ogni speranza è così, come ogni disperazione, riportata all’uomo»[662]. A trama conclusa, levate ormai da ogni intento le mere vicende politiche, lo statuto ontologico del pensiero leopardiano punta piuttosto «a una nuova definizione del tempo storico» [663] . E in questo “nuovo” tempo storico, idealmente concepito appena dopo la contemporaneità, l’assenza degli ideali incita al loro recupero – perché l’uomo non potrebbe viver senza – e dunque, per Leopardi, lo stare nel mondo implica necessariamente la ritrattazione della virtù, anche quando questa sembra decaduta: volendo allargare la prospettiva, si può affermare che «appartiene al Galantuomo l’eroe nuovo, non quando si atteggia a Metanoeto, secondo un ruolo calcolato di magari apparente ritrattazione, ma si comporta da amico della virtù e praticante la Virtù, in qualità di Aretofilo»[664].

 Ultimata questa analisi che ha visto al centro, quale tema conduttore, l’eterna larva della virtù, soggetta ad apostasie, rinnegamenti e, all’occorrenza, rinnovate celebrazioni, è possibile affermare che sia stato l’ideale della virtù ad aver sempre seguito Leopardi, e non il contrario. Questo perché, lungo l’arco della sua vita (dai primi momenti di crisi nel 1819, alle salde posizioni esposte nella lettera a De Sinner nel 1832, e poi fino agli ultimi anni) Leopardi ha sempre assecondato le più intime intuizioni, consapevolmente mescolandole alle analisi socio-filosofiche attorno alla natura degli uomini e delle cose. E una di queste intuizioni era, per l’appunto, il Bruto suicida di Filippi, prode

 

disingannato, ribelle, e caduto. Se in un primo momento la virtù – un tempo eroicamente rincorsa ed esaltata – aveva per Leopardi coinciso con «l’ombra di Bruto» e con i suoi stessi sentimenti, col passare degli anni ha progressivamente abbandonato la sua originaria accezione. Dopo essere stata per tanto tempo rinnegata e vilipesa come il più ignobile nemico, si è visto come l’ultimo, ambizioso lavoro (ossia i Paralipomeni) nell’arco dei vari canti accoglie una ritrattazione della natura ideologica della virtù e degli antichi modelli eroici, sempre mantenuti vivi e degni di essere all’occorrenza riaccesi. 

Così, in ultimo, si può affermare che come nel Bruto, come nella Saffo, anche nei Paralipomeni «vien fuori il regista-personaggio Giacomo»[665], al contempo spettatore e narratore, che fin da bambino si divertiva coi fratelli a inventare storie e giochi che avessero per protagonisti le grandi figure storiche del passato. Ma dei tanti alter ego presi in prestito da Leopardi, ce n’è un altro che forse avrebbe potuto, quasi meglio di tanti altri, rendergli un giusto ed elegante onore, nel momento in cui «vicino a morte, compose esso medesimo questa inscrizione, che poi gli fu scolpita sopra la sepoltura»: 

 

OSSA

DI FILIPPO OTTONIERI

NATO ALLE OPERE VIRTUOSE

E ALLA GLORIA  

VISSUTO OZIOSO E DISUTILE

E MORTO SENZA FAMA

NON IGNARO DELLA NATURA

NÉ DELLA FORTUNA  

SUA[666]

 

 

APPENDICE UN MONDO NUOVO

 

Ogni uomo è fatto in modo diverso, dico, nella sua struttura fisica è fatto in un modo diverso. Fatto in un modo diverso nella sua combinazione spirituale, no? Quindi, tutti gli uomini sono, a loro modo, anormali. Tutti gli uomini sono, in un certo senso, in contrasto con la natura. E questo sino dal primo momento: quell’atto di civiltà (l’atto di civiltà che è un atto di prepotenza umana sulla natura) è un atto contro natura[667].  

 

1. LEOPARDI E HUXLEY?

Forse non verrebbe spontaneo, di primo impatto, affiancare i nomi di Giacomo Leopardi e Aldous Huxley. Tuttavia, dalla comparazione di alcuni estratti di opere huxleyane (prima fra tutte, Il Mondo nuovo, del 1932, ma anche le raccolte di saggi La condizione umana, del 1959, e Fini e mezzi. Indagine sulla natura degli ideali e sui metodi adottati per realizzarli, del 1947) con altrettanti brani leopardiani (quindi lo Zibaldone, alcuni canti – tra cui il Bruto minore – e Operette morali), emerge una linea ideologica affine tra i due autori, specie per quanto riguarda l’analisi dei movimenti sociali e dello stato dell’uomo tra passato e futuro. Se per Leopardi la scrittura dello Zibaldone procedeva in parallelo con l’osservazione portata avanti durante gli anni di studio, e quindi era pressoché coincidente con la sua posizione filosofica circa l’infelice condizione dell’uomo, nel caso di Huxley si tratta sì di considerazioni attorno alla natura umana, ma che hanno sfociato, oltre che nei saggi, nella polemica messa in atto all’interno di uno dei romanzi distopici più influenti del Novecento. I due autori, infatti, sono stati in grado – compatibilmente al loro contesto storico – di tracciare delle linee di pensiero piuttosto simili riguardo lo stato di corruzione che ha imbarbarito l’uomo a causa dell’eccesso di ragione e della smodata applicazione delle ideologie produttivistiche (causando così un allontanamento dallo stato di natura), nonché del conseguente sentimento di infelicità che ha reso l’uomo moderno incapace di sentire le proprie pulsioni naturali ed emozionali.  

 Benché non vi sia la certezza che Huxley avesse studiato l’opera di Leopardi nella sua totalità (e dunque, una simile analisi si pone come un tentativo di lettura di Huxley sulla scorta della filosofia leopardiana, piuttosto che di studio su fonti bibliografiche che trattino del tema), è noto fra la critica che lo scrittore inglese avesse approfondito il suo

 

interesse per la cultura italiana, non solo nei luoghi visitati[668], nella lettura in lingua originale di romanzi come Forse che sì forse che no di D’Annunzio, o nell’uso di qualche sporadica espressione sfoggiata nelle lettere private, ma specialmente nella conoscenza della letteratura italiana. Questa, però, «si limita più che altro agli indispensabili classici, prima di tutti Dante, “the world’s most intelligent poet”, ammirato, studiato, riletto durante tutta la vita: specialmente il Paradiso», ma ciò che è ancora più affascinante è che «conosce poi il Decamerone di Boccaccio, le rime di Petrarca, di Tasso, di Leopardi e Il Principe di Machiavelli, letto attentamente durante il periodo etoniano». Inoltre, come il recanatese, anche lui sembra aver ammirato in particolar modo la Vita di Alfieri («opera che raccomanda vivamente al fratello»), su cui commenta: «He [Alfieri] is a wonderfully interesting character and his Life is thrilling, though not nearly so exciting as he might have made it if he’d been a little less reticent»[669].

Certo, Leopardi e Huxley sono autori quanto mai distanti – cronologicamente e geograficamente –, eppure in qualche tratto si assottiglia il limite che demarca le differenze tra i due. Prendendo in esame Il mondo nuovo (Brave New World), si vede come al centro del romanzo vi sia in primis il contrasto fra due tipi di società diametralmente opposti: la prima, ambientata in una utopica Londra nel futuro A.F. 632[670] e inglobata in un unico Stato Mondiale nel segno del razionalismo produttivistico[671], è formata da individui concepiti artificialmente in provetta, che sin dalla nascita subiscono un condizionamento volto a plasmare il modello di vita e di lavoro da seguire affinché

 

siano produttivi e utili alla società (e ciò a seconda del loro status sociale) [672]; l’altra è la Riserva dei Selvaggi a Malpais, nel Nuovo Messico, in cui vivono tutti quegli uomini rimasti a uno stato di pre-condizionamento, esseri umani nati da padri e madri prima della grande meccanicizzazione ed esclusi dalle tecnologie del Nuovo Mondo di Ford, il cui sistema è «fuori del campo della più servile imitazione della natura per entrare in quello molto più interessante dell’invenzione umana»[673]. 

Nella nuova società (il cui motto «Comunità, Identità, Stabilità» riflette «l’ideologia e la volontà della propria eterna auto-rappresentazione»)[674], gli individui sono portati a non provare alcuna emozione: i legami tra loro sono promiscui, non si instaurano relazioni poiché ognuno appartiene a tutti (ed è dunque impossibile sviluppare un qualsivoglia rapporto duraturo con un uomo o con una donna), e dal momento che non esistono malattie, la morte viene considerata un fatto del tutto naturale anziché un evento funesto – avrebbe detto Leopardi che «la morte libera l’uomo dal tutti i mali, e insieme coi beni gli toglie i desiderii», e che «la vecchiezza è male sommo: perché priva l’uomo di tutti i piaceri, lasciandoneglie gli appetiti, e porta seco tutti i dolori» (infatti, nel Mondo nuovo non ci sono anziani, perché tutti sono mantenuti sani e giovani)[675]. Agli antipodi dell’idea leopardiana di felicità – sempre «incognita e vana» [676] e costitutivamente impossibile a conseguirsi – nel mondo di Ford «alberga una felicità obbligatoria e matematicamente esatta; ottenuta, tuttavia, attraverso un ben programmato rimbecillimento di massa»[677], e l’amore è un concetto distorto, snaturato in nome della collettività:

 

«E questo,» aggiunse il Direttore sentenziosamente «questo è il segreto della felicità e della virtù: amare ciò che si deve amare. Ogni condizionamento mira a ciò: fare in modo che la gente ami la sua inevitabile destinazione sociale».[678]

 

 

Nel mondo nuovo, lo sguardo è esclusivamente rivolto al presente e al futuro (che dev’essere radioso), mentre il passato è tenuto lontano poiché osceno e primitivo: la storia non si studia perché «è tutta una sciocchezza»[679], e l’unica devozione plausibile è riservata – oltre che al «Nostro Ford» – al progresso e alla scienza, ma solo nella misura in cui questa ha consentito all’uomo di raggiungere la massima saggezza, una volta presa coscienza della sua pericolosità. In questo senso, «il tema del libro pare essere l’effetto delle scoperte scientifiche quando vengono applicate male, in un mondo che ha abolito letteratura, arte, differenze fra le culture, famiglia»[680]. Di fatto, la scienza (assieme alla storia) insegna le più crude verità insite nel sistema della natura, tra cui – la più cruda di tutte – la nascita dei figli dalle donne partorienti, ossia dalle madri: «La parola cruda, che era della vera scienza, cadde come un’esplosione nel silenzio imbarazzato dei ragazzi. […] “Sono” disse gravemente “fatti sgradevoli, lo so. Ma d’altro canto la maggior parte dei fatti storici sono sgradevoli”»[681]. Grazie al Processo Bokanovsky, le donne non partoriscono – poiché è usanza dei primitivi, dei selvaggi non condizionati – e il solo concetto di nascita, così come le parole padre e soprattutto madre, suona come blasfemia indecente alle orecchie di ognuno: 

 

Il Nostro Freud era stato il primo a rivelare gli spaventosi pericoli della vita familiare. Il mondo era pieno di padri ed era perciò pieno di miseria; pieno di madri e perciò di ogni specie di pervertimenti, dal sadismo alla castità; pieno di fratelli e di sorelle, di zii e di zie; pieno di pazzie e di suicidi16.  

 

 

Nonostante le intenzioni dei due autori fossero diverse (per Leopardi si trattava di stendere sotto forma di canzone una mera disamina sull’infelicità propria del genere umano dalle origini bibliche fino ai suoi tempi, mentre Huxley intendeva promuovere, attraverso la vena distopica del romanzo, la sua bruciante polemica attorno alla condizione presente – nonché futura – dell’uomo), questo acre passo può essere ricondotto all’amara sentenza che Leopardi pone ai vv. 19-21 dell’Inno ai Patriarchi (che esprime «il momento sia di massimo consenso alla natura, sia di più accentuata imputazione all’uomo»)[682], quando gli uomini maledicono la loro nascita dopo esser stati puniti con miserie e dolore a seguito del peccato originale: «E detestato il parto / Fu del grembo materno, e violento / Emerse il disperato Erebo in terra»18. Non solo: anche i versi seguenti ben si prestano ad essere sovrapposti al solenne racconto del governatore: 

 

Oh quanto affanno 

Al gener tuo, padre infelice, e quale 

D’amarissimi casi ordine immenso  

Preparano i destini! Ecco di sangue 

Gli avari colti e di fraterno scempio  Furor novello incesta, e le nefande  Ali di morte il divo etere impara[683].

 

Attraverso la rievocazione del passato biblico, Leopardi modifica la natura della colpa, che «consiste in un atto di violenza dell’uomo sull’uomo […] e nella successiva e correlata nascita delle città e della società civile»20, soffermandosi sul «vagheggiamento di una mitica e remota età preistorica, di una vita consolata alla visione di una natura

 

incontaminata e solitaria nella sua primitiva innocenza»[684], come accade a Bernardo Marx nel Mondo nuovo nel momento in cui visita la Riserva.

È anche attraverso questa brutale critica ai costumi del mondo passato e naturale che Huxley mette in scena una realtà completamente stravolta, in cui non esiste la possibilità di fallimento e, ancor prima, neanche di ribellione. Questo perché, nella loro maniera di vivere impostata e meccanica, «corrotta da troppa obbedienza passiva»22, gli abitanti del nuovo mondo non sono pienamente consapevoli delle loro azioni e della loro condizione; non hanno ideali, non hanno futuro, e sono piegati al volere dello Stato. Come riporta lo stesso Huxley, «la maggior parte degli uomini sono disposti a tollerare l’intollerabile», e la ragione principale di questa molle sottomissione risiede, secondo Huxley, nell’ignoranza: di fatto, «chi non conosce uno stato di cose diverso dall’intollerabile stato in cui si trova non sa che la sua sorte potrebbe essere migliore. Poi c’è la paura. Gli uomini sanno che la loro vita è intollerabile, ma hanno paura delle conseguenze di una ribellione»[685]. Nel Mondo nuovo ogni categoria di uomini è portata ad apprezzare solo e unicamente la propria posizione, conoscendo sì lo status delle altre categorie (Alfa, Beta, Gamma ecc.) ma senza provare mai alcuna invidia[686]. Questo succede quando «i governati obbediscono a chi li governa perché, oltre a tutte le altre ragioni, accettano per vero qualche sistema metafisico o teologico che insegna che lo stato deve essere obbedito ed è intrinsecamente degno di obbedienza»25.

Le presenti considerazioni di Huxley riguardo ai comportamenti sociali (nel Mondo nuovo, ma anche nei saggi) rimandano, per certi versi, alla critica esposta da Tristano, portavoce dello stesso Leopardi, nel Dialogo di Tristano e di un amico: 

 

Chi vuole o dee vivere in un paese, conviene che lo creda uno dei migliori della terra abitabile; e lo crede tale. Gli uomini universalmente, volendo vivere, conviene che credano la vita bella e pregevole; e tale la credono; e si adirano contro chi pensa altrimenti.

 

Perché in sostanza il genere umano crede sempre, non il vero, ma quello che è, o pare che sia, più a proposito suo[687]. 

 

Quello esposto in questo passo è, si può dire, una sorta di principio di convenienza: l’uomo crede a ciò che gli conviene credere, ma non è detto che ciò sia vero (e anzi, il più delle volte è assoluta menzogna). Così, allo stesso modo, l’unico “ideale” in cui gli uomini del Mondo nuovo sono portati a credere è il lavoro – e dunque il progresso, una gigantesca macchina che guida la società verso il benessere futuro. Come rileva Stefano Manfrelotti, «oggetto dell’intento satirico di Huxley sono quindi tutte le visioni del futuro impostate su una concezione del progresso come sviluppo lineare ed armonico di premesse implicite nel presente»[688], quali l’ottimismo imperante che deriva dal progresso e la fede assoluta in una società che promette crescita, prosperità e piaceri a portata di mano. Per dare il buon esempio a tutti, lo stesso Governatore confessa di aver preferito abbracciare una prospettiva lavorativa sicura nella società piuttosto che mantenere viva la sua passione per la scienza pura (col rischio di essere recluso e abbandonato su un’isola deserta): 

 

Talvolta mi avviene di rimpiangere la scienza. La felicità è un padrone esigente, specialmente la felicità degli altri. Un padrone molto più esigente, se non si è condizionati per accettarla senza discutere, della verità. […] Io m’interesso alla verità, io amo la scienza. Ma la verità è una minaccia, la scienza è un pericolo pubblico. È altrettanto pericolosa quanto è stata benefica. Ci ha dato il più stabile equilibrio della storia[689].  

 

Queste parole sembrano ricordare il Teofrasto della Comparazione, che però, contrariamente al Governatore, fu tutto dedito alla scienza del vero, sempre fieramente professata[690]. Non si confonda, tuttavia, la scienza con la ragione. Anche per Leopardi si tratta di due concetti ben distinti, perché una cosa è la scienza (derivata dallo studio, dalla

 

conoscenza, dall’esperienza del vero), altra è la ragione, tipica delle società civilizzate, e anzi meglio dire l’eccesso di ragione, poiché «fin dall’alba della storia la ragione, che qui coincide con quella che si potrebbe chiamare “ragione storica”, ha già corrotto irreparabilmente»[691]. Se la scienza universale, la verità e anche il bello, sono per LeopardiTeofrasto pilastri fondamentali alla base della società civilizzata, nel Mondo nuovo non è così, perché lì non c’è spazio per la cultura, e non solo perché «non si può consumare molto se si resta seduti a legger libri»[692], ma soprattutto perché il lavoro, la produzione – e dunque la felicità delle masse – passano nettamente in primo piano rispetto all’arte e alla bellezza. Di fronte ai due opposti concetti di “cultura” e “civiltà”, si capisce come «Cultura assuma, nello scritto di Huxley, una connotazione fortemente positiva, mentre Civiltà si gravi di connotazioni sempre più negative sino a diventare un sinonimo di appiattimento mentale»[693]:

 

Il Nostro Ford personalmente fece un grande sforzo per trasferire l’importanza della verità e della bellezza ai comodi e alla felicità. La produzione in massa esigeva questo trasferimento. La felicità universale mantiene in ordine gli ingranaggi; la verità e la bellezza non lo possono. E, beninteso, ogni volta che le masse si impadronivano del potere politico, era la felicità piuttosto che la verità e la bellezza che importava[694]. 

 

Per quanto macchinosamente indotta e costruita, la felicità delle masse è essenziale al vivere comune, e dal momento che «non c’è stabilità sociale senza stabilità individuale»34, è doveroso che ogni individuo si concentri non sui suoi interessi personali (come potrebbero essere, appunto, la vocazione per l’arte e per la cultura), ma che si goda solo e soltanto i passatempi collettivi promossi dal governo. Tutto, insomma, funziona affinché (e perché) il singolo si concentri sulla felicità comune, sul benessere dello Stato. Come spiega Mustafà Mond al Selvaggio, «la civiltà non ha assolutamente bisogno di nobiltà ed eroismo. Queste cose sono sintomi d’insufficienza politica. In una società convenientemente organizzata […] nessuno ha delle occasioni di essere nobile ed

 

eroico»[695]. Ciò non significa tanto che gli antichi ideali sono caduti, quanto piuttosto che non servono più, perché la società moderna funziona solo nel momento in cui è costruita attorno a un sistema che non prevede guerre, nazionalismi, corsa alla gloria: se non c’è alcun bisogno di eroismo, nessuno si erge a eroe. E se nessuno si erge a eroe, allo stesso tempo significa che «tutti possono essere virtuosi, adesso»36. Tutti o nessuno: questo è lo spirito che regola la società nel nuovo mondo. Si noti quanto scriveva Leopardi nel 1820 a proposito della mancanza delle «vive e grandi illusioni»: 

 

La mancanza delle vive e grandi illusioni, spegnendo l’immaginazione lieta, aerea, brillante e insomma naturale come l’antica, introduce la considerazione del vero, la cognizione della realtà delle cose, la meditazione, ec. e dà anche luogo all’immaginazione tetra, astratta, metafisica e derivante più dalle verità, dalla filosofia, dalla ragione, che dalla natura e dalle vaghe idee proprie della immaginazione primitiva[696]. 

 

E se tra le antiche illusioni spente rientra anche la virtù, ci si può allora ricollegare al commento di Luporini che, riguardo un altro brano dello Zibaldone, asserisce che «l’accezione antindividualistica è forte e indubitabile in Leopardi»[697]. Ammesso e non concesso che Huxley avesse una conoscenza approfondita dell’opera del recanatese, sembrerebbe che il Mondo nuovo assuma come ideologia quella che per Leopardi era una posizione sincera: come si diceva, l’intento in questa sede è infatti di interpretare la trama sociologica del Mondo nuovo (che resta sempre aggrappata al filone distopico-polemico) sulla scorta della filosofia leopardiana:

 

L’individuo non è virtuoso, la moltitudine sí, e sempre, per le ragioni e nel senso che ho sviluppato altrove. Quindi in uno stato dove il potere o parte di esso sta in mano della nazione, la virtú ec. giova, perché la nazione, che tiene il potere, l’ama; e perché giova, perciò è praticata piú o meno, secondo le circostanze, ma sempre assai piú e piú generalmente che nello stato dispotico. La virtú è utile al pubblico necessariamente. Dunque il pubblico è necessariamente virtuoso o inclinato alla virtú, perché necessariamente ama se stesso e quindi la propria utilità. Ma la virtú non è sempre utile all’individuo. Dunque l’individuo non è sempre virtuoso, né necessariamente. Oltre ch’é ben piú facile e ordinario ingannarsi un individuo sulle sue vere utilità, che non la moltitudine. Ma in ogni modo l’individuo cerca il suo proprio bene, il pubblico cerca il suo (vero o falso, con mezzi acconci o sconci): questa è virtú sempre e in qualunque caso, quello egoismo e vizio. Parlo principalmente delle virtú pubbliche, cioè di quelle virtú grandi, i cui effetti o i cui esempi si stendono largamente, in qualunque modo avvenga[698].

 

Luporini chiarisce bene questo passo, che torna utile per spiegare, si diceva, il concetto di società presente nel Mondo nuovo: come per Leopardi, qui la virtù non è intesa nell’accezione individualistico-sentimentale, ma come un paradigma utile e universale. Ovvero, «ciò che è concreto, reale, è l’interesse, l’utile, l’amor proprio ecc.; ora l’utile e la virtù, ossia il momento concreto e quello ideale (quello del valore), non possono incontrarsi negli individui se non per eccezione […] che appunto conferma l’opposta regola» [699] . Ciò vale a dire anche, per Leopardi, che la virtù nel singolo individuo abbandona progressivamente il suo fondamento stabile e diviene effimera e accidentale, così che la virtù originariamente intesa «finisce quindi per essere prevalentemente virtù pubblica»[700], e può davvero essere garantita poiché suscettibile di soddisfare l’interesse pubblico (almeno fino a quando la sfera del privato, e dunque il sistema dell’egoismo, non prevarichi su quella del bene pubblico, portando corruzione e disfacimento).

Ma, di fatto, nel mondo nuovo l’individuo in sé non c’è: ognuno esiste per il bene degli altri, non gli è concesso di provare passioni violente perché «quando l’individuo sente, la comunità è in pericolo»[701]. Si metta a confronto questa riflessione appuntata nello Zibaldone nell’aprile 1821:  

 

Oggi l’uomo è nella società quello ch’è una colonna d’aria rispetto a tutte le altre e a ciascuna di loro. S’ella cede, o per rarefazione o per qualunque conto, le colonne lontane, premendo le vicine, e queste premendo né più né meno in tutti i lati, tutte accorrono ad occupare e riempiere il suo posto. Così l’uomo nella società egoista. L’uno premendo l’altro, quell’individuo che cede in qualunque maniera, o per mancanza di abilità o di forza o per virtù e perché lasci un vuoto di egoismo, dev’esser sicuro di esser subito calpestato dall’egoismo che ha dintorno per tutti i lati e di essere stritolato come una macchina pneumatica dalla quale, senza le debite precauzioni, si fosse sottratta l’aria[702].

 

Quella del Mondo nuovo non solo è una società moderna, ma essendo addirittura ultramoderna, non lascia spazio per i «vuoti di egoismo»: se ogni essere umano è condizionato affinché operi per il bene sociale, ne deriva che nessuno può permettersi di sentire (col rischio di mettere in pericolo la comunità!), di essere a suo modo egoista, perché «dopo tutto, ognuno appartiene a tutti gli altri»[703]. L’unico a dimostrarsi egoista è Bernardo, che per primo si distacca progressivamente da quel tipo di mentalità corrotta perché comincia a sentire. Ma nella Londra di Ford i sentimenti sono visti come qualcosa di estremamente pericoloso, che rischia di infiltrarsi nelle pieghe lasciate scoperte dalla coscienza collettiva: non hanno ragione di esser provati, poiché a tutti è permesso di soddisfare nell’immediato le proprie passioni e i propri desideri, senza dunque che rimanga lo spazio per il sentire (quando l’uomo sente, «il desiderio del piacere diviene una pena, e una specie di travaglio abituale dell’anima»)[704]. Così, è lo stesso Governatore a stabilire che se «il sentimento sta in agguato in questo intervallo di tempo tra il desiderio e il suo soddisfacimento», allora bisogna «abbreviare l’intervallo, abbattere tutti gli antichi, inutili ostacoli» [705] – perché, come spiega Tasso al suo Genio nel Dialogo leopardiano, «tutti gl’intervalli della vita umana frapposti ai piaceri e ai dispiaceri, sono occupati dalla noia»[706], che altro non è se non un sentimento, anzi «la più sterile delle passioni umane»[707]. 

 

non naturale ma artifiziale, cioè questa parità e questa universalità d’attacco e di resistenza, mantiene la società umana, quasi a dispetto di se medesima, e contro l’intenzione e l’azione di ciascuno degl’individui che la compongono, i quali tutti o esplicitamente o implicitamente mirano sempre a distruggerla», in ivi, pp. 491-492.

Tali considerazioni attorno alla noia rimandano immediatamente alla leopardiana teoria del piacere che, appena di seguito nel suddetto Dialogo, mostra che le parole di Leopardi «sembrano suggerirci quel fantasma sempre sfuggente e sempre cercato, il fantasma del piacere», che si risolve nella constatazione che «la vita nostra manca del suo fine»[708] – ossia del piacere, ossia, in un’ottica eudemonistica, la felicità. La teoria, portata avanti negli anni, risale a una delle prime riflessioni zibaldoniane del 1820:

 

L’anima umana (e così tutti gli esser viventi) desidera sempre essenzialmente, e mira unicamente, benché sotto mille aspetti, al piacere, ossia alla felicità, che considerandola bene, è tutt’uno col piacere. Questo desiderio e questa tendenza non ha limiti, perch’è ingenita o congenita coll’esistenza, e perciò non può aver fine in questo o quel piacere che non può essere infinito, ma solamente termina colla vita. […] Il fatto è, che quando l’anima desidera una cosa piacevole, desidera la soddisfazione di un suo desiderio infinito, desidera veramente il piacere e non un tal piacere; ora nel fatto, trovando un piacere particolare, e non astratto, e che comprenda tutta l’estensione del piacere, ne segue che, il suo desiderio non essendo soddisfatto di gran lunga, il piacere appena è piacere, perché non si tratta di una piccola ma di una somma inferiorità al desiderio e oltracciò alla speranza. E perciò tutti i piaceri debbono esser misti di dispiacere, come proviamo, perché l’anima nell’ottenerli cerca avidamente quello che non può trovare, cioè un’infinità di piacere, ossia la soddisfazione di un desiderio illimitato[709].   

 

Secondo Leopardi, però, l’uomo non è in grado di raggiungere in maniera completa il piacere, poiché questo, essendo infinito, è inconciliabile con la natura finita dell’essere umano, che si ritrova così a desiderare in maniera continua 51 . Ciò non accade, ovviamente, nel Mondo nuovo, in cui il soddisfacimento del piacere è alla portata di tutti, concreto ed immediatamente raggiungibile.

Se in questa teoria sono lampanti le differenze, dall’altra parte nel Mondo nuovo vige un altro principio ricordato anche da Leopardi: quello della distrazione. Verso la fine del romanzo si legge che «quelle tre ore e mezza di riposo extra furono così lontano dall’esser fonte di felicità, che la gente si vide costretta ad andare in vacanza per

 

sfuggirle»[710]. Più l’uomo è occupato, più tende ad esser vicino a una sensazione di benessere spirituale («Lavorarono tutto il giorno, e per tutto il giorno egli fu pieno d’una intensa, assorbente felicità»)[711]; al contrario, quando l’uomo non è occupato, si ferma: e pensa. Se è vero che «tutto il piano della natura intorno alla vita umana si aggira sopra la gran legge di distrazione, illusione e dimenticanza»[712] – così scriveva il recanatese nel Frammento sul suicidio – ne consegue che 

 

la vita continuamente occupata è la più felice, quando anche non sieno occupazioni e sensazioni vive, e varie. L’animo occupato è distratto da quel desiderio innato che non lo lascerebbe in pace, o lo rivolge a quei piccoli fini della giornata […] giacché li considera allora come piaceri (essendo piacere tutto quello che l’anima desidera), e conseguitone uno, passa a un altro, così che è distratto da desideri maggiori, e non ha campo di affliggersi della vanità e del vuoto delle cose, e la speranza di quei piccoli fini, e i piccoli disegni sulle occupazioni avvenire o sulle speranze di un esito generale lontano e desiderato, bastano a riempierlo, e a trattenerlo nel tempo del suo riposo. L’anima prova sempre piacere quando è piena (purché non sia di dolore), e la distrazione viva ed intera è un piacere rispetto a lei assolutamente[713].

 

E sempre Leopardi, ma più concretamente e fuori dalla scia utopistica, nel 1831 (non molto prima che l’ideologia marxista celata nel Mondo nuovo si diffondesse in Europa), ragionando sopra il concetto di felicità delle masse, così confessava a Fanny Targioni Tozzetti: 

 

Sapete che io abbomino la politica, perché credo, anzi vedo che gli individui sono infelici sotto ogni forma di governo, colpa della natura che ha fatto gli uomini all’infelicità; e rido della felicità delle masse, perché il mio piccolo cervello non concepisce una massa infelice composta d’individui non felici[714].

 

E se Leopardi respirava l’infelicità collettiva dell’epoca storica in cui viveva, non differente è l’intuizione espressa dal protagonista del romanzo, Bernardo Marx, nel momento in cui comincia ad avvertire una spinta verso l’esterno, verso l’ignoto vecchio

 

mondo che si accinge a visitare. Eccetto lui, gli abitanti del mondo civilizzato sono così convinti di esser felici che quello stile di vita limitato e soffocato sotto il velo della libertà condizionata rimane oscuro a tutti, perché appare perfetto e intoccabile in confronto alla descrizione che del mondo pre-moderno fa il Governatore: 

 

Non c’era da stupirsi che quei poveri premoderni fossero pazzi e malvagi e miserabili. Il loro mondo non permetteva loro di prendere le cose per la via più semplice, non permetteva loro di essere sani di spirito, virtuosi, felici. E con le madri e gli amanti, con le proibizioni alle quali non erano condizionati ad obbedire, con le tentazioni e i rimorsi solitari, con tutte le malattie e il dolore che li isolava senza fine, con le incertezze e la povertà, essi erano costretti a sentire fortemente. E sentendo fortemente (fortemente, oltre tutto, in solitudine, in un disperato isolamento individuale) come potevano essere stabili?[715]

 

Con l’ascesa e caduta degli ideali, con il progredire della storia, e soprattutto tolta ogni distrazione, gli uomini hanno imparato a sentire fortemente. Se per il Governatore quello era il mondo pre-moderno, lo stesso avrebbe potuto dire Leopardi sul mondo, invece, moderno, quando «negli uomini si rinnovellò quel fastidio delle cose loro che gli aveva travagliati avanti il diluvio, e rinfrescossi quell’amaro desiderio di felicità ignota ed aliena dalla natura dell’universo»[716]. 

Nella visione leopardiana, che spesso riprende il motivo mitico dell’età dell’oro, se la felicità è qualcosa di ignoto per gli uomini moderni, ecco che invece risplende presso i fanciulli, gli antichi e i selvaggi («e particolarmente quelli di California») [717] , dal momento che «i primitivi, felici nella loro ignoranza e estranei alla condizione artificiata della conoscenza, sono perennemente soggetti alla natura, come lo furono in parte gli antichi e come per qualche tempo lo sono i fanciulli»60. Ma, come nota Marco Moneta, «al di là dell’aspetto eudemonistico, Leopardi sottolinea l’aspetto etico-politico» 61 :

 

estranei al destino di corruzione che preme sulle coscienze degli uomini civilizzati, i selvaggi non conoscono il male e non lo operano, così rimanendo puri, innocenti, ignari della decadenza che ha portato l’uomo alla barbarie. Per Leopardi (come anche per Huxley, nel nostro caso) «l’antichità rimane l’immagine privilegiata della condizione “edenica” originaria, quando la ragione non aveva alcun senso che non fosse quello dettato dal puro ritmo dell’esistenza esterna e materiale»[718], e quando 

 

[…] di suo fato ignara

E degli affanni suoi, vota d’affanno  

Visse l’umana stirpe; alle secrete 

Leggi del cielo e di natura indutto

Valse l’ameno error, le fraudi, il molle Pristino velo; e di sperar contenta Nostra placida nave in porto ascese[719].

 

Nei versi seguenti è condensata, secondo Antonio Negri, una pluralità di motivi: «un ideale giusnaturalistico positivo che non si piega alla linearità della concezione ottimistica della storia e della società; una concezione pessimistica della ragione e della civilizzazione, denunciate come produttrici di schiavitù e morte»[720]. Non a caso, nel finale dell’Inno ai Patriarchi Leopardi descrive, per contrasto, la condizione immacolata caratteristica dei selvaggi della California, «popolo reale che vive allo stato naturale»[721], attraverso un ritratto che figura come «l’esatto calco negativo dell’uomo civilizzato, annoiato e infelice, pieno di falsi bisogni, fisicamente fragile, angosciato dal pensiero della morte»[722]:

 

Tal fra le vaste californie selve[723]

 

Nasce beata prole, a cui non sugge

Pallida cura il petto, a cui le membra

                Fera tabe non doma; e vitto il bosco,       

Nidi l’intima rupe, onde ministra

L’irrigua valle, inopinato il giorno

De l’atra morte incombe. Oh contra il nostro

Scellerato ardimento inermi regni

De la saggia natura! I lidi e gli antri

E le quiete selve apre l’invitto

Nostro furor; le violate genti

Al peregrino affanno, agl’ignorati Desiri educa; e la fugace, ignuda Felicità per l’imo sole incalza[724].

 

Così si chiude il componimento con la vaga prospettiva di una felicità aleatoria, e con gli uomini che, «mentre paiono perseguirla, la cacciano dinanzi a sé, l’incalzano, dietro al cammino del sole»[725]. Attraverso l’esaltazione della purezza tipica dei popoli californiani, così intoccabili e così vicini allo stato naturale, Leopardi espone un’invettiva contro il progresso della civiltà imbarbarita dalla ragione e da un incivilimento che ha portato l’uomo ad allontanarsi sempre di più dalla natura, da una condizione originaria che, ormai persa, lo ha corrotto conducendolo a una crescente e inevitabile decadenza70. 

Per restare sul filo del paragone, si può notare come quella lontana fetta di mondo evocata da Leopardi assomigli, indubbiamente, all’incontaminata Riserva di Malpais, «mondo meraviglioso di cui egli si ricordava come d’un paradiso di bontà e di bellezza, sempre rimasto completo e intatto, puro d’ogni contatto con la realtà di questa Londra reale, di questi uomini e di queste donne realmente civilizzati»71. Ciò che sembra sfuggire, all’interno della Riserva, è il concetto di tempo. O meglio: il tempo individuale è ben visibile sui volti e sui corpi degli abitanti più anziani, ma manca il tempo storico. Non si sa con precisione da quanto tempo i selvaggi siano lì, e forse questo è voluto: seguendo la linea interpretativa di Marco Balzano (riguardo al selvaggio leopardiano), si può affermare che anche nel Mondo nuovo «il primitivo […] è anzitutto un’idea» e, nel

 

momento in cui «è sempre estraneo al tempo scandito dalla Storia, perdendo, a causa di questa sua non appartenenza, la possibilità di identificarsi con qualsiasi altro simile», il selvaggio è «salvo finché appartiene a quella che si potrebbe definire la dimensione dell’assoluto, vale a dire una dimensione integralmente estranea alla corruzione»[726].

 

2. LA DISILLUSIONE PERMANENTE

 

Resta a sapere se è spiritualmente più nobile subire i colpi e le frecce dell’avversa fortuna, o prendere le armi contro un oceano di mali e  opporsi ad essi sino alla fine.[727] 

 

Nel Mondo nuovo di Huxley sembra dunque emergere una linea filosofico-sociale che si avvicina al Leopardi pensatore, specie per quanto riguarda i concetti di felicità/infelicità, verità, progresso, libertà dell’individuo, società. Se per Leopardi «lo stato d’egoismo puro […] è lo stato naturale dell’uomo»[728], ne deriva che nel nuovo mondo fordizzato, dal momento che non solo non nascono, ma nemmeno provano la più naturale delle passioni, gli uomini non possono allora in tutto e per tutto essere considerati esseri umani. O meglio: in quanto condizionati, la loro situazione è simile a quella di un animale addomesticato che ha perso la sua innata libertà. Sia da chiarimento questa riflessione appuntata da Huxley all’interno della raccolta di saggi La condizione umana: 

 

 

Sir Charles Darwin ritiene semplicemente che l’uomo sia una specie selvaggia: non è stato addomesticato. Un animale è addomesticato quando ha un padrone che ne controlla le abitudini e la riproduzione, sterilizzandolo o tramite gli incroci, assicurandosi così che le future generazioni seguano un determinato modello. Ma l’uomo non ha padroni, e persino i suoi tentativi di auto-addomesticarsi sono destinati a fallire poiché la stessa minoranza civilizzata dominante rimane una specie selvaggia[729].

 

Questa teoria costringerebbe a rivalutare il punto di vista che domina l’intero romanzo, ipotizzando, in una lettura alternativa, che i veri selvaggi siano, allora, proprio gli uomini civilizzati, poiché nel mondo di Ford essi non agiscono seguendo il loro proprio raziocinio, i loro sogni, i loro propositi; ma si muovono macchinosamente sotto comandi inculcatigli dalla nascita. Ed è di nuovo Huxley ad affermare che «la vita del singolo individuo, che è una vita fatta di autocoscienza, di sentimenti, di volontà, di sollecitazioni e di intenzioni, non può essere applicata alla società», e che «la vita privata consiste essenzialmente nell’abbandonarsi alle proprie sensazioni fisiologiche, estetiche e a quelle da cui traiamo qualche ispirazione»[730]. Si metta a confronto questo brano dello Zibaldone del 1821: 

 

L’uomo è naturalmente, primitivamente, ed essenzialmente libero, indipendente, uguale agli altri, e queste qualità appartengono inseparabilmente all’idea della natura e dell’essenza costitutiva dell’uomo […]. La società è nello stesso modo primitivamente ed essenzialmente dipendente e disuguale, e senza queste qualità la società non è perfetta, anzi non è vera società. Pertanto l’uomo in società bisogna che necessariamente si spogli e perda delle qualità essenziali, naturali, ingenite, costitutive, e inseparabili da se stesso. Le quali egli può ben perdere in fatto, ma non in ragione, perché come si può considerare un essere spoglio di una sua qualità intrinseca, costitutiva, e indipendente affatto dalle circostanze e dalle forze, o esterne o accidentali, perch’essendo primitiva e naturale, è necessaria, e durevole in ragione, quanto dura quell’essere che la contiene, e ne è composto? Sarebbe lo stesso che voler considerare un uomo senza la facoltà del pensiero, qual è parimente indipendente dagli accidenti. In questa ipotesi, sarà un altro essere, ma non un uomo. Dunque un uomo privo della libertà e della uguaglianza in ragione, sarebbe privo dell’essenza umana, e non sarebbe un uomo, ch’è impossibile[731].

 

Al di là di quella che si propone di essere la natura umana nel Mondo nuovo – così artificiale e impostata, e così lontana dalla condizione naturale – Huxley si sofferma, sempre nei suoi saggi, a riflettere sull’impatto dell’uomo nel flusso della storia. Questo

 

spunto può essere interessante per valutare non solo la posizione di Bernardo Marx o del Selvaggio, ma anche quella del Bruto leopardiano, poiché nella storia si trova inevitabilmente immerso e da essa è, come noto, influenzato. Scrive Huxley: 

 

Esaminiamo ora il rapporto tra l’individuo e la storia. Ogni segmento di vita individuale, ovviamente, corre parallelamente ad un settore del movimento storico generale dell’epoca in cui la persona vive. Ma fino a che punto noi viviamo nella storia? Fino a che punto un individuo è inserito nella storia del suo tempo? […] In quale misura la vita umana, che scorre parallela al grande flusso della storia, è realmente all’interno di questo flusso? Il dato più sorprendente di ogni vita individuale è che un terzo di essa viene trascorso interamente al di fuori della storia e persino al di fuori dello spazio e del tempo, tale è la distanza che concerne l’esperienza soggettiva: un terzo della nostra vita viene trascorso nel sonno, durante il quale, noi non siamo né nello spazio né nel tempo.[732]

 

Dunque, il Bruto di Leopardi è certamente una figura che ha vissuto in una determinata epoca storica, eppure nel Bruto minore viene al contempo trasferito su un piano esistenziale e solipsistico che con la storia ha poco a che fare: la delusione che lui vive è valida non solo per lui, ma anche per Giacomo, e dunque anche per Bernardo e per John. Tutti loro si ritrovano a sperimentare una crisi che dalla storia (e dunque, dal generale) muove verso il piano dell’etica individuale (e dunque nel particolare). Ma se Giacomo, come Bernardo, è acuto osservatore (oltre che protagonista della sua inquietudine), Bruto e John sprofondano nel loro dolore, esaurendo il sentimento di delusione con l’atto egoistico del suicidio, noncuranti dei possibili risvolti futuri che questo comporta. A conferma di questa ipotesi, è di nuovo Huxley ad affermare che «l’atto più privato ed antistorico di tutti è quello della morte, che trasporta definitivamente l’individuo al di fuori del mondo della storia»[733]. Così come Bruto si trafigge col pugnale nell’«atra notte», solo e non sentito da nessuno, John «rifugiatosi su un faro che è il corrispettivo spaziale della propria solitudine, […] pone fine ai suoi giorni impiccandosi»[734]. L’uomo antico e il selvaggio presentano allora delle caratteristiche in comune: in primis, l’ardente desiderio di togliersi la vita a seguito di una delusione (sia essa storica, personale o entrambe). Si consideri quanto scriveva il recanatese nello Zibaldone nel marzo 1821: 

 

La nostra condizione oggidì è peggiore di quella de’ bruti anche per questa parte. Nessun bruto desidera certamente la fine della sua vita, nessuno, pur infelice che possa essere, o pensa a tòrsi dalla infelicità colla morte o avrebbe il coraggio di procurarsela. […] Noi desideriamo bene spesso la morte ardentemente, e come unico evidente calcolato rimedio delle nostre infelicità; in maniera che noi la desideriamo spesso, e con piena ragione, e siamo costretti a desiderarla e considerarla come il sommo nostro bene. […] Io so bene che la natura ripugna con tutte le sue forze al suicidio, […] ma da che la natura è del tutto alterata, da che la nostra vita ha cessato di esser naturale, da che la felicità che la natura ci avea destinata è fuggita per sempre e noi siam fatti incurabilmente infelici, da che quel desiderio della morte che non dovevamo mai, secondo natura, neppur concepire, in dispetto della natura e per forza di ragione s’è anzi impossessato di noi; perché questa stessa ragione c’impedisce di soddisfarlo e di riparare nell’unico modo possibile ai danni ch’ella stessa e sola ci ha fatti? […] La sventura, il nostro fato ci fa miseri, ma non ci toglie, anzi ci lascia nelle mani il finir la miseria nostra quando ci piaccia[735].

 

Di fronte alla miseria che pervade gli animi afflitti di John e di Bruto, il loro primo pensiero è soltanto uno (per quanto contro natura questo possa essere). Di fatti, sia l’uno che l’altro hanno oltrepassato il limite dell’antichità, e assieme hanno valicato il confine che separava un mondo illibato dalla società moderna e corrotta: entrambi, dunque, moderni, adottano la visione tipica dell’uomo moderno, inetto, che si ritorce contro il passato e respinge il futuro poiché ha perso la fede nelle magnanime illusioni, e perché incapace di sopportare l’«arido vero» dell’esistenza[736].   

Inoltre, nonostante le morti dei due siano individuali, il loro gesto assume la valenza di un diffuso e onnipresente Weltschmerz: nel caso di John, tutti osserveranno «i suoi piedi penzolare nel vuoto; a formare con il loro movimento […] un cerchio che diffonde la morte per tutto l’universo»[737]. Entrambi, rifiutando la vita, combattono una guerra innanzitutto personale: Bruto si muove feroce contro il fato, mentre John si ribella contro l’impostura delle istituzioni. Come rileva Marco Balzano,  

 

la modalità della guerra non è solo un altro elemento comune tra antichi e selvaggi, ma è il punto di maggiore convergenza tra queste due figure, che si aggiunge agli accostamenti già presentati: fede nelle illusioni, slancio energico verso una vita attiva, forte sentimento dell’amor proprio e, sempre sulla scorta principale di Rousseau, estraneità al lusso dell’arte che svigorisce84.

 

Quanto alla fede nelle illusioni, un altro punto in comune tra Bruto e John è che entrambi, disingannati di fronte alla caduta degli ideali (per uno la virtù, per l’altro felicità e libertà), non riescono a conseguire il proprio traguardo morale, e nessuno dei due si distingue per azioni grandiose e magnanime: né per l’uomo antico, né per il Selvaggio, l’ideale è possibile a conseguirsi. Soprattutto, di fronte alla lotta contro la necessità, entrambi deviano dalla sfera del razionale per lasciarsi guidare dall’irruenza del sentimento. Si legga Huxley: 

 

L’azione morale mira alla realizzazione del massimo bene; il massimo bene può venir realizzato soltanto dove esista una volontà razionale nelle persone e un mondo nel quale questa volontà razionale virtuosa non venga avversata, un mondo ove la virtù sia unita alla felicità. Ma è una questione di fatto brutale ed empirico che, nel mondo dei fenomeni, i più virtuosi non sono necessariamente i più felici, e che la volontà razionale non è sempre quella che prevale. Ne segue perciò che l’unione della virtù e della felicità, senza la quale il bene massimo non può realizzarsi, deve venir effettuata da qualche potere esteriore a noi, il quale disponga le cose in modo che, per quanto parziale e temporanea possa esserne l’apparenza, l’ordine totale del mondo sia morale e dimostri l’unione della virtù e della felicità[738]. 

 

Dal passo citato si evince che il connubio virtù-felicità debba necessariamente adempiersi per mano di una forza esterna all’agire umano, e che l’uomo sia dunque costretto, in mancanza di questa forza, a vivere nell’infelicità e nell’insuccesso. A tal proposito, c’è un momento preciso, importante, nello sviluppo del romanzo huxleyano, in cui la confessione del Selvaggio pare accostarsi a Leopardi giovane – e, di conseguenza, al suo Bruto: 

 

L’ebbrezza del successo era svaporata; egli era, passati i fumi, il suo antico se stesso; e per contrasto con la gonfiatura temporanea di quelle ultime settimane, l’antico se stesso sembrava essere, come non mai prima, più pesante dell’atmosfera circostante. Al Bernardo sgonfiato, il Selvaggio dimostrò una simpatia inaspettata.

 «Ora somigliate di più a colui ch’eravate a Malpais» disse quando Bernardo gli ebbe raccontato la sua dolorosa storia. «Vi ricordate quando abbiamo cominciato a parlare noi due, davanti alla piccola casa? Somigliate a colui ch’eravate allora.»

                            «Perché sono di nuovo infelice; ecco perché.»

 «Ebbene, io preferirei essere infelice piuttosto che avere questa specie di falsa, menzognera felicità che avete qui.»86

 

L’«antico sé stesso». Come Bruto, anche John vive un momento di crisi individuale ed esistenziale quando entra in contatto con la società londinese “fordizzata”, – progressista, esatta, precisa, produttrice e macchinosa – in cui «i moderni hanno sviluppato quel positivo principio spirituale e razionale che, per Leopardi, è causa di decadenza e insieme di infelicità» [739] . Per quella massa di individui creati e addestrati per essere solo e unicamente devoti al lavoro, al loro status sociale, senza che vengano rimarcate differenze di ceto se non per mera questione di ordine, senza che esistano dolori, sciagure o malattie, la felicità è «menzognera» («Son così contento di essere un Beta!»)[740]. 

 Ma la meditazione di John non ricalca solo il malessere di Bruto: risalendo alle Operette morali, è possibile riscontrare nelle parole del Selvaggio lo stesso atteggiamento di Tristano, quando, «quasi sdegnasse ormai proseguire in una simile lotta» ideologica con l’amico, verso la fine del dialogo «abbandona la sua finzione, anzi ogni volontà di polemica, e si restringe in sé stesso e confessa, senza chiedere compassione o consensi, la propria infelicità»[741]: 

 

Amico. Io non conosco le cagioni di cotesta infelicità che dite. Ma se uno sia felice o infelice individualmente, nessuno è giudice se non la persona stessa, e il giudizio di questa non può fallare. 

 Tristano. Verissimo. E di più vi dico francamente, ch’io non mi sottometto alla mia infelicità, né piego il capo al destino, o vengo seco a patti, come fanno gli altri uomini; e ardisco desiderare la morte, e desiderarla sopra ogni cosa, con tanto ardore e con tanta sincerità, con quanta credo fermamente che non sia desiderata al mondo se non da pochissimi90.

 

Dopo aver maturato una cospicua esperienza del mondo e della società, Tristano, come

John, si dissuade dell’idea che questa possa funzionare senza intoppi, che rifletta,

 

insomma, la «luce dell’età presente»[742], e come Leopardi smette di lottare contro il destino per ritirarsi nel suo vizio eremitico dell’absence.

E nel Mondo nuovo, di fronte all’amaro spettacolo di una vita intrinsecamente infelice, John si scopre più che mai disilluso, e la sua ferrea morale e la vocazione alla cultura vengono meno (per quanto selvaggio, era stato educato dagli insegnamenti di sua madre Linda, ex Beta minus che lo aveva concepito per errore assieme al direttore Tomakin, e attraverso la lettura di Shakespeare, più volte decantato e citato all’interno dei suoi discorsi). Trapiantato a Londra, «scoprirà che il migliore dei mondi possibili è in realtà uno spazio donde è stato bandito ogni vero sentire e che tutto quanto fa l’uomo “rotondo e umano”, dolore e dubbio e coscienza di sé, non esiste più»[743]. Insomma, una volta “integrato” nel nuovo mondo, John vive il disagio e la difficoltà di chi è nella situazione di mezzo tra un passato che rifiuta e un presente (con tanto di prospettiva futura) che non rispecchia le aspettative: anche lui, come Bruto, sta sul confine, e non potendo scegliere né l’una né l’altra soluzione (tornare nella Riserva o proseguire la vita da civile), rinnega la sua vita con un atto estremo. Non si può dire, comunque, che non avesse portato avanti nemmeno un tentativo per dare voce al suo dissidio interiore, perché alla fine, come Tristano, «quello che gli importa è dire chi egli sia, quanto egli sia diverso dagli altri uomini»[744]:

 

«Ma io amo gli inconvenienti.»

«Noi no» disse il Governatore. «Noi preferiamo fare le cose con ogni comodità.»  «Ma io non ne voglio di comodità. Io voglio Dio, voglio la poesia, voglio il pericolo reale, voglio la libertà, voglio la bontà. Voglio il peccato.»

 «Insomma» disse Mustafà Mond «voi reclamate il diritto di essere infelice.»  «Ebbene, sì» disse il Selvaggio in tono di sfida «io reclamo il diritto d’essere infelice»94.

 

Il diritto all’infelicità reclamato a gran voce da John certo scaturisce non solo dall’aspra delusione sperimentata nella nuova Londra, ma anche dai momenti di solitudine passati a Malpais («e poi, ero infelice; questa era un’altra ragione»)95. È interessante rilevare

 

come l’atmosfera intima e tetra in cui è immerso il Selvaggio sia oltremodo simile a quella che pervade il suicida di Filippi: 

 

Completamente solo, fuori dal pueblo, sul nudo pianoro della mesa. La roccia era simile a ossame calcinato sotto la luce lunare. Giù nella valle i lupi delle praterie latravano alla luna. Le contusioni gli dolevano, le ferite sanguinavano ancora; non era tuttavia per il dolore ch’egli singhiozzava, ma perché era completamente solo, perché era stato cacciato, tutto solo, in questo mondo sepolcrale di rocce e di luce lunare. All’orlo dell’abisso sedette. La luna stava dietro a lui; egli guardò nell’ombra nera della mesa, nell’ombra nera della morte. Aveva soltanto da fare un passo, un piccolo salto… Stese la mano destra verso il chiaro di luna. […] Egli aveva scoperto il Tempo, la Morte e Dio[745]. 

 

Dalla cornice che inquadra i più intensi momenti di riflessione del Selvaggio emergono due immagini principali: l’ombra notturna, che richiama le «nere ombre» a cui maligno sorride Bruto (v. 45); e la luna, il cui «verecondo raggio» che introduce il monologo funebre di Saffo illumina anche una Filippi deserta («E tu dal mar cui nostro sangue irriga, / candida luna, sorgi, / e l’inquieta notte e la funesta / all’ausonio valor campagna esplori», vv. 76-79).

Ma nel Mondo nuovo nessuno ha modo di vivere angosce personali perché «al giorno d’oggi – soprattutto nei Paesi a regime totalitario […] – le autorità governative operano affinché la gente non si rinchiuda nel privato nei momenti di crisi»[746] (motivo per cui John viene tenuto sotto costante osservazione). Il Selvaggio non è l’unico ad essere inquieto: per dirla con Manfrelotti, «tutto andrebbe per il meglio in questo universo di zombi sorridenti se un errore nel trattamento chimico di un ovulo non facesse di Bernard Marx […] se non un ribelle nel vero senso della parola, un “diverso”» 98 . La sua descrizione ricorda l’immagine leopardiana del giovane sensibile, dotato di alto ingegno ma costretto, come Saffo, in una «difficile forma» fisica: 

 

Un’insufficienza ossea e muscolare aveva isolato Bernardo dai suoi simili, e il senso di questo isolamento, essendo, secondo tutti i criteri correnti, un eccesso mentale, divenne a sua volta una causa di separazione maggiore. Ciò che aveva dato a Helmoltz così sconfortante coscienza della sua personalità e del suo isolamento era un eccesso di talento.

Ciò che i due uomini avevano in comune era la coscienza di essere degli individui. […]

 

Una deficienza fisica poteva produrre un eccesso mentale. Il processo era apparentemente invertibile. Un eccesso mentale poteva produrre, ai suoi fini, la cecità e la sordità volontarie di una solitudine deliberata, l’impotenza artificiale dell’ascetismo[747].

 

A differenza degli altri, nel mondo nuovo Bernardo è l’unico, assieme al poeta Helmoltz, ad avere coscienza di essere un individuo. Così, «in una società caratterizzata dalla costante riproduzione del sempre uguale, l’evidente diversità di Bernardo diviene l’elemento perturbante che lo spinge alla riflessione e, successivamente, alla ribellione»[748]: come Leopardi, si sente diverso, rilegato ai margini della società, eppure portavoce di una verità altra che, scaturita dalla sua spiccata sensibilità, lo porta a domandarsi cosa ci sia oltre la fallace esistenza che spinge le masse a lavorare. In virtù di un paragone leopardiano, si può affermare con Luporini che «in forme storicamente disuguali, asimmetriche fra loro, nel corso delle civiltà, l’uomo è tuttavia per Leopardi sempre sentimento e immaginazione, e solo secondariamente ragione» [749]. Bernardo infatti, quale uomo sensibile, è capace di provare desiderio, che non è, contrariamente a ciò che sperimentano tutti gli altri, mera cupidigia. Siano d’aiuto le parole del critico: 

 

Ma al di là e prima delle «immagini» vi è nell’uomo un agire originario e permanente dell’immaginazione sul sentimento in quanto essa opera su un elemento che è il più profondo e indomabile nell’uomo: il desiderio, fatto identico al suo stesso vivere (finché c’è vita c’è desiderio). Alla radice dei desideri, sensibili o spirituali, degli uomini, che sono tutti indirizzati alla ricerca del piacere, vi è un desiderio senza oggetto determinato, il desiderio di una felicità infinita che sfugge ad ogni rappresentabilità. È evidente che senza l’immaginazione il desiderio, che è un fatto animale, biologico, non potrebbe assumere tali caratteristiche umane (ne è una riprova, per Leopardi, l’erotismo il quale sorge sulla mera sessualità – così intermittente negli animali – allorché gli uomini hanno cominciato a nascondere, in parte, i propri corpi, vestendoli)[750].

 

Dal momento che è l’unico a mostrare unicità, come molecola che si distacca dall’intero organismo sociale, è inevitabile che è proprio «attraverso Bernardo […] che una minuscola crepa nel sistema diviene amplissima falla»[751], poiché solo lui riflette un dissidio tutto umano e moderno:

 

 

Sovente, nel passato, s’era chiesto come sarebbe stata la vita se fosse stato sottoposto (senza soma e con null’altro che le proprie forze su cui contare) a qualche grande prova, a qualche pena, a qualche persecuzione; aveva anzi desiderato ardentemente la prova dolorosa. Soltanto una settimana prima, nell’ufficio del Direttore, si era immaginato di resistere coraggiosamente, di accettare stoicamente la sofferenza, senza una parola. Le minacce del Direttore lo avevano veramente esaltato, gli avevano dato la sensazione d’essere più grande della vita. Ma questo, adesso se ne rendeva conto, perché non aveva preso le minacce sul serio; non aveva creduto che, quando fosse arrivato il momento, il Direttore avrebbe fatto qualche cosa. Ora pareva che le minacce dovessero essere messe in atto, Bernardo era atterrito. Di quello stoicismo immaginato, di quel coraggio teoretico, non era rimasta traccia[752].

 

Il suo strano affanno viene deriso perché «un uomo civilizzato non ha nessun bisogno di sopportare alcunché di particolarmente sgradevole», e soprattutto perché «tutto l’ordine sociale sarebbe sovvertito se gli uomini si mettessero a fare le cose di loro propria

testa»[753].

 A tal proposito, c’è ancora un elemento nel Mondo nuovo che, volendo, può essere oggetto di paragone con la filosofia leopardiana: si tratta del soma, una droga pubblica e gratuita di cui tutti usufruiscono quotidianamente per mantenersi in uno stato d’animo sereno e “felice” (sarebbe meglio dire assopito). In realtà, il soma non è altro che un metodo di stordimento concepito dall’alto, al fine di preservare uomini e donne da scomode incertezze e angosce esistenziali: 

 

se per qualche disgraziata evenienza un crepaccio s’apre nella solida sostanza delle loro distrazioni, c’è sempre il soma, il delizioso soma, mezzo grammo per un riposo di mezza giornata, un grammo per una giornata di vacanza, due grammi per un’escursione nel fantasmagorico Oriente, tre per una oscura eternità nella luna[754].

 

Il legame con Leopardi è ora possibile nel momento in cui la funzione del soma ha qualcosa a che fare con «il piacer vano delle illusioni»[755]. In una società e in un tempo storico moderni, «il trionfo della ragione (scientifica, analitica) uccide le illusioni – almeno quelle collettive – ma paradossalmente libera il sentimento puro, incondizionato,

 

originale», dando vita a «una specie di cortocircuito»[756]. Se dunque l’eccesso di ragione toglie all’uomo la facoltà immaginativa – ed è ciò che accade nel Mondo nuovo – e paradossalmente depura la mente da qualsiasi stimolo, ne deriva che l’uomo si ritrova in uno stato in cui è libero di pensare e sentire in maniera incondizionata. Nulla di ciò è permesso nel mondo di Ford – poiché ogni deviazione individuale guasterebbe all’equilibrio del sistema – e allora il soma serve proprio a questo: a tenere sotto controllo la funzione di ognuno (perché nel mondo di Ford la vita è funzione), nonché il pur minimo tentativo di evasione dalla sfera del qui e ora, offrendo un tipo di svago totalmente condizionato, che rassicuri gli uomini di poter riempire il loro tempo libero sì divertendosi (in una sorta di pascaliano divertissement), ma comunque – e forse un po’ ingenuamente – sotto stretto controllo dello Stato. 

 Non solo: nel momento in cui la carica del soma è quella di una droga che genera stordimento e rimedio dalle fatiche e dalla noia, quella stessa funzione è ravvisabile in maniera precisa nel Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare, nel momento in cui i due personaggi discutono sopra la natura della noia: 

 

Tasso. Che rimedio potrebbe giovare contro la noia? 

Genio. Il sonno, l’oppio e il dolore. E questo è il più potente di tutti: perché l’uomo mentre patisce, non si annoia per niuna maniera[757]. 

 

Nel Dialogo Leopardi offre insomma quegli spunti che possono distrarre l’uomo non solo dalla noia, ma anche dai pensieri che lo condurrebbero a ragionare sopra il suo stato: 

 

Tasso. […] la mente, non occupata da altro e non isvagata, mi si viene accostumando a conversare seco medesima assai più e con maggior sollazzo di prima, e acquistando un abito e una virtù di favellare in se stessa, anzi di cicalare, tale, che parecchie volte mi pare quasi di avere una compagnia di persone in capo che stieno ragionando, e ogni menomo soggetto che mi si appresenti al pensiero, mi basta a farne tra me e me una gran diceria[758]. 

 

Nel Mondo nuovo, inoltre, l’intorpidimento generato dal soma rovescia la classica concezione cartesiana del cogito ergo sum: «Ero e sarò, parole che mi fanno male. […] Prendo un grammo e allora sono»[759]. L’individuo non è nel momento in cui lucidamente

 

pensa (cioè: ragiona), bensì crede di essere, di esistere solo nel momento in cui è sotto effetto del soma, e dunque assopito, stordito, tolta ogni facoltà di riflessione. Attraverso l’espediente narrativo del soma, Huxley riesce a mettere in evidenza un pensiero ben più profondo riguardo il labile confine che esiste tra il vero e la razionalità: 

 

Con tutta la buona volontà, non sempre noi possiamo essere completamente nel vero, coerentemente nella ragione. Possiamo essere veritieri e razionali nella misura che le circostanze ci permettono, e rispondere meglio che sappiamo alla parziale verità, al ragionamento imperfetto che gli altri ci offrono in considerazione[760]. 

 

A ben vedere, nel nuovo mondo di Ford alberga una verità parziale: nessuno sa cosa si celi veramente dietro i piani dispotici del governo, e così tutti sono convinti di vivere nel giusto, specie quando si abbandonano al piacere dei sensi concesso dal soma.

Ignari di cosa sia il dolore, gli uomini del mondo nuovo si rifugiano nel soma alla minima occorrenza: «Un grammo, decise, non sarebbe bastato. Il suo dolore valeva più d’un grammo»[761]. Ad essere messa in discussione è allora anche la misura del dolore, la validità di un sentimento che per istinto l’uomo cerca di sopprimere, nella rincorsa allo slancio eudemonistico: e il soma, come le illusioni, accompagna l’uomo a distaccarsi dalla cruda consapevolezza di una vita costitutivamente infelice («La seconda dose di soma, ingoiata mezz’ora prima della chiusura, aveva innalzato un muro del tutto impenetrabile fra l’universo reale e il loro spirito»)[762]. La funzione del soma si infiltra così in quella che è la natura umana, che «spinge l’uomo ad agire, sorretto dalle illusioni, per distrarsi e dimenticare»[763]. Per il Mondo nuovo – così come per Leopardi – sembra calzare perfettamente il ragionamento di Antonio Negri: 

 

L’illusione qui non ha dialettica, neppure falsa e fugace – è immediatamente la solidità dell’inganno – una macchina di inganno, una storia di alienazione della umana potenza. […] Quanto più, dunque, procediamo nel mondo dell’illusione, tanto più quel mondo è segnato da un progressivo depotenziamento del suo essere, della sua potenza, della possibilità di essere riscattato116. 

 

 

Inganno e alienazione dell’umana potenza: questo è il nuovo mondo che secondo Huxley si sarebbe prospettato all’umanità, un mondo senza sentimenti e senza cultura. 

 Eppure, per quanto apparentemente perfetto, anche nel Mondo nuovo regna, se vogliamo, una dialettica del male, quella che leopardianamente potrebbe definirsi «male nell’ordine». Analizzando l’opera si evince che un punto di arrivo è volto «all’interrogazione plurale sul concetto di male: nel romanzo la diversità di cultura e di educazione renderà, infatti, la diversa concezione di male un forte fattore di incomprensione sociale»[764]. Nei due opposti modelli di società, ciò che nell’una è bene nell’altra è male: se il mondo nuovo ha abolito i sentimenti e la cultura, per il Selvaggio John amore e poesia sono organi vitali. In uno dei suoi numerosi scambi col Governatore, spiccano le ineludibili divergenze di pensiero tra i due uomini: 

 

Il Selvaggio scosse la testa. «Tutto questo mi sembra assolutamente orribile». 

 «Si capisce. La felicità effettiva sembra sempre molto squallida in confronto ai grandi compensi che la miseria trova. E si capisce anche che la stabilità non è neppure emozionante come l’instabilità. E l’essere contenti non ha nulla d’affascinante al paragone di una buona lotta contro la sfortuna, nulla del pittoresco d’una lotta contro la tentazione, o di una fatale sconfitta a causa della passione o del dubbio. La felicità non è mai grandiosa»[765].

 

Sono le parole stesse del Governatore a destrutturare, per un attimo, l’impianto della società: persino lui asserisce che la felicità è «squallida», e nonostante questo ciò che nel mondo nuovo è severamente bandito, e contrastato, è proprio il naturale e immutabile ordine dell’universo. Nello stato totalitario sorto a unica potenza mondiale, ciò che non viene accettato è che «il male, una volta relativizzato e reso funzionale al bene, perde, per così dire, il proprio carattere di male, non è più riconoscibile come soltanto tale, e finisce con l’assumere le sembianze se non di un bene tout court, certamente di un elemento da cui lo stesso bene non può prescindere»119:  

 

Noi concepiamo più facilmente de’ mali accidentali, che regolari e ordinarii. Se nel mondo vi fossero disordini, i mali sarebbero straordinarii, accidentali; noi diremmo: l’opera della natura è imperfetta, come son quelle dell’uomo; non diremmo: è cattiva. L’autrice del mondo ci apparirebbe una ragione e una potenza limitata: niente maraviglia; poiché il mondo stesso (dal qual solo, che è l’effetto, noi argomentiamo l’esistenza della causa) è limitato in ogni senso. Ma che epiteto dare a quella ragione e potenza che include

 

il male nell’ordine, che fonda l’ordine del male? Il disordine varrebbe assai meglio: esso è vario, mutabile; se oggi v’è un male, domani vi potrà esser del bene, esser tutto bene.

Ma che sperare quando il male è ordinario? dico, in un ordine ove il male è essenziale?[766]  

 

Attraverso una delucidazione del tutto inaspettata, è proprio il Governatore del nuovo mondo (una sorta di demiurgo che potrebbe ricordare il leopardiano «eterno / degli astri agitator» dell’Inno ai Patriarchi)[767] ad ammettere che uno stato d’animo quieto non lascia spazio per quel forte e lacerante sentire di cui l’uomo sarebbe invaso se si trovasse a dover fronteggiare la sfortuna. Che equivale a dire la fortuna, il fato, la natura; insomma, la lotta contro quella stessa «ferrata necessità» che, di fronte al disinganno, John, Bruto, Saffo, Leopardi, e con loro tutto il genere umano, sempre e inevitabilmente si combatte.   

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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[1] Cfr. commento di A. Campana, in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di A. Campana, Roma, Carocci, 2014, p. 151: «Minore significa iunior rispetto al padre adottivo, Marco Giunio Bruto senior, tribuno della plebe». 

[2] Cfr. commento e note di M. Fubini, in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di M. Fubini [1964], edizione rifatta con la collaborazione di E. Bigi, Torino, Loescher, 1985, p. 72: «Composta subito dopo le due precedenti, nel dicembre 1821, “opera di 20 giorni”, secondo la testimonianza del L. stesso; pubblicata per la prima volta in B 24 e poi in F ed N».  

[3] G. Leopardi, Disegni letterari, in G. Leopardi, Poesie e prose vol. II, a cura di R. Damiani e M.A. Rigoni, con un saggio di C. Galimberti [1988], Milano, Mondadori, 2003, p. 1212, § V [ARGOMENTO DI UN LIBRO POLITICO]; p. 1213: «A Bruto come sopra, e notando e compiangendo l’abiura da lui fatta della virtù. Così anche a qualche altro fautore dell’antica libertà», § VII.

[4] Ibidem. Si veda anche G. Leopardi, Disegni letterari, a cura di F. D’Intino, D. Pettinicchio, L. Abate, Macerata, Quodlibet, 2021, p. 134: «Per di più, il proposito di trattare “Di quella famosa esclamazione di Bruto vicino a morte” lascia pensare che il disegno sia precedente alla stesura della Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto vicini a morte (marzo 1822)».

[5] W. Binni, La protesta di Leopardi [1988], Firenze, Sansoni, 2000, p. 52: «O ancora l’Argomento di un libro politico riconducibile alle meditazioni politiche dello Zibaldone, tra il ’20-’21, specialmente per gli accenni all’amore della virtù presso gli antichi e alla necessità di rendere individuale l’interesse per lo stato».

[6] Z III, 291, 3, in G. Leopardi, Zibaldone scelto, in G. Leopardi, Opere, a cura di G. De Robertis, Milano, Rizzoli, 1937, vol. III, p. 380: «Il mio sistema introduce non solo uno scetticismo ragionato e dimostrato, ma tale che, secondo il mio sistema, la ragione umana, per qualsivoglia progresso possibile, non potrà mai spogliarsi di questo scetticismo; anzi esso contiene il vero, e si dimostra che la nostra ragione non può assolutamente trovare il vero se non dubitando; ch’ella si allontana dal vero ogni volta che giudica con certezza; e che non solo il dubbio giova a scoprire il vero […], ma il vero consiste essenzialmente nel dubbio, e chi dubita sa, e sa il più che si possa sapere (8 settembre 1821)».

[7] G. Leopardi, Disegni letterari, a cura di F. D’Intino, D. Pettinicchio, L. Abate, cit., p. 135.

[8] Z II, 41, 2 in G. Leopardi, Zibaldone scelto, in G. Leopardi, Opere vol. III, cit., p. 238. Nel passo successivo (Z II, 43, 1) L. spiega la sua preferenza per l’autore: «Floro è noto per il molto che ha di poetico, non solo nell’invenzione, evidenza, fecondità, come Livio, ma nella sentenza e nella frase, anzi non tanto nella facoltà quanto nella maniera, nello stile e nella volontà. E in ogni modo Floro ha tanto di gravità, nobiltà, posatezza ed ancora castigatezza, in somma tanto sapor di prosa, quanto non si troverà facilmente in nessun moderno», in ivi, p. 239.

[9] L. Blasucci, I titoli dei «Canti» e altri studi leopardiani, Venezia, Marsilio, 2011, p. 149.

[10] Cfr. commento di A. Campana in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di A. Campana, cit., p. 153: «Il titolo riecheggia quello di opere latine basate su un personaggio parlante in prima persona, anche se alter ego dell’autore: “Bruto minore. Così gli antichi intitolavano spesso i loro libri assolutamente dal nome delle persone che v’erano introdotte a parlare. Non solo i Dialoghi (come Cic. il Cato maior, e il

[11] L. Blasucci, op. cit., p. 149.

[12] Ibidem. Il critico spiega poi in nota che si tratta di una «strategia che diventa sistematica nelle Operette […]. Si pensi anche ai Paralipomeni della Batracomiomachia, un titolo volutamente stantio, da dotto scioglilingua». 

[13] G. Leopardi, Canti, edizione critica diretta da F. Gavazzeni, a cura di C. Animosi, F. Gavazzeni, P. Italia, M.M. Lombardi, F. Lucchesini, R. Pestarino, S. Rosini. Nuova edizione, Firenze, Presso l’Accademia della Crusca, 2009, vol. I, p. 147: «B 24. La canzone si legge alle pp. 89-96 (sesto posto) ed è preceduta, alle pp. 71-87, dalla Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto vicini a morte». Più precisamente, si può aggiungere che «fu in seguito pubblicata da Ranieri nella lemonnieriana del ’45 tenendo conto delle correzioni apportate da Leopardi su un esemplare del ’24», cfr. commento e note in Appendice alle Operette morali, in G. Leopardi, Poesie e prose vol. II, cit., p. 1379.

[14] B. Zandrino, La comparazione dei disinganni, in Leopardi e il mondo antico, Atti del V Convegno Internazionale di studi leopardiani (Recanati, 22-25 settembre 1980), Firenze, Olschki, 1982, pp. 637-655, p. 641.

[15] Ibidem e ivi, p. 642.

[16] Entrambe le citazioni sono contenute in ivi, p. 640. 

[17] Ibidem e ivi, p. 641.

[18] Lettera A Pietro Giordani, Piacenza (Recanati 27 Novembre 1818), in G. Leopardi, La vita e le lettere, scelta, introduzione biografica e note di N. Naldini, prefazione di F. Bandini [1983], Milano, Garzanti, 2020, p. 87: «Mi domandate che leggerò questo inverno: scilicet, libri antichi, perché i moderni qua non arrivano, e io presentemente leggendo sempre, sto in una totale ignoranza delle cose del mondo letterario.

Ma nei Classici greci latini italiani m’immergerò fino alla gola».

[19] G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di A. Campana, cit., p. 152.

[20] G. Leopardi, Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto vicini a morte, in G. Leopardi, Poesie e prose vol. II, cit., p. 266. Corsivo nel testo.

[21] G. Leopardi, Bruto minore, vv. 1-6, in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di M. Fubini, cit., p. 73. Corsivo mio.

[22] Cfr. L. Blasucci, Leopardi e i segnali dell’infinito, Bologna, Il Mulino, 1985, pp. 18-19: «Ma anche al di là di vere e proprie coincidenze lessicali o di immagini, il testo della versione virgiliana può agire con la suggestione di alcuni movimenti sintattici, una precisa coscienza di tale tipo di derivazioni mostrava di averla lo stesso Leopardi allorché nelle sue annotazioni alle canzoni giustificava il passaggio dal perfetto al presente nell’esordio del Bruto minore (“Poi che divelta, nella tracia polve / giacque ruina immensa / l’italica virtute [ecc.]) con alcuni esempi virgiliani, il primo dei quali era dato all’inizio del terzo libro (“Postquam res Asiae, Priamique evertere gentem [ecc.]), da lui stesso tradotto anni prima con la conservazione del fenomeno sintattico». Per un ragguaglio completo si veda l’intero saggio Una fonte linguistica per i «Canti»: la traduzione del secondo libro dell’«Eneide», in ivi, pp. 9-30.

[23] G. Leopardi, Canti, a cura di U. Dotti, cit., pp. 514-515: è presente per intero la spiegazione data da L. circa l’uso di due tempi verbali distinti all’interno della stessa strofa, di cui qui si è riportata solo una parte. Alla fine, l’autore ribadisce di aver recato «questi soli esempi dei mille e più che si potrebbero cavare dal solo Virgilio, accuratissimo e compitissimo sopra tutti i poeti del mondo». Cfr. P. Citati, Leopardi, Milano, Mondadori, 2010, p. 197: «Dopo che piacque ai celesti di abbattere la potenza dell’Asia / E l’incolpevole gente di Priamo e cadde la superba / Ilio…».

[24] Cfr. note di M. Fubini al Bruto minore, in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di M. Fubini, cit., p. 73.

[25] Nella sua introduzione in G. Leopardi, Operette morali seguite da una scelta dei “Pensieri”, studio introduttivo e commento di M. Fubini [1966], Torino, Loescher, 1985, p. 23, Fubini parla di «ricerca del peregrino, vale a dire, della voce lontana dall’uso comune, e nella sostituzione della voce indeterminata e generica al termine preciso e nudo».

[26] Ivi, p. 33. 

[27] Entrambe le citazioni sono prese da G. Di Fonzo, La negazione e il rimpianto. La poesia leopardiana dal “Bruto minore” alla “Ginestra”, Roma, Bulzoni, 1991, p. 46.

[28] Ibidem e ivi, p. 47. 

[29] L. Blasucci, I titoli dei «Canti» e altri studi leopardiani, cit., p. 163. Si veda, di rimando, G. Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova edizione tematica condotta sugli Indici leopardiani, a cura di F. Cacciapuoti

[30] G. Leopardi, Nelle nozze della sorella Paolina, vv. 1-6, in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di M. Fubini, cit., p. 62.

[31] Entrambe le citazioni sono prese da L. Blasucci, Leopardi e i segnali dell’infinito, cit., p. 10. 

[32] Entrambe le citazioni sono prese da S. Timpanaro, Il Leopardi e i filosofi antichi, in S. Timpanaro, Classicismo e Illuminismo nell’Ottocento italiano, Pisa, Nistri-Lischi, 1965, p. 191.

[33] Cfr. Bruto minore, vv. 19-21: «A voi, marmorei numi, / (Se numi avete in Flegetonte albergo / O su le nubi)». Ritorna con ciò l’utilizzo del singolarissimo aggettivo marmorei, per cui siano chiarificatori i commenti dei seguenti critici: secondo Fubini, «marmorei: indifferenti di una indifferenza che mal nasconde l’intima crudeltà», in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di M. Fubini, cit., p. 74; similmente Campana spiega: «divinità effigiate nel marmo (ma marmorei gioca anche sul pedale dell’indifferenza, della petrosa freddezza degli dèi verso gli uomini)», in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di A. Campana, cit., p. 156. 

[34] Z 160, 2 in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova edizione tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., p. 259. Cfr. G. Barberi Squarotti, Leopardi e gli eroi antichi, in Leopardi e il mondo antico, pp. 225-239, p. 226: «Bruto non è neppure nominato nella considerazione sul fallimento che il tirannicidio fu perché “putridi” erano ormai i nipoti di Romolo, incapaci di credere ancora nelle illusioni e vanità che avevano fatto grande Roma, perché tali illusioni e vanità non avevano resistito all’analisi razionale della filosofia, che aveva ormai conquistato Roma».

[35] G. Leopardi, Bruto minore, vv. 19-21, in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di M. Fubini, cit., p. 74. 

[36] U. Dotti, Lo sguardo sul mondo. Introduzione a Leopardi, Bari, Laterza, 1999, p. 56.

[37] Z 543, 1 in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova edizione tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., p. 310.

[38] W. Binni, Lettura delle Operette morali, Genova, Marietti, 1987, p. 7, in nota: «Il dialogo si può attribuire all’agosto del ’20». 

[39] S. Timpanaro, op. cit., p. 193.

[40] Si veda la nota introduttiva di L. in Dialogo… ec. in G. Leopardi, Poesie e prose vol. II, cit., p. 234: «Murco significa poltrone, e dall’altro canto Appiano nomina un certo Murco fra quelli che si unirono ai congiurati fingendo di avere avuto parte nella congiura». 

[41] W Binni, Lettura delle Operette morali, cit., p. 7.

[42] G. Leopardi, note al Dialogo… ec., in G. Leopardi, Poesie e prose vol. II, cit., p 1373.

[43] Lettera Ad Antonio Fortunato Stella, Milano (Bologna 16 giugno 1826), in G. Leopardi, La vita e le lettere, cit. p. 347: «Avrei voluto fare una prefazione alle Operette morali, ma mi è paruto che quel tuono ironico che regna in esse, e tutto lo spirito delle medesime escluda assolutamente un preambolo; e forse Ella, pensandovi, converrá con me che se mai opera dovette essere senza prefazione, questa lo debba in particolar modo».

[44] G. Leopardi, Dialogo… ec., in G. Leopardi, Poesie e prose vol. II, cit., p. 234.

[45] W. Binni, Lettura delle Operette morali, cit., p. 7: «C’è poi il Dialogo: Filosofo greco, Murco senatore romano, popolo romano, congiurati che, dal punto di vista della capacità organizzativa, per quanto ancora gracile ed acerba, è quello che appare più celere, borioso, animato dal movimento di battute dialogiche rapidissime, e sorretto anche da un chiaro riferimento ai politici del tempo, che Leopardi rivive soprattutto nella satira degli individui vili ed egoisti».

[46] E. Russo, Ridere del mondo. La lezione di Leopardi, Bologna, Il Mulino, 2017, p. 30.

[47] G. Leopardi, Dialogo… ec., in G. Leopardi, Poesie e prose vol. II, cit., p. 235. Corsivi miei.

[48] S. Timpanaro, op. cit., p. 193. 50 E. Russo, op. cit., p. 30.

[49] Cfr. G. Leopardi, Disegni letterari, in G. Leopardi, Poesie e prose vol. II, cit., pp. 1206-1207.

[50] Entrambe le citazioni sono prese da E. Russo, op. cit., p. 29: «Discutendo ancora del “ridicolo”, della sua natura “dilettevole”, ma soprattutto della sua valenza di insegnamento morale, nell’intento di giovare prima ancora che di dilettare […], Leopardi muove dalla necessità di applicarlo a “materia importante”. Di qui delinea un programma, e persino un dossier di possibili materie per i suoi “dialoghi”: tradizionali temi da tragedia che sono ora da trasporre in commedia. L’elenco è tanto ambizioso quanto esteso: si passa da temi civili (“i vizi dei grandi”) alla condizione infelice dell’uomo, dalle incongruenze (“gli assurdi”) della politica alle irregolarità della morale e della filosofia, alla critica del proprio secolo, in una sequenza che conosce riprese e ritorni […], raccordata soltanto dal rilievo costante e dal profilo serio, “tragico”, delle materie».

[51] W. Binni, Lettura delle Operette morali, cit., p. 7.

[52] E. Russo, op. cit., p. 30.

[53] B. Zandrino, op. cit., pp. 645-646.

[54] W. Binni, Lettura delle Operette morali, cit., p. 7: «Il Leopardi qui, in un momento in cui sente il fascino delle individualità eroiche, satireggia la mutevolezza delle moltitudini». 

[55] Questa e le precedenti citazioni sono tratte da Dialogo… filosofo greco ecc. in G. Leopardi, Poesie e prose vol. II, cit. p. 235.

[56] S. Timpanaro, op. cit., p. 194.

[57] Ivi, p. 192. 

[58] G. Leopardi, Bruto minore, vv. 2-3, in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di M. Fubini, cit., p. 73.

[59] U. Dotti, op. cit., p. 58.

[60] G. Leopardi, Bruto minore, vv. 1-9, in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di M. Fubini, cit., p. 74.

[61] B. Zandrino, op. cit., p. 649.

[62] Cfr. note al Dialogo Galantuomo e mondo, in G. Leopardi, Poesie e prose vol. II, cit., p. 1375: «Composto nel giugno del 1821 (secondo un’opinione di Levi, confermata da Besomi attraverso un riscontro con Zib. 1176-9; 17 giugno 1821)». 

[63] Ibidem e ivi, p. 1376.

[64] G. Leopardi, Dialogo Galantuomo e mondo, in G. Leopardi, Poesie e prose vol. II, cit., pp. 253-254. Corsivi miei.

[65] E. Russo, op. cit., p. 31.

[66] G. Leopardi, Dialogo Galantuomo e mondo, in G. Leopardi, Poesie e prose vol. II, cit., p 256. 

[67] Ivi, p. 257. Corsivi miei.

[68] B. Biral, La posizione storica di Giacomo Leopardi. Nuova edizione riveduta e ampliata [1974], Torino, Einaudi, 1992, p. 271. 71 Ibidem.

[69] G. Leopardi, Dialogo Galantuomo e mondo, in G. Leopardi, Poesie e prose, cit., p. 257-258. Corsivi miei.

[70] N. Machiavelli, De principatibus, testo critico a cura di G. Inglese, Roma, Nella sede dell’Istituto, 1994, p. 263. Corsivi miei. 

[71] Ivi, p. 65. Corsivi miei. 

[72] Z IV, 261, 1 in G. Leopardi, Zibaldone scelto, in G. Leopardi, Opere vol. III, cit., pp. 499-500. Corsivi miei. Datato 13 giugno 1822.

[73] Entrambe le citazioni sono tratte da A. Vigorelli, La “pazienza” di Giacomo Leopardi. Agire e patire: analisi del sistema dello Zibaldone, Milano, Mimesis, 2019, p. 146. 77 B. Biral, op. cit., p. 271.

[74] Cfr. note in Appendice alle operette morali, in G. Leopardi, Poesie e prose vol. II, cit., pp. 1376-1377: «Si compone di tre frammenti, di cui i primi due datano con ogni probabilità tra il settembre 1820 e il febbraio 1821, e il terzo esplicitamente 13 giugno 1822».

[75] E. Russo, op. cit., p. 32.

[76] Cfr. note in Appendice alle operette morali, in G. Leopardi, Poesie e prose, cit., p. 1377: «Al centro della Novella vi è ancora la contrapposizione tra le illusioni dei classici e la verità dei moderni. Configurata nelle forme di un “concorso” che deve scegliere tra Senofonte e Machiavelli, teorici dell’arte di regnare, l’istitutore del principe infernale cui è stato affidato un recente trono terreno».

[77] W. Binni, Lettura delle Operette morali, cit., p. 6.

[78] Ibidem.

[79] G. Singh, Leopardi filosofo e anti-filosofo, Pisa-Roma, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, 1997, p. 77.

[80] G. Leopardi, Per la novella Senofonte e Machiavello, in G. Leopardi, Poesie e prose vol. II, cit., p. 261. 85 Ibidem. Corsivi miei. Cfr. W. Binni, Lettura delle Operette morali, cit., p. 6: «È una novella che ha punte assai acri, come là dove il Leopardi parla della virtù che è il “patrimonio dei coglioni”: è una prosa non atteggiata in forme precisamente artistiche ma soprattutto svolta in una maniera acutamente dimostrativa e discorsiva».

[81] Cfr. G. Singh, La novella Senofonte e Niccolò Machiavello, in Il riso leopardiano. Comico, satira, parodia, Atti del IX Convegno internazionale di studi leopardiani (Recanati 18-22 settembre 1995), Firenze, Olschki, 1998, pp. 281-287, p. 286: «Perché con tutto l’entusiasmo con cui, dedito come è alla propria filosofia e al proprio insegnamento, Machiavello rinnega i principi della vecchia morale, della vecchia – e si può dire perenne – filosofia, egli non può non provare un certo attaccamento ad essi». 

[82] G. Leopardi, Novella: Senofonte e Niccolò Machiavello, in G. Leopardi, Poesie e prose vol. II, cit., p.

264. Corsivi miei. 

[83] N. Machiavelli, op. cit., pp. 253-254. Corsivi miei. 

[84] Ibidem e ivi, pp. 254-255. Corsivi miei. 

[85] M. Marcazzan, Leopardi e l’ombra di Bruto, in Nostro Ottocento, Brescia, La scuola, 1955, pp. 189-292, p. 228.

[86] G. Leopardi, Novella: Senofonte e Niccolò Machiavello, in G. Leopardi, Poesie e prose vol. II, cit., p. 265.

[87] W. Binni, Lettura delle Operette morali, cit., p. 6.

[88] G. Leopardi, Novella: Senofonte e Niccolò Machiavello, in G. Leopardi, Poesie e prose vol. II, cit., p. 265. Il tono del discorso di Machiavelli (cfr. anche nota 88) così concitato e risoluto nel proposito di voler istruire gli uomini, può ricordare il celeberrimo passo dell’Inferno dantesco in cui Ulisse sprona i compagni ad ampliare le proprie conoscenze: «‘O frati’, dissi, ‘che per cento mila / perigli siete giunti a l’occidente, / a questa tanto picciola vigilia / d’i nostri sensi ch’è del rimanente / non vogliate negar l’esperienza, / di retro al sol, del mondo sanza gente. / Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza’. / Li miei compagni fec’io sì arguti, / con questa orazion picciola, al cammino / che a pena poscia li avrei ritenuti» (Inferno, XVI, vv. 112-123). Certo, il contesto è più che mai diverso – sia per autore, che per periodo storico, che per contenuti – ma è il tono concitato usato da Leopardi per il personaggio di Machiavelli a ricordare l’Ulisse di Dante, secondo il quale, naturalmente (e in maniera del tutto opposta rispetto a Machiavelli o a Bruto ecc.), il perseguimento della virtù e della scienza sono i grandi ideali, grandi obiettivi dell’uomo, che solo così si distingue dai bruti.

[89] Commento a G. Leopardi, Novella: Senofonte e Niccolò Machiavello, in G. Leopardi, Poesie e prose vol. II, cit., p. 1378. 95 Ivi, p. 265.

[90] Entrambe le citazioni sono prese da G. Singh, La novella Senofonte e Niccolò Machiavello, cit., p. 283. Si veda anche ivi, p. 287: «Le basi più profonde del pensiero leopardiano, infatti, riguardano il concetto dell’uomo, della natura, dell’arte, del destino umano e della natura umana, dell’universo, dell’essenza e del perché delle cose, nonché l’arcano mistero della vita, il tempo, lo spazio, l’infinito, la felicità o l’infelicità, e la natura del pensiero stesso. […] Nel trattare questi temi, il pensiero di Leopardi a volte raggiunge altezze più ardite, e si trasforma in un tipo di saggezza al tempo stesso filosofica e morale. E quindi il peso che in un dato contesto letterario, come quello di questa novella, viene dato al machiavellismo di società, o all’arte di regolarsi nella società, deriva in gran parte la sua giustificazione dal carattere fondamentalmente satirico della novella».  

[91] Entrambe le citazioni sono prese da ivi, p. 284.

[92] Entrambe le citazioni sono prese da M. Marcazzan, op. cit., p. 227. Quanto alle «esasperate confessioni del 1819», il critico fa riferimento specialmente alla lettera a Broglio d’Ajano, sulla quale si ritornerà nel paragrafo successivo (cfr. § 1.3).

[93] Entrambe le citazioni sono prese da ivi, p. 221.

[94] G. Leopardi, Bruto minore, rispettivamente v. 31 e v. 19, in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di M. Fubini, cit., p. 75.

[95] Lettera A Giuseppe Melchiorri, Roma (Recanati 5 Marzo 1824), in G. Leopardi, La vita e le lettere, cit., p. 268: «Io non ho scritto in vita mia se non pochissime e brevi poesie. Nello scriverle non ho mai seguito altro che un’ispirazione (o frenesia), sopraggiungendo la quale, in due minuti io formava il disegno e la distribuzione di tutto il componimento. Fatto questo, soglio sempre aspettare che mi torni un altro momento, e tornandomi […] mi pongo allora a comporre, ma con tanta lentezza, che non mi è possibile di terminare una poesia, benché brevissima, in meno di due o tre settimane».

[96] Lettera A Pietro Giordani, Piacenza (Recanati 17 Decembre 1819), in ivi, pp. 137-138: «Io tengo afferrati con ambe le mani questi ultimi avanzi e queste ombre di quel benedetto e beato tempo, dov’io sperava e sognava la felicità, e sperando e sognando la godeva; ed è passato, né tornerà mai più».

[97] S. Solmi, Studi leopardiani. Note su autori classici italiani e stranieri, a cura di G. Pacchiano, Milano, Adelphi, 1987, p. 61: «Lo Zibaldone, come s’è detto, è l’esemplare, unico nella nostra letteratura, di un pensiero in movimento, il quale, tenendo fermo ad alcune grandi persuasioni radicate nell’esperienza vitale, e tuttavia imprecisate nelle loro conclusioni ultime, riflette alla luce di esse il rapporto fra un microcosmo esistenziale e il macrocosmo del mondo e della natura in tutta la folta, se pur coerente e sorvegliata, tortuosità del suo svolgersi».

[98] Ivi, pp. 59-60: «Per quanto egli evidentemente presumesse, elaborando e di continuo aggiustando e sviluppando e spostando le complesse linee del “sistema”, di ricondurre ogni oggetto di meditazione al medesimo lume razionale, la frattura rimane aperta fra Ragione e Natura, Realtà e Illusione, mondo delle cose e mondo dei valori. Ed è qui che comincia a svelarsi il rapporto necessario che intercede fra Leopardi pensatore e Leopardi poeta, la compatta unicità di una esperienza nel suo sviluppo profondo».

[99] Si veda quanto scrive W. Binni, La protesta di Leopardi, cit., p. 66: «Tanto che, molto più tardi, lo stesso Leopardi nella celebre lettera al De Sinner del 24 maggio 1832 poté citare il Bruto minore (e non senza forzature rispetto alle proprie posizioni del ’32 tanto diversamente maturate) come testo fondamentale per comprendere la natura non religiosa del suo pensiero e il suo atteggiamento eroico e protestatario di fronte “à la destinée”».

[100] C. Genetelli, L’Epistolario, in Leopardi, a cura di F. D’Intino, M. Natale, Roma, Carocci, 2018, p. 142. 109 Lettera A Luigi De Sinner, Parigi (Firenze 24 Maggio 1832), in G. Leopardi, La vita e le lettere, cit., pp. 514-515, continua così: «ç’a été par suite de ce même courage, qu’étant amené par mes recherches à une philosophie déspérante, je n’ai hésité a l’embrasser tout entière», ecc. In nota, la traduzione del curatore: «Quali siano le mie sventure, che si è voluto ostentare e che forse si sono un po’ esagerate in questo giornale, ho abbastanza coraggio per non cercare di diminuirne il peso né con frivole speranze d’una pretesa felicità futura e ignota, né con una vile rassegnazione. I miei sentimenti verso il destino sono stati e sono sempre quelli da me espressi nel Bruto minore. Come conseguenza di questo coraggio, essendo stato condotto dalle mie ricerche a una filosofia disperante, non ho esitato di abbracciarla tutta intera».

[101] G. Barberi Squarotti, op. cit., p. 228.

[102] A. Frattini, L’opposizione antichi-moderni nelle tensioni epico-liriche delle prime dieci canzoni del Leopardi, in Leopardi e il mondo antico, pp. 451-460, cit., p. 458.

[103] B. Croce, Leopardi, in B. Croce, Poesia e non poesia. Note sulla letteratura europea del secolo decimonono [1923], Bari, Laterza, 1955, pp. 100-116, p. 102: «Si rammenterà il senso di delusione che l’Epistolario leopardiano produsse quando venne a luce. Dunque (si disse), codeste dottrine alle quali avevamo attribuito valore speculativo, non erano altro che il riflesso delle sofferenze e miserie dell’individuo? Delle infermità che lo travagliarono, delle compressioni familiari ed angustie economiche, del vano desiderio di un amore di una donna non mai ottenuto?». Si veda quindi, di rimando, la sopracitata lettera al De Sinner: «tandis que de l’autre côté ce n’a été que par effet de la lâcheté des hommes, qui ont besoin d’être persuadés du mérite de l’existence, que l’on a voulu considérer mes opinions philosophiques comme le résultat des mes souffrances particulières, et que l’on s’obstine à attribuer à mes circonstances matérielles ce qu’on ne doit qu’à mon entendement. Avant de mourir, je vais protester contre cette invention de la faiblesse et de la vulgarité, et prier mes lecteurs de s’attacher à détruire mes observations et mes raisonnements plutôt que d’accuser mes maladies», in G. Leopardi, La vita e le lettere, cit., p. 515.

[104] C. Genetelli, op. cit., p. 129.

[105] Lettera A Pietro Giordani, Milano (Recanati 21 Marzo 1817), in G. Leopardi, La vita e le lettere, cit., p. 16. 

[106] Lettera A Pietro Giordani, Venezia (Recanati 8 Agosto [1817]), in ivi, p. 51.

[107] P. Citati, op. cit., p. 76: «Nelle lettere a Giordani, questo desiderio lo riafferrò furiosamente […]: “Farò mai niente di grande?” Sapeva benissimo che era il sogno di Achille. Come lui, voleva vincere il tempo, e conquistare l’immortalità».

[108] Cfr. P. Citati, op. cit., pp. 71-72: «Quasi tre anni dopo la conoscenza con Giordani, Leopardi ricordava nello Zibaldone che “l’eroismo è sparito dal mondo”: nei tempi moderni non c’erano più Achille e Patroclo, la loro amicizia assoluta, il sentimento paterno e materno di Achille verso l’amico, Patroclo che indossa le armi di Achille, la morte, la vendetta, le ossa di entrambi sepolte nella stessa urna. Oggi, l’amicizia eroica è morta per sempre. Nei tempi moderni è possibile soltanto una forma di amicizia: quella fra un giovane e “un uomo di sentimento già disingannato dal mondo, e disperato della sua propria felicità”; l’amicizia, appunto, che legava Leopardi e Giordani».

[109] Ivi, p. 74.

[110] Cfr. C. Genetelli, op. cit., p. 135: «Sono, le prime [lettere] a Giordani, le più organiche al nascente Zibaldone e le più ricche sul fronte della comunicazione e dello scambio letterario: più in là, la divaricazione delle due scritture si farà, nel complesso, in modi più netti e determinati. Non è un caso se […] al calo vistoso delle lettere fra i due amici negli ultimi mesi del 1820 e nel 1821, corrisponde il massimo incremento dello Zibaldone».

[111] Introduzione di U. Dotti in G. Leopardi, Canti, a cura di U. Dotti, p. 26.

[112] Lettera A Pietro Giordani, Vicenza (Recanati 26 Aprile 1819), G. Leopardi, La vita e le lettere, cit., p. 109. Contrariamente scriverà nello Zibaldone (Z 1594,2) due anni più tardi (31 Agosto 1821): «La bellezza è naturalmente compagna della virtù», in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova edizione tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., p. 55.

[113] U. Dotti, op. cit., p. 80.

[114] Lettera A Saverio Broglio d’Ajano, Macerata (Recanati 13 agosto 1819), in G. Leopardi, La vita e le lettere, cit., p. 126. Si veda quanto scrive Genetelli in C. Genetelli, op. cit., pp. 130-131: «Il testo della lettera a Broglio d’Ajano nella copia di Paolina presenta addirittura alcuni passaggi in cui l’asprezza e la radicalità degli assunti è più pronunciata di quanto sarà nella versione poi realmente spedita: basti pensare al più vistoso, ossia al minaccioso paragrafo sulla virtù […] abbandonato in extremis, a capo di un ripensamento quasi postremo, a favore di un finale meno reciso, in cui parzialmente, per una via stretta, rientra in campo l’affetto, sincero e sofferto, per il padre».

[115] M. Marcazzan, op. cit., p. 227.

[116] Si veda R. Damiani, Vita di Leopardi, Milano, Mondadori, 1992, p. 167: «Giacomo invitava il conte Broglio, noto per lo spirito liberale, a non farsi ingannare da Monaldo, come capitava ad altri, che pure non convenivano “interamente” con le sue idee. Doveva piuttosto ascoltare un giovane, che conosceva, benché inesperto, il carattere delle persone con le quali era convissuto sin dalla nascita».

[117] Lettera A Pietro Brighenti, a Bologna (Recanati 14 Agosto 1820), in G. Leopardi, Opere, a cura di G. De Robertis, Milano, Rizzoli, 1937, vol. II, p. 821.

[118] Lettera A Pietro Giordani, Vicenza (Recanati 21 Giugno 1819), in ivi, p. 115: «Nel resto mi trovo bene del corpo, e dell’animo, ardentissimo e disperato quanto mai fossi, in maniera che ne mangerei questa carta dov’io scrivo».

[119] U. Dotti, op. cit., p. 77.

[120] Ibidem.

[121] Lettera A Pietro Giordani, Piacenza (Recanati 4 settembre 1820), in G. Leopardi, La vita e le lettere, cit., p. 171. Cfr. Introduzione di M. Fubini in G. Leopardi, Operette morali seguite da una scelta dei “Pensieri”, cit., p. 2: «L’apostasia di Bruto, prima di trovare la rappresentazione eroica nella canzone del 1822, aveva cercato di esprimersi nella satira violenta e amara di quelle “prosette”. Una sola infatti di quelle prose immaginate e abbozzate nel settembre 1820 e poi meditate per parecchio tempo fino al 1822, è estranea in fondo a quel proposito di vendetta e si ricongiunge piuttosto al disegno dei dialoghi dei pesci, il Dialogo fra due bestie […]: le altre, la novella Senofonte e Machiavelli, i dialoghi Galantuomo e Mondo e Murco, senatore romano, filosofo greco, popolo, congiurati, restano l’espressione di un momento di crisi dell’animo leopardiano, la reazione immediata e irreflessa benché tenti di elevarsi a teoria, che il poeta, più giovane di quanto crede essere, oppone agli eventi e alle persone ostili».

[122] Lettera A Giulio Perticari, Pesaro (Recanati 9 Aprile 1821), in G. Leopardi, La vita e le lettere, cit., p. 183.

[123] Lettera Ad A. Jacopssen, Bruges (Recanati 23 Juin 1823), in ivi, p. 249. In nota, il curatore traduce l’intera lettera. In questo caso, p. 251: «Vi concedo che la virtù, così come tutto quello che è grande e bello, sia soltanto un’illusione».

[124] M.A. Rigoni, Il pensiero di Leopardi, prefazione di E.M. Cioran, Milano, Bompiani, 1997, p. 29. 139 G. Leopardi, Bruto minore, vv. 112-116: «In peggio / Precipitano i tempi; e mal s’affida / A putridi nepoti / L’onor d’egregie menti e la suprema / De’ miseri vendetta», in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di M. Fubini, cit. p. 79.

[125] Lettera A Pietro Giordani, a Piacenza (Recanati 9 Giugno 1820), in G. Leopardi, Opere vol. II, cit., p. 818.

[126] F.A. Camilletti e M. Piperno, L’antico e il moderno, in Leopardi, a cura di F. D’Intino [ec.], cit., p. 265.

[127] Si fa qui riferimento al titolo del saggio Leopardi e l’ombra di Bruto di M. Marcazzan, op. cit., p. 189.

[128] Ivi, p. 233.

[129] Cfr. Dialogo di Tristano e di un amico, in G. Leopardi, Operette morali seguite da una scelta dei “Pensieri”, studio introduttivo e commento di M. Fubini, cit., pp. 282-283: «Se questi sentimenti nascano da malattia, non so: so che, malato o sano, calpesto la vigliaccheria degli uomini, rifiuto ogni consolazione e ogni’inganno puerile, ed ho il coraggio di sostenere la privazione di ogni speranza, mirare intrepidamente il deserto della vita, non dissimularmi nessuna parte dell’infelicità umana, ed accettare tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa, ma vera». 145 B. Biral, op. cit., p. 80.

[130] W. Binni, La protesta di Leopardi, cit., p. 37. 147 Ivi, p. 42. 

[131] G. Leopardi, La ginestra o il fiore del deserto, vv. 123-125, in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di M. Fubini, cit., p. 254: «ma dà la colpa a quella / Che veramente è rea, che de' mortali / Madre è di parto e di voler matrigna».

[132] S. Solmi, op. cit., p. 52. 

[133] Ibidem e ivi, p. 53: «A tale indagine dovrebbero, naturalmente, soccorrere anche le altre opere leopardiane, in particolare le Operette morali, i Pensieri, i Paralipomeni della Batracomiomachia, e soprattutto i Canti: ma tenendo ben fermo che il filone ad esse sotteso, che le spiega e le costituisce come loro coscienza riflessa – anche se ad un certo punto viene a cessare – è pur sempre lo Zibaldone».

[134] B. Biral, op. cit., p. 80: «Certo egli faticò assai più ad estirpare l’ideologia cristiana che a dissipare il genuino sentimento religioso; il quale dovette affievolirsi, soprattutto con la crisi del 1819, che fu l’anno di logoranti, agghiaccianti noie, la noia che svuota le cose di ogni significato, svuota anzitutto il cuore dal senso del divino».

[135] P. Citati, op. cit., p. 82.

[136] B. Biral, op. cit., p. 61.

[137] Lettera Di Pietro Giordani (Piacenza 5 Gennaio 1819), in G. Leopardi, La vita e le lettere, cit., p. 93. 155 Cfr. lettera A Pietro Giordani, Piacenza (Recanati 18 Gennaio 1819), in ivi, p. 97: «quel nostro zio […] ha avuto la sfacciataggine di dirmi più volte spontaneamente che sapeva di non potere educar bene i suoi figli se non fuori di qui, e poi scrivermi una lunga lettera per provarmi ch’io la fo da ignorante e da stolto pensando solamente d’uscire di Recanati».  

[138] Lettera A Pietro Giordani, Vicenza (Recanati 21 Giugno 1819) in ivi, p. 115.

[139] B. Croce, op. cit., p. 105: «Che cosa fu la vita del Leopardi? […] Fu, per dirla con un’immagine rozza ma efficace, una vita strozzata». 158 B. Biral, op. cit., p. 59.

[140] P. Citati, op. cit., p. 84.

[141] Lettera A Monaldo Leopardi, Recanati (Recanati: senza data, ma fine di Luglio 1819), in G. Leopardi, La vita e le lettere, cit., p. 123. Cfr. M. Ricciardi, Leopardi e il modello eroico: primi attraversamenti critici, in  Leopardi e il mondo antico, pp. 521-528, cit., pp. 522-523: «La lettera al padre è la testimonianza più drammatica di questo conflitto e racchiude in modo esemplare tutti questi motivi: la scoperta nella famiglia di un’opposizione incredibile al desiderio di “gloria” del giovane, il peso frenante degli interessi economici che impediscono l’affrancamento e la liberazione dei figli dalla famiglia stessa, la necessità di un’azione esemplare che sia al tempo stesso segno di indipendenza e ingresso nella società civile; il fallimento di questa azione».

[142] G. Leopardi, Bruto minore, vv. 61-64, in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di M. Fubini, cit., p. 77. Commenta così Fubini in nota: «Non già innocenti, bensì ignare di che sia colpa, di quel concetto di colpa che turba la coscienza degli uomini persino nel momento in cui essi vogliono liberarsi della vita intollerabile».

[143] F.A. Camilletti e M. Piperno, op. cit., p. 266. Si veda anche quanto illustrato da Luporini in C. Luporini, Decifrare Leopardi, Napoli, Macchiaroli, 1998, pp. 273-274: «La contrapposizione è cruda, senza mediazione, nonostante che Leopardi abbia sempre sottolineato gli elementi di continuità fra animale e uomo […]. Ciò che li divide è la facoltà (acquisita) dell’uomo di darsi morte volontaria. In verità, più sottilmente e nascostamente, vi è un altro punto di divisione e contrapposizione, il senso della colpa

[144] P. Citati, op. cit., p. 86.

[145] Introduzione di N. Naldini in G. Leopardi, La vita e le lettere, cit., p. XXXIX.

[146] B. Biral, op. cit., p. 65.

[147] Z 271, 2 in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova edizione tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., pp. 178-179. Datato 11 Ottobre 1820. Cfr. A un vincitore nel pallone, vv. 60-65, in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di M. Fubini, cit., p. 71: «Nostra vita a che val? solo a spregiarla: / Beata allor che ne’ perigli avvolta, / Se stessa obblia, nè delle putri e lente / Ore il danno misura e il flutto ascolta; / Beata allor che il piede / Spinto al varco leteo, più grata riede». Spiega Fubini in nota che il vincitore «è ormai trasfigurato in un mitico eroe, simile ad un Ercole o ad un Teseo trionfatori dell’Inferno e della morte».

[148] R. Damiani, op. cit., p. 169: «Lo psicodramma della fuga inscenava la “mutazione totale”, che Leopardi, per sua ammissione, viveva nel corso del 1819. La “conversione filosofica”, successiva a quella letteraria che lo aveva trasformato da erudito in poeta, era provocata da un ulteriore sprofondamento nelle tenebre, rese palpabili dai disturbi alla vista, e da uno stato permanente di abbandono a se stesso, che lo portava a divenir “filosofo di professione”».

[149] Introduzione di F. Brioschi in G. Leopardi, Canti, introduzione e note di F. Brioschi, Milano, Rizzoli, 1995, p. 12.

[150] B. Croce, op. cit., pp. 106-107.

[151] P. Citati, op. cit., p. 83.

[152] Ibidem: «Forse pensava che, da quella follia, avrebbe potuto rinascere, per lui, una nuova vita: chissà quale, chissà dove. O pensava a sé stesso come a un vagabondo romantico, mendicante e con l’arpa in mano come Agostino nei Wilhelm Mesiters Lehrjahre di Goethe. In realtà, sapeva di cercare la morte». 173 Lettera A Pietro Giordani, Milano (Recanati 20 Agosto 1819), in G. Leopardi, La vita e le lettere, cit., p. 132. Corsivo mio.

[153] B. Biral, op. cit., p. 63.

[154] Cfr. R. Damiani, op. cit., p. 170: «L’Infinito, cui si addice la data del settembre 1819, è una percezione dell’abisso dello spazio e del tempo, un naufragio “dolce” come l’istante della morte nel mare dell’essere: soddisfa poeticamente il desiderio di un altrove e della vastità del visibile, che in un senso relativo esprimevano le mire di evadere dalla famiglia e la lontananza coatta dai libri».

[155] P. Citati, op. cit., p. 93.

[156] Ivi, p. 94.

[157] Cfr. Z 112,3, in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova edizione tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., p. 133: «La pazienza è la più eroica delle virtù proprio perché non ha nessuna apparenza d’eroico». In nota, la curatrice dell’edizione riporta che «la Pazienza è vista come una virtù eroica. Il fatto, messo in rilievo da Leopardi, che essa non possegga alcuna delle caratteristiche che connotano l’essere umano, richiama il continuo atto di volontà che caratterizza chi pratica questa virtù […]. L’aforisma è scritto fra il 30 aprile e il 31 maggio 1820».

[158] R. Damiani, op. cit., p. 166.

[159] Ibidem.

[160] Lettera A Pietro Giordani, Piacenza (Recanati 17 Decembre 1819), in G. Leopardi, La vita e le lettere, cit., p. 137.

[161] Introduzione di F. Brioschi in G. Leopardi, Canti, introduzione e note di F. Brioschi, cit., p. 11.

[162] Entrambe le citazioni sono prese da M. Marcazzan, op. cit., p. 220. 

[163] Ivi, p. 221.

[164] B. Biral, op. cit., p. 75.

[165] Cfr. ivi, p. 74 e ibidem: «Spregiudicata e inesorabile è la condanna ai principi etici cristiani quando siano assunti dagli individui come unica norma di vita: in questi casi la religione ha un mostruoso potere deformante; come capita a quella madre, quasi sicuramente Adelaide Antici, la quale considera la bellezza corporale come una calamità e ringrazia Dio di averle donato figli brutti o deformi: contenta di tutte le disavventure che possono avvilire e far soffrire, se servono alla salute dell’anima».

[166] Ibidem.

[167] Z II, 201, 1, in G. Leopardi, Zibaldone scelto, in G. Leopardi, Opere vol. III, cit., pp. 287-288. 

[168] Lettera A Luigi De Sinner, Parigi (Firenze 24 Maggio 1832), in G. Leopardi, La vita e le lettere, cit., pp. 514-515. Cfr. C. Luporini, op. cit., p. 252: «D’altra parte è cruciale che, all’unisono con De Sinner, il discorso di Leopardi sia come appeso a una questione di fondo, quella religiosa, e che così nettamente egli respinga l’attribuzione ai suoi scritti di “una tendenza religiosa”. […] Tali dunque sono le premesse di carattere personale e insieme di pensiero, prive, ripeto, di riferimenti propriamente letterari. Proprio per questo sorprende che, come risposta al recensore tedesco e soprattutto come chiarimento al De Sinner, Leopardi si appoggi alla canzone Bruto minore di dieci anni prima».

[169] B. Biral, op. cit., p. 74. Continua: «Il pessimismo storico, che portava il Leopardi ad esaltare la vita attiva e mondana degli antichi, lo obbligava a svalutare il cristianesimo che aveva imposto all’uomo le virtù dell’umiltà, della rassegnazione».

[170] M. Ricciardi, op. cit., p. 526. 194 B. Biral, op. cit., p. 79.

[171] R. Damiani, op. cit., p. 174. 196 U. Dotti, op. cit., pp. 51-52.

[172] Cfr. ibidem: «Il momento centrale e in certo modo conclusivo, o provvisoriamente conclusivo, della meditazione del “giovane Leopardi” – del suo “orribile fanatismo” – è sicuramente rappresentato dalla canzone Bruto minore, “opera di 20 giorni” messa in carta nel dicembre 1821». 198 M. Marcazzan, op. cit., p. 229. 

[173] P. Citati, op. cit., p. 194.

[174] F. Bianconi, N. Contessa (I Cani Baustelle), Nabucodonosor, 42 Records, distribuito da Sony Music Entertainment Italy S.p.A., 2024. 

[175] Ci si potrebbe chiedere, alla stregua di quanto ha fatto in maniera retorica Luporini per introdurre la sua analisi sull’omologia Leopardi-Bruto a seguito del commento alla lettera a De Sinner: «Che rapporto sussisteva fra Leopardi (la sua morale) e il contenuto di quel testo? Questo rapporto in che misura è intrinseco al personaggio rappresentato nella sua canzone? Una figura storica, non può dimenticarsi, che è stata così significativa e discussa nella cultura morale e politica dal Rinascimento al giacobinismo. Perché e come Leopardi se ne era appropriato? Fino al punto da attribuirgli un’importanza personale permanente per lui?», in C. Luporini, op. cit., p. 253.

[176] Ivi, p. 261.

[177] P. Citati, op cit., pp. 194-195: «Per Plutarco, Bruto era l’incarnazione della virtus romana […]. Quanto a Shakespeare, nel Giulio Cesare fece di Bruto una specie di fratello di Amleto: ammalato di passioni discordi, di pensieri insoliti, di fantasie, di fantasmi, e di cure che gli toglievano “la dolce e grave rugiada del sonno”. […] Rispetto alle fonti, il personaggio di Bruto viene trasformato, non ci sono più Plutarco, né Floro, né Cassio Dione, né Shakespeare». 

[178] Ibidem.

[179] C. Luporini, op. cit., p. 277: «Leopardi non intende fargli perdere la sua circostanziatezza storica, ancorché sublimata fantasticamente, perché questa storicità è ingrediente essenziale del dramma di Bruto, così come accadeva nel teatro tragico ad argomento storico, di cui anche la distanziazione temporale rispetto a noi è elemento caratterizzante».

[180] B. Biral, op. cit., p. 84: «Il Leopardi, che nel 1819 aveva abbozzato il disegno di alcuni Inni cristiani, si trova ora alleato di Bruto nel rifiuto dell’intima ingiustizia delle vicende umane. L’immedesimazione con Bruto gli infonde risolutezza, ed insieme all’eroe è convinto che la divinità, se pur esiste, non è affatto giusta e provvidente».

[181] U. Dotti, op. cit., p. 53.

[182] Entrambe le citazioni sono prese da M. Ricciardi, op. cit., p. 523: «Occorre però non sviluppare questo campo di esperienza sotto il segno di una fase autobiografica particolare da cui derivino poi i temi della protesta e del pessimismo del Leopardi; […] ma legarli dialetticamente a modelli di esperienza, di comportamento a cui il Leopardi tende a assimilarsi e ai tentativi artistici, alle prove di questo periodo. Per il primo campo occorre sottolineare il valore storico, il nesso diretto tra esperienza individuale e assimilazione di modelli culturali, mediati essenzialmente, quasi unicamente, attraverso la lettura nella biblioteca paterna […]. Sono qui presenti, in modo assai originale, e motivi della tradizione classica (la gloria, la fama) e temi romantici in particolare conosciuti e fatti propri attraverso la lettura dell’Alfieri (che per il giovane Leopardi è esperienza fondamentale e poetica di vita. Due temi che caratterizzano proprio un’esperienza storica se pensiamo alla forza di mutamento sociale, di cambiamento nel sistema di valori vissuto che ha la tensione alla gloria […] e alla carica insieme di ribellione e di conoscenza nuova, di modo di conoscere che ha l’istanza alfieriana di apprendere attraverso un percorso materiale […] una conoscenza e una cultura che abbisogna assolutamente di partecipazione alla società civile e di azione, di movimento tra gli uomini».

[183] Z I, 234, 1 in G. Leopardi, Zibaldone scelto, in G. Leopardi, Opere vol. III, cit., p. 111.

[184] Lettera A Pietro Giordani, Piacenza (Recanati 24 aprile 1820), in G. Leopardi, La vita e le lettere, cit., p. 156. Corsivi miei.

[185] M. Ricciardi, op. cit., p. 526.

[186] C. Luporini, op. cit., p. 277.

[187] C. Luporini, Leopardi progressivo. Il pensiero di Leopardi. L’officina dello Zibaldone. Naufragio senza spettatore [1980], Roma, Editori Riuniti, 1996, p. 109: «C’è una certa baldanzosità giovanile, direi, in quel suo atteggiamento (essa si esprime anche nel sostenere, in quei suoi privati pensieri, di aver riscoperto per conto proprio alcune delle idee fondamentali della filosofia moderna, che egli peraltro conosceva per lo più indirettamente e talvolta un po’ convenzionalmente), ma anche un elemento di autenticità».

[188] G. Leopardi, Bruto minore, vv. 31-35, in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di M. Fubini, cit., p. 75. Si veda quanto riporta Fubini in nota: «Questo atteggiamento titanico si attenuerà negli anni

[189] Ivi, p. 199.

[190] B. Zandrino, op. cit., p. 651-652: «La rivoluzione francese ha generato con Napoleone anche l’“eccesso”, “l’esemplare della forse ultima perfezione del dispotismo”, e nel presente i “nuovi progressi”, le “nuove radici” del potere assoluto “per l’egoismo naturale dell’uomo, e conseguentemente del principe”, per il fallimento dell’accordo generale tra i capi di Stato al Congresso di Vienna e per l’oppressione dei principi restauranti; ora, dopo il tentativo di ribellione e la sconfitta dei moti del ’20 e del ’21 (e la prova precedente nel maceratese del ’17) che, sommate all’esperienza negativa del ’31, si farà sentire ancora nei Paralipomeni, tutto pare perduto».

[191] Entrambe le citazioni sono prese da U. Dotti, op. cit., p. 69.

[192] W. Binni, La protesta di Leopardi, cit., p. 42.

[193] Entrambe le citazioni sono prese da C. Luporini, Leopardi progressivo, cit., p. 69.

[194] Ivi, p. 55.

[195] C. Luporini, Decifrare Leopardi, cit., p. 262.

[196] W. Binni, La protesta di Leopardi, cit., pp. 41-42: «Quella ragione ora così duramente attaccata era soprattutto (come ha ben visto il Luporini) una “ragione storica”, una particolare forma di ragione-raison, un proliferante cancro di razionalismo insensibile e mediocre, scettico e preclusivo di entusiasmo, di vitalità piena, di piacere e di felicità sensisticamente intesi […]. Il Leopardi estendeva a ritroso la sua polemica contro l’epoca “moderna” in cui la raison, artificiosa e depauperante, aveva preso il sopravvento sulla natura».

[197] Z III, 226, 1 in G. Leopardi, Zibaldone scelto, in G. Leopardi, Opere vol. III, cit., p. 362. Datato 23 agosto 1821.

[198] Z II, 297 in ivi, p. 307. Datato 19 aprile 1821.

[199] Z I, 107 in ivi, p. 25. 

[200] G. Leopardi, Zibaldone scelto, in G. Leopardi, Opere vol. III, cit., pp. 210-211.

[201] Z 183, 3 in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova edizione tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., p. 20. Datato 23 Luglio 1820.

[202] C. Luporini, Leopardi progressivo, cit., p. 13. 230 Ivi, p. 83.

[203] Cfr. ibidem: «Questo motivo non sparisce mai in Leopardi (la delusione storica è fondamentale), ma si integra e si risolve nell’ulteriore svolgimento del suo pessimismo, quando il nemico numero uno diventa l’indifferente natura. In verità l’autentico nemico del moralista Leopardi (cioè dal punto di vista del valore) è l’indifferenza, sia l’indifferenza dell’egoista verso la società, sia l’indifferenza della natura verso gli uomini: quell’indifferenza che sembra esser stata sempre lo spettro angosciante di tutti i grandi spiriti italiani, da Dante a Machiavelli a Parini a Alfieri a Foscolo, quell’indifferenza che costituiva per Leopardi il male più intimo dei costumi degli italiani. La continuità fra i due momenti, quello della storia e quello della natura, è espressa, nella poesia leopardiana, dall’immagine del fato, contro cui appunto si erge l’ideale eroico. Solo l’eroismo vince il fato, l’“acerbo fato”, il “fato ignaro”, la sua indifferenza, la sua ostilità».

[204] F.A. Camilletti e M. Piperno, op. cit., p. 265.

[205] Entrambe le citazioni sono prese da C. Luporini, Decifrare Leopardi, cit., p. 263: «Per capire quanto di innovativo e di diverso Leopardi porti nell’interpretazione di questo Bruto (e quanto di afferente all’antico, e quanto al moderno) è necessario rifarsi a una tradizione culturale che al tempo di Leopardi era ancora, comunque, presente e viva».

[206] L. Braccesi, Leopardi, Bruto e l’«inclinatio imperii», in M.A. Rigoni, a cura di, Leopardi e l’età romantica, Venezia, Marsilio, 1999, p. 159: «L’inclinatio imperii indica, da Flavio Biondo in poi, il processo di decadenza e di caduta dell’impero di Roma. Nella lirica italiana grandiosa e superba è la scena di inclinatio offertaci dal Leopardi in apertura del Bruto minore (vv. 1-15)».

[207] Z I, 481, 3, in G. Leopardi, Zibaldone scelto, in G. Leopardi, Opere vol. III, cit., p. 223. Datato 23 dicembre 1820.

[208] L. Braccesi, op. cit., p. 171.

[209] Ivi, p. 160.

[210] Ibidem. Cfr. Z 3107, 1 in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova edizione tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., p. 80: «Altra proprietà dell’uomo si è che laddove la superiorità; laddove la virtù congiunta colla fortuna non produce se non un interesse debole, cioè l’ammirazione; per lo contrario la

[211] L. Braccesi, op. cit., p. 163.

[212] Cfr. M. Marcazzan, op. cit., pp. 261-262: «“Fintantoché mi sono stimato sono stato più cauto; ora che mi disprezzo non trovo altro conforto che di gittarmi alla ventura, a cercar pericoli, come cosa di niun valore”. Parole oscure, scritte verso la fine del Luglio del 19 al fratello Carlo, quand’era sul punto di gettarsi davvero nella grande avventura che doveva abortire miseramente. C’è fra quelle parole e la situazione idealizzata nel Bruto un lontano nesso, un remoto parallelismo. L’anima del Leopardi è sempre prigioniera di quel nodo di cui aveva disperatamente cercato di sciogliersi. La prigione gli si è configurata diversamente, ha preso forma da una espansione fantastica, il distacco non sarà più dalle persone o dalle cose che avevano costituito la cerchia dei suoi combattuti e turbati affetti, o da una disciplina volta a volta accettata o subita, in cui era venuta educandosi la sua vita morale, o da un mondo di sogni a cui dava ala e respiro, come agli interminati spazi e ai sovrumani silenzi, l’angoscia al limite del quotidiano».

[213] Ibidem, p. 262.

[214] Ivi, p. 290: «Ciò che nel Leopardi rimane di questa esperienza avventurosa è appunto il senso di qualche cosa che finisce irrevocabilmente con Bruto, la chiara consapevolezza che il momento procellosamente gravatosi di tanti contraddittori significati segna un displuvio ideale nel corso della sua esistenza, al modo stesso che si è posto come displuvio ideale tra due epoche storiche. Il Vossler ha espresso come meglio non si poteva questa verità: “Egli sta sulla soglia: all’uscita dell’epoca che il Leopardi chiama poetica e all’ingresso della prosastica”. Tutti gli altri significati del Bruto hanno, di fronte a questa verità, alcunché di precario, di caduco, di occasionale». 

[215] Entrambe le citazioni sono prese da C. Luporini, Decifrare Leopardi, cit., p. 277.

[216] Z 618,2, in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova edizione tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., p. 144. Datato 6 Febbraio 1821.

[217] M. Marcazzan, op. cit., p. 264.

[218] Z 66,1, in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova edizione tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., p. 874. Senza data.

[219] Z 82,2, in ivi, p. 876. Senza data. Leopardi non è l’unico autore a raccontare nelle sue memorie di un giovanile tentativo di uccidersi. Con spirito opposto, ma forse sempre a causa della noia e dell’umor malinconico, anche l’Alfieri riporta, nella sua Vita, un episodio durante il quale, da bambino, tentò il suicidio mangiando fasci d’erba del suo giardino presi per cicuta: «Io avea sentito dire non so da chi, né come, né quando, che v’era un’erba detta cicuta che avvelenava e faceva morire; io non avea mai fatto pensiero di voler morire, e poco sapea quel che il morire si fosse; eppure seguendo così un non so quale istinto naturale misto di un dolore di cui m’era ignota la fonte, mi spinsi avidissimamente a mangiar di quell’erba, figurandomi che in essa vi dovesse anco essere della cicuta», in V. Alfieri, Vita, a cura di M.

Cerruti [1987], Milano, Rizzoli, 2018, p. 57.

[220] Entrambe le citazioni sono prese da M. Marcazzan, op. cit., p. 199.

[221] Cfr. F. De Sanctis, Leopardi, a cura di C. Muscetta e A. Perna [1960], Torino, Einaudi, 1983, p. 187: «Quello che fa dire a Bruto, non dee solo sembrar vero in bocca a Bruto, ma dee essere il vero. Opinioni che possono sembrare naturali esagerazioni di un suicida, sono le opinioni sue, il vero come l’intende lui, rivelato da una suprema infelicità a Bruto, perché l’infelicità è rivelatrice. Poteva dunque ben dire: – Nel Bruto c’è tutto il mio pensiero».

[222] Entrambe le citazioni sono prese da C. Luporini, Decifrare Leopardi, cit. p. 277.

[223] L. Battisti, P. Panella, Hegel, in Hegel, Numero Uno, 1994.

[224] G. Leopardi, Ultimo canto di Saffo, vv. 6-7, in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di M. Fubini, cit., p. 98: «già non arride / spettacol molle ai disperati affetti».

[225] A. Vigorelli, op. cit., p. 58.

[226] Cfr. A. Ferraris, Alfieri e Leopardi: i regni della poesia, in «Italianistica: Rivista di letteratura italiana», Vol. 22, No. 1/3 (Gennaio/Dicembre 1993), pp. 21-27, p. 23: «La voce antica della natura che parla ancora al Bruto di Alfieri, ispirandogli la sublimità del tirannicidio, tace invece per il leopardiano Bruto minore (1821). L’epilogo della sua storia (quella di Roma repubblicana) non ammette né interlocutori né spettatori: è oggetto di un canto che si sa esso stesso mortale (“E l’aura il nome e la memoria accoglia”), partecipe del disinganno scaturito dalla scoperta dell’ordine ‘altro’ delle cose».

[227] Z 3102, in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova edizione tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., p. 797.

[228] A. Vigorelli, op. cit., pp. 97-98: «Una conferma di tale ipotesi metafisica, è data dal carattere instabile di tale risoluzione virtuosa, pur sempre soggetta, nel piano fenomenico, alla forza motivante delle passioni egoistiche».

[229] F. Cacciapuoti, L’Infinito e La Ginestra. Leopardi tra disincanto e illusione, Roma, Donzelli, 2021, p. 108: «L’Iliade costituisce infatti una delle sue letture d’infanzia, quella da cui l’immaginazione traeva nutrimento, quando la storia e i personaggi diventavano parte dell’infanzia stessa, figure fantastiche e familiari nello stesso tempo, e per questo indimenticabili».

[230] Cfr. S. Cro, La morte dell’eroe nel giovane Leopardi: classicismo e risorgimento, in «Italica», Vol. 64, No. 2, 1987, pp. 223-243, p. 224: «Neuro Bonifazi ha avanzato una tesi suggestiva, facendo uso del metodo psicanalitico, per spiegare come alla matrice della poesia di Leopardi ci sia un’impressione infantile che lo stesso Leopardi ha documentato nella prima prosa dello Zibaldone e che Bonifazi definisce come l’immagine della “camera oscura”. Diciamo dunque […] che in questi ultimi trent’anni la critica leopardiana ha studiato con grande attenzione gli scritti “puerili”, e ha rintracciato in questi scritti dei motivi, o stilemi o perfino atteggiamenti psicologici di grande importanza per il poeta maturo». Si veda dunque, di rimando, il capitolo Un’immagine antica: la «camera oscura», in N. Bonifazi, Lingua mortale. Genesi della poesia leopardiana, Ravenna, Longo Editore, 1984, pp. 97-117.

[231] S. Cro, op. cit., p. 229.

[232] G. Leopardi, La morte di Ettore, in G. Leopardi, Poesie e prose vol. II, cit., p. 691. 11 F. Cacciapuoti, op. cit., p. 108.

[233] Z 3113-14 in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova edizione tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., pp. 800-801. Cfr. F. Cacciapuoti, op. cit., p. 112 (in nota): «Palese è la polemica con Melchiorre Cesarotti, che aveva intitolato La morte di Ettore la sua versione dell’Iliade, rivelando così l’incomprensione della necessità del doppio eroe nel poema omerico e negando l’importanza di Achille, difficilmente valutato dai lettori e dai critici moderni, catturati dalla sventura e dalla virtù di Ettore». 13 Ivi, pp. 110-111: «Omero e i suoi eroi rientrano così in un discorso ampio, quello delle due “Teoriche”, in cui si tratta soprattutto dei generi letterari: Leopardi riflette sull’epopea e sulle cosiddette regole del poema epico, ne esamina l’impatto sui lettori; comincia il suo discorso da Omero e giunge fino a Tasso. Nello stesso tempo, però, le ampie digressioni sulla compassione, scelta da Omero come tramite di amore per l’eroe virtuoso e sventurato, ricollegano il testo letterario ed estetico delle due “Teoriche” a quello in cui l’autore analizza le passioni umane, individuando nel loro incessante movimento l’essenza nascosta del comportamento sociale, mentre i campi semantici, connotati dal porsi del soggetto di fronte alla lettura delle gesta eroiche, rinviano alla sfera più profonda e privata del vissuto interiore del poeta».

[234] Z 3159-3160 in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova edizione tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., p. 813. Corsivi miei. A conclusione di questo passo si avverte la netta concezione di uno stato di perenne infelicità tipica dell’uomo maturata negli anni da Leopardi, che sarà una delle tematiche centrali esposte nella retorica delle Operette morali, prima fra tutte la Storia del genere umano (1824). 

[235] Entrambe le citazioni sono prese da F. D’Intino, L’amore indicibile. Eros e morte sacrificale nei Canti di Leopardi, Venezia, Marsilio, 2021, p. 27.

[236] F. Cacciapuoti, op. cit., p. 112. A p. 119 conclude il concetto spiegando che «a fronte di un amor patrio inesistente, nel moderno l’unico modo per mantenere l’interesse per il poema epico è la sventura, o, meglio ancora, la virtù sventurata. La necessità del doppio eroe è così ribadita, in quanto Ettore suscita compassione, poiché attrae il soggetto moderno che fa di questo sentimento un elemento centrale del proprio autocompiacimento».

[237] Z 3111-3112 in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova edizione tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., p. 800.

[238] F. D’Intino, op. cit., p. 28.

[239] F. D’Intino, op. cit., p. 27.

[240] Entrambe le citazioni sono prese da U. Bosco, Titanismo e pietà in Giacomo Leopardi e altri studi leopardiani, Roma, Bonacci, 1980, p. 34. A tal proposito, nel suo studio riporta parti del brano dello Zibaldone da cui ha tratto i termini del binomio: «Dei nostri sommi poeti, due sono stati sfortunatissimi. Dante e il Tasso. Di ambedue abbiamo e visitiamo i sepolcri: fuori delle patrie loro ambedue. Ma io, che ho pianto sopra quello del Tasso, non ho sentito alcun moto di tenerezza a quello di Dante: e così credo che avvenga generalmente. E nondimeno non mancava in me, né manca negli altri, un’altissima stima, anzi ammirazione, verso Dante; maggiore forse (e ragionevolmente) che verso l’altro. Di più le sventure di quello furono senza dubbio reali e grandi; di questo appena siamo certi che non fossero, almeno in gran parte, immaginarie […]. Ma noi veggiamo in Dante un uomo d’animo forte, d’animo bastante a reggere e sostenere la mala fortuna; oltracciò un uomo che contrasta e combatte con essa, colla necessità, col fato. Tanto più ammirabile certo, ma tanto meno amabile e commiserabile. Nel Tasso veggiamo uno che è vinto dalla sua miseria, soccombente, atterrato, che ha ceduto all’avversità, che soffre continuamente e patisce oltre modo. Sieno ancora immaginarie e vane del tutto le sue calamità, la infelicità sua certamente è reale. Anzi senza fallo, se ben sia meno sfortunato di Dante, egli è molto più infelice (Recanati. 14. Marzo. 1827)», Z 4255,6 in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova edizione tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., pp. 116-117. Corsivi miei.

[241] Z 3112-15, in ivi, pp. 800-801.

[242] Z 164, 1 in ivi, p. 11. Datato 11 luglio 1820. Si veda anche Z 3117, 1 in ivi, pp. 85-86: «Come la stima, così la compassione verso il nimico, ancorché vinto e virtuoso era impropria di quei tempi. […] Gli animi naturali non provano nella vittoria altro piacere che quello della vendetta. La compassione, anche generalmente parlando (cioè quella ancora che cade sulle persone non inimiche) nasce bensì […] dall’egoismo, ed è un piacere, ma non già propria né degli animali né degli uomini in natura, né anche, se non di rado e scarsamente, degli animi ancora quasi incolti (quali erano i più a’ tempi eroici). Questo piacere ha bisogno di una delicatezza e mobilità di sentimento o facoltà sensitiva, di una raffinatezza e pieghevolezza di egoismo, per cui egli possa come un serpente ripiegarsi fino ad applicarsi ad altri oggetti e persuadersi che tutta la sua azione sia rivolta sopra di loro, benché realmente essa riverberi tutta ed operi in se stesso e a fine di se stesso, cioè nell’individuo che compatisce. Quindi è che anche nei tempi moderni e civili la compassione non è propria se non degli animi colti e dei naturalmente delicati e sensibili, cioè fini e vivi. Nelle campagne dove gli uomini sono pur meno corrotti che nelle città, rara, e poco intima e viva, e di poca efficacia e durata è la compassione (5-11. Agosto 1823)».  24 F. Cacciapuoti, op. cit., pp. 115-116. 

[243] Cfr. F. Cacciapuoti, op. cit., p. 116: «Il piacere delle lacrime, quello che Leopardi conosce sulla tomba di Tasso, è proprio del moderno, ed è legato al grado di raffinatezza della sensibilità, direttamente proporzionale al progredire della civiltà, la cui opposizione con la natura si riflette anche sull’espressione poetica».

[244] Cfr. F. Spera, Le parabole della storia e le forme del sublime tra Alfieri e Leopardi, in La letteratura e la storia. Atti del IX Congresso Nazionale dell’ADI (Bologna-Rimini, 21-24 settembre 2005), a cura di E. Menetti e C. Varotti. Prefazione di G.M. Anselmi, Bologna, Gedit, 2007, vol. 1, pp. 229-249, p. 228: in riferimento al Saul dell’Alfieri, Spera esprime parole che risultano adatte anche per Bruto: «L’eroe tragico non può che parlare alla spada, lo strumento per eccellenza dell’azione, che permette di attuare il progetto di lotta contro il male e quindi la realizzazione di sé».

[245] U. Bosco, op. cit., p. 37: «Per questo il Tasso è più “amabile”, cioè, in sostanza, più leopardianamente “poetabile” di Dante».

[246] Cfr. Inferno XXVI, vv. 97-99: «l’ardore / ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto / e de li vizi umani e del valore». Al contrario di Bruto, l’Ulisse di Dante raccoglie in sé molteplici aspetti dell’eroe, dalla prudenza al coraggio all’intelligenza all’ardore. Ma se questi era divenuto esperto dei vizi e virtù propri dell’uomo, Bruto è, dall’altra parte, inesperto nella sua battaglia contro il fato, contro cui non vorrebbe cedere.

[247] G. Leopardi, Bruto minore, vv. 38-45, in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di M. Fubini, pp. 75-76.

[248] Cfr. note di Fubini riguardo al v. 40: «Per la costruzione grammaticale il L. cita in una nota marginale

Dante, Purg., I, 132: “uom che di ritornar sia poscia esperto”. Ma per l’espressione cfr. Orazio, (Carm., I, 6, 6): “Pelidae… cedere nescii”», in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di M. Fubini, cit., p. 75. 32 Ibidem, nota di M. Fubini. 

[249] Cfr. V. Alfieri, Bruto secondo (IV, 4), v. 237, in V. Alfieri, Tragedie, introduzione e note di B. Maier [1989], Milano, Garzanti, 2010, p. 606.

[250] F Spera, op. cit., p. 247.

[251] Introduzione di U. Dotti in G. Leopardi, Canti, a cura di U. Dotti, cit., p. 31: «Non certo per “spiriti grandi e forti” i quali, come Bruto o i “sette a Tebe di Eschilo”, ebbero a cuore, nel tragico inganno della vita, di fare “guerra feroce e mortale al destino” che li aveva condannati, dopo averli dotati di un alto sentire, a esibirsi su un palcoscenico nudo e in un teatro vuoto».

[252] Ivi, p. 108: «Morte di chi? non ha importanza. L’una morte vale l’altra. Il suo male, i motivi del suo pianto poetico, del suo lutto, sono, nei Canti, diversi. La prima a piangere è l’Italia per la morte in estranee contrade […]; poi, dopo gli eroi antichi e i grandi della patria, muoiono le eroine, Virginia, Saffo, e poi Bruto, e poi le ninfe, e miti, la stessa santa natura, i fiori e l’erbe della primavera e delle favole antiche, la prima donna amata e riapparsa in sogno dopo morta, le fanciulle condannate dal male o sedotte e uccise, le donne morte e raffigurate in bassorilievi e ritratti, e poi quelle che cantavano piene di speranza e hanno nomi ancora arcadici come Silvia, Nerina, e anche Aspasia è morta, almeno moralmente, e poi altri uomini, come Consalvo, o l’Uomo che finisce in un abisso orrido e immenso, o la “gente morta” o gli “spenti” di Amore e morte o gli abitanti della campagna vesuviana, sommersi, e i popolati seggi, i regni che cadono, le genti e i linguaggi che passano, e persino il sole che tramonta e la luna che precipita». 

[253] Entrambe le citazioni sono prese da S. Cro, op. cit., p. 227: l’autore fa riferimento alla nota conversione del recanatese “dall’erudizione al bello”: «L’adesione al classicismo si verifica in Leopardi nel momento decisivo in cui lo “studio matto e disperatissimo” si trasforma da lettera morta ed erudizione in sorgente di poesia». 

[254] Z III, 133,2, in G. Leopardi, Zibaldone scelto, in G. Leopardi, Opere vol. III, cit., p. 337: «Cosí a scuotere la mia povera patria e secolo, io mi troverò avere impiegato le armi dell’affetto e dell’entusiasmo e

[255] N. Bonifazi, op. cit., p. 101: «La familiarità dei luoghi è diventata ostile dal tempo in cui, finita la fanciullezza coi suoi giuochi e le sue illusioni, l’adolescente poeta si è ribellato chiudendosi in se stesso, nel suo studio matto e disperatissimo».

[256] Entrambe le citazioni sono prese da F. Cacciapuoti, op. cit., p. 114-115: «Una virtù immensa, esattamente, come speculare a quella di Achille. Ettore è dotato di coraggio, di magnanimità come Achille, ma poi ha altre qualità che lo rendono più vicino alla nostra sensibilità: “somma pietà verso gli Dei, verso la patria, verso i parenti, somma affabilità, giovanezza, e viril bellezza sopra ogni altra […] di più accortezza e destrezza nel maneggio della guerra e nel governo delle battaglie, vigilanza, provvidenza, cura degli amici, pazienza delle fatiche (Zib. 3112)”».

[257] A. Dolfi, Lo stoicismo greco-romano e la filosofia pratica di Leopardi, pp. 397-427, in Leopardi e il mondo antico, pp. 397-427, cit., p. 398: «Per Leopardi il giovane è per natura portato all’estremizzazione dei sentimenti e delle passioni, all’infelicità non sa vedere altra conclusione che la morte, ogni consolazione gli si vieta, visto che nient’altro può sentire che “profondamente e ostinatamente il suo male”».

[258] N. Bonifazi, op. cit., p. 101.

[259] Entrambe le citazioni sono contenute in ivi, p. 104.

[260] U. Foscolo, Dei sepolcri. Carme, ed. critica a cura di G. Bianciardi e A. Cadioli [Milano, Il Muro di Tessa, 2010], Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2012, vv. 292-295, p. 18. 46 Ivi, vv. 220-221, p. 15.

[261] Ivi, vv. 97-100, p. 9 e 114-118, p. 10. In questa sezione del carme (vv. 91-150), Foscolo passa in rassegna la funzione che le tombe hanno avuto dacché l’uomo ha iniziato a nutrire un senso di profondo rispetto per i morti, organizzando in forme sempre diverse i luoghi e i templi adibiti ad accogliere le salme degli avi.   48 Ivi, vv. 41-50, p. 7. Cfr. R. Rea, Bruto e la sovversione dell’ideologia dei «Sepolcri», in «Italianistica: Rivista di letteratura italiana», Vol. 28, No. 3, settembre/dicembre 1999, pp. 427-439, p. 428: «Ci si vuole domandare se Leopardi costruisca intenzionalmente l’ultima strofa del Bruto in funzione esplicitamente antifoscoliana, oppure se le coincidenze semantiche e linguistiche con i Sepolcri siano solamente sporadici “accenti involontari”, come aveva affermato Bigongiari, dovuti magari ad un pur comune sostrato culturale e linguistico, e di conseguenza la polemica contro il classicismo di Foscolo sarebbe stato un riflesso secondario delle parole di Bruto». Dopo aver portato avanti la sua analisi, però, a fine saggio conclude affermando che «le relazioni intertestuali fra il Bruto ed i Sepolcri [sono] classificabili come vere e proprie “allusioni”, e [sono] quindi da considerare diverse da quelle “reminiscenze” ed “imitazioni” che invece “possono essere consapevoli” o che “il poeta può desiderare che sfuggano al pubblico”». 49 G. Barberi Squarotti, op. cit., p. 230.

[262] G. Leopardi, Bruto minore, vv. 106-120, in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di M. Fubini, cit., p. 79.

[263] R. Rea, op. cit., p. 434: «Nell’ultimo verso del Bruto ogni parola ha il suo preciso referente nel carme foscoliano. Quello che interessa non è naturalmente la semplice coincidenza lessicale – si tratta di vocaboli assai comuni – bensì il fatto che ognuno degli ultima verba pronunciati da Bruto è stato adoperato da Foscolo in un contesto semantico il cui senso risulta perfettamente opposto a quello leopardiano».

[264] Ivi, p. 432: «Inoltre, l’ultimo verso del Bruto richiama ancora una volta, sempre a mo’ di negazione, i Sepolcri, in cui ai vv. 116-118 e vv. 184-185 si legge: «Perenne verde protendean su l’urne / per memoria perenne, e preziosi / vasi accogliean le lacrime votive. […] Armi e sostanze t’invadeano ed are / e patria e, tranne la memoria, tutto».

[265] U. Foscolo, op. cit., vv. 180-185, p. 13. 

[266] R. Rea, op. cit., p. 430. Rea aggiunge: «Mi sembra lecito, infine, scorgere nelle “parole” rigettate da Bruto anche quella “parola” rivendicata da Foscolo in Sepolcri 72-75 per Parini: “A lui ombre non pose / tra le sue mura la città, lasciva / d’evirati cantori allettatrice / non pietra, non parola”».

[267] G. Barberi Squarotti, op. cit., pp. 227-228.

[268] U. Foscolo, op. cit., pp. 11-12, vv. 145-154. Corsivi miei.

[269] Cfr. R. Rea, op. cit., p. 432: «Non pare priva di implicazioni foscoliane la parola “nepoti”, che Leopardi adopera nel ripudio delle future generazioni. Sembrerebbe infatti rinviare ai “nepoti” di Sep. 261, che Cassandra “guidava” sulle tombe dei padri: “E guidava i nepoti, e l’amoroso / apprendeva lamento a’ giovinetti”».

[270] G. Barberi Squarotti, op. cit., p. 228: «Gli intellettuali […] che hanno fatto la rivoluzione si propongono come i veri eredi di Bruto: incompreso e vinto ai suoi tempi, ma ora rinnovato come modello di azione efficace contro la tirannia […]. La lezione di Bruto cadde nel vuoto, fra i contemporanei che, come scrive il Leopardi, discutevano come e quando condannare il tiranno Antonio invece di agire, e che, in ogni caso, avevano da tempo rinunciato, per egoismo, a quei valori che il Leopardi chiama illusioni e vanità, ma soltanto in rapporto con il giudizio razionalistico, nemico della natura e, di conseguenza, della felicità privata e pubblica, e che avevano retto i tempi positivi e liberi e gloriosi della repubblica romana: ma ora ha trovato i veri, autentici eredi, che ne hanno ripreso l’azione, specchiandosi, in più, nella sua lucidità di intellettuale in lotta contro il tiranno per i principî di libertà e di dignità umana».

[271] Ibidem: «[…] con l’esperienza storica del dopo, cioè della nuova sconfitta della rivolta antirannica, risoltasi nella fondazione di una nuova tirannia e nella ripresa di forza della filosofia e della ragione contro la natura che, all’inizio, la rivoluzione pareva aver resuscitato, almeno in parte, di fronte all’assoluta barbarie dell’innaturalità del regime monarchico assoluto».

[272] Entrambe le citazioni sono prese da S. Cro, op. cit., p. 234. Cfr. anche p. 235: «Nella morte dell’eroe il ragazzo intuì come il primo stadio di quella progressiva sublimazione poetica di esperienze autobiografiche

[273] Ibidem, p. 229.

[274] Z 3160-62, in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova edizione tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., p. 813. Corsivi miei. Continua: «Chè in verità qualora leggendo i poeti (versificatori o prosatori) o le storie noi ci sentiamo commuovere da quelle vere o finte calamità, e ci lasciamo andare alle lagrime, crediamo forse di piangere le miserie altrui ma più spesso e più veramente, o più intensamente piangiamo in quel med. punto le nostre proprie, o mescoliamo il pensiero di queste al pensiero di quelle, e questa mescolanza (ch’è vera e propria e debita arte, e dev’esser scopo, del poeta l’occasionarla) è principal cagione di quelle nostre lagrime. E ci accade allora (e così ne’ teatri ec.) come ad Achille piangente sul capo di Priamo il suo vecchio padre e la breve vita a se destinata ec. ec. sublimiss. e belliss. e naturaliss. quadro di Omero. Le sventure, quando sieno nazionali, o in altra maniera più particolarm. appartenenti ai lettori, interesseranno sempre più, per la maggior somiglianza e prossimità, che non è quella dello sventurato in generale, e perché sarà tanto più facile e pronto il passaggio dell’animo del lettore da quelle calamità alle sue proprie ec. Onde sarà sempre importantiss. che il soggetto del poema sia nazionale, e questi soggetti saranno sempre più preferibili agli altri, e la nazionalità conferirà moltissimo all’interesse».

[275] S. Cro, op. cit., p. 229: «Questo classicismo eroico fu sentito dall’adolescente poeta come un “alter-ego”, pregno di fermenti artistici. Il momento della conversione è quello in cui Leopardi percepisce il senso del proprio destino dando ad esso una dimensione lirica scaturita dalle antitesi eroe-morte, illusione-delusione, donna-morte, amore-morte, natura-inganno, storia-silenzio infinito, sogno-felicità terrena, età dell’orodecadenza presente. Questo motivo si svolge con regolarità graduale: dal Leopardi bambino e adolescente fino al Leopardi maturo».

[276] Ibidem.

[277] Ivi, p. 239.

[278] V. Alfieri, Bruto secondo (III, 2), vv. 322-323, in V. Alfieri, Tragedie, cit., p. 589.

[279] G. Leopardi, Letta la vita dell’Alfieri scritta da esso, vv. 2-5 e v. 15, in G. Leopardi, Opere vol. II, cit., p. 215.

[280] G. Leopardi, Ad Angelo Mai, vv. 155-170, in ibidem e ivi, p. 70. Corsivi miei. Riguardo gli ultimi due versi, si può riportare ciò che lo stesso Alfieri esprimeva con disprezzo attorno al suo tempo nel sonetto CLXXIII Tacito orror di solitaria selva, vv. 9-15: «Non ch’io gli uomini abborra, e che in me stesso / Mende non vegga, e più che in altri assai; / Nè ch’io mi creda al buon sentier più appresso: / Ma, non mi piacque il vil mio secol mai: / E dal pesante regal giogo oppresso, / Sol nei deserti tacciono i miei guai», in V. Alfieri, Rime, a cura di C. Cedrati, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2015, pp. 456-457. Nel commento, Cedrati spiega: «Nelle terzine l’autore, che per il resto modella palesemente la sua esperienza dell’isolamento nella natura come fuga dalla società su quella petrarchesca […], giustifica invece la sua esigenza di solitudine radicandola in un substrato politico-civile. Dichiarando di non essere un misantropo e, al contrario, di trovare in se stesso molti più difetti di quanti ne possa osservare negli altri, il poeta esprime il suo disgusto nei confronti del “vil suo secol” e afferma di riuscire ad alleviare il peso del potere tirannico soltanto nei luoghi disabitati dagli uomini, in sintonia con il bisogno di allontanamento dal mondo a favore di un’esistenza a contatto con la natura già espresso nei sonetti della terza lontananza». In nota, in riferimento ai versi sopracitati, Cedrati riporta: «Con reminiscenza e, al contempo, sensibile scarto rispetto a RVF CCCXXXI, v. 25: “Mai questa mortal vita a me non piacque”»; inoltre, precisa che il «buon sentier» del v. 11 è la «via delle virtù».

[281] U. Foscolo, op. cit., vv. 188-197, pp. 13-14. Corsivi miei. 

[282] V. Perdichizzi, Testi e avantesti alfieriani, Pisa-Roma, Fabrizio Serra editore, 2018, p. 89: «Tale condizione è imputabile al “tristissimo secolo di ragione e di lume”, il “secolo della mediocrità”, che non lascia spazio all’immaginazione, vale a dire il Settecento illuminista, alla cui scuola il poeta si era formato, confrontandosi però con il momento declinante, quando la fiducia nelle conquiste della ragione si era volta in amara illusione. I presupposti illuministici, che nel Leopardi sono frutto di un’educazione non più al passo coi tempi, furono invece assunti nella fase matura della loro elaborazione da Alfieri, che, senza accoglierli integralmente, vi aderì associandoli alle nuove istanze, scaturite dalla crisi della ragione».

[283] Z 2363 in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova edizione tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., p. 738 (datato 27 gennaio 1822). Cfr. V. Perdichizzi, op. cit., p. 89: «Nello Zibaldone Leopardi menziona i due predecessori – oltre che, con qualche riserva, Parini – per argomentare che “dovunque non regna il malinconico nella letteratura moderna, la sola debolezza n’è causa”».

[284] Cfr. introduzione di B. Maier in V. Alfieri, Tragedie, cit., p. XVIII: «Nazionalismo vuol dire, per il nostro autore, consapevolezza della necessità di una patria, e, in particolare, fiducia nell’avvenire dell’Italia […], e nel “popolo italiano futuro”, cui egli dedicò l’ultima delle sue tragedie, il Bruto secondo (e si noti che il pessimismo alfieriano si attenua e si placa quando il nostro autore, straniandosi idealmente dal suo tempo […] si rifugia tra le grandi e solenni ombre del passato o quando si rivolge, augurosamente, al futuro». 75 Ivi, p. XX.

[285] W. Binni, La protesta di Leopardi, p. 44. 

[286] V. Alfieri, Vita, cit., pp. 254-255: «Su l’ultimo Bruto rinnovai poi il giuramento ad Apolline più solenne ch’io non l’avessi fatto mai, e questo io son quasi certo di non l’aver più ad infrangere». Cfr. V. Perdichizzi, op. cit., p. 15: «Alfieri intende realizzare a sua volta un teatro capace di “stupire, e atterrir l’uditore” – quindi di suscitare la meraviglia oltre che il terrore – e di proporre caratteri esemplari, che incoraggino l’emulazione degli spettatori, per cui si richiede sì che siano verosimili, ma di un “verosimile colossale”, tale da rappresentare cioè una natura umana idealizzata, all’apice delle sue possibilità. Sono pertanto privilegiati i “soggetti Eroici” che si presentano alla monumentalizzazione, come nel caso del Bruto

[287] V. Perdichizzi, op. cit., p. 89. 

[288] F. Spera, op. cit., pp. 228-229.

[289] V. Alfieri, Saul (V, 5), vv. 220-225, in V. Alfieri, Tragedie, cit., p. 452. In questo caso (diversamente dal Bruto minore), si tratta di un finale tragico che ricalca gli stilemi classici del protagonista morente. 

[290] Ivi, (IV, 7), vv. 303-304, p. 439.

[291] Ivi, introduzione di B. Maier, p. XLII.

[292] Ivi, introduzione di B. Maier, p. XLIV.

[293] Ivi, introduzione di B. Maier, p. XXI: «Quella libertà che risulta quasi incompatibile con la vita e cui la realtà funge da ostacolo o da impedimento costante, viene esaltata nel momento supremo della morte o del suicidio. […] Né va dimenticato che è peculiare dell’Alfieri un alto afflato etico; ed è per questo che gli eroi alfieriani, nel loro conflitto contro i tiranni, appaiono sempre generosi e virtuosi, illuminati da un ideale sublime di giustizia e di rettitudine».

[294] Entrambe le citazioni sono prese da F. Spera, op. cit., p. 237.

[295] Ibidem.

[296] Riguardo il disdegno e il rammarico nei confronti del suo tempo, Alfieri fa esprimere al suo interlocutore e amico Francesco Gori Gandellini un giudizio quanto mai dissacrante, in apertura del dialogo La virtù sconosciuta: «Privato ed oscuro cittadino nacqui io di picciola, e non libera cittade; e, nei più morti tempi della nostra Italia vissuto, nulla vi ho fatto né tentato di grande; ignoto agli altri, ignoto quasi a me stesso, per morire io nacqui, e non vissi; e nella immensissima folla dei nati-morti non mai vissuti, già già mi ha risposto l’oblio», in V. Alfieri, Della tirannide. Del principe e delle lettere. La virtù sconosciuta, introduzione e nota bibliografica di M. Cerruti, note di E. Falcomer [1996], Milano, Rizzoli, 2010, p. 367. 

[297] A. Ferraris, op. cit., p. 23. 

[298] V. Alfieri, Bruto secondo (V, 3), vv. 254-255, in V. Alfieri, Tragedie, cit., p. 623. Precisa lo stesso Alfieri in nota: «Si muove Bruto, brandendo ferocemente la spada; il popolo tutto a furore lo segue».

[299] V. Alfieri, Bruto secondo (III, 2), vv. 308-314, in ivi, p. 588. Corsivi miei.  91 V. Alfieri, Bruto secondo (IV, I), vv. 5-6, ivi, p. 592.

[300] V. Alfieri, Bruto secondo (IV, II), vv. 154-163, ivi, p. 601.

[301] V. Alfieri, Bruto secondo (V, 3), vv. 149-155, ivi, pp. 617-618. Corsivi miei. Si noti la ripresa, nel Bruto minore, di alcuni termini o concetti: «e non le tinte glebe, / non gli ululati spechi / turbò nostra sciagura» (vv. 102-104); «quando nell’alto lato / l’amaro ferro intride» (vv. 43-44); «fermo già di morir» (v. 12) che ricalca quel «morire io vo’» del v. 618 sopracitato, come per evidenziare quella ferrea volontà di Bruto a togliersi la vita di propria mano.

[302] V. Alfieri, Bruto secondo (V, 3), v. 243, ivi, p. 622. 95 Introduzione di B. Maier, in ivi, p. XXXIII. 

[303] V. Alfieri, Filippo (III, V), vv. 83-94, ivi, p. 41. Corsivi miei. 

[304] F. D’Intino, La caduta e il ritorno. Cinque movimenti dell’immaginario romantico leopardiano, Macerata, Quodlibet, 2019, p. 214.

[305] Cfr. nota di B. Maier in Saul (atto V, 5, vv. 220-225), in V. Alfieri, Tragedie, cit., p. 452: «Nell’atto ch’ei cade trafitto su la propria spada, soprarrivano in folla i Filistei vittoriosi con fiaccole incendiarie, e brandi insanguinati. Mentre costoro corrono con alte grida verso Saùl, cade il sipario».

[306] Cfr. G. Barberi Squarotti, op. cit., p. 235: «Il tragico esce fuori della scena, diviene un fatto assoluto, una testimonianza incisa come verità vana non meno di quanto sia, per Bruto, della virtù, e il compito del poeta tragico può essere soltanto quello di registrare dichiarazioni e sentenze al di fuori di ogni comunicazione, di ogni rapporto con il pubblico e anche con la funzione esemplare che l’eroe tragico ebbe e non ha più dal momento in cui ha respinto da sé nome, fama, appello ai posteri».

[307] Ivi, p. 234. La versione leopardiana del fallimento del gesto eroico di Bruto sovverte in tutto e per tutto l’autorità classica, come spiega il critico a p. 230: «Il gesto di Bruto, che leva il pugnale contro il tiranno, è sottilmente e indirettamente condannato lungo il romanzo manzoniano tutte le volte che se ne ripropone l’immagine: nel borghese Lodovico che uccide il prepotente e insultante aristocratico, in Renzo che mette la mano sul coltello dichiarando che “infine c’è giustizia a questo mondo”. È l’immagine di un classicismo vittorioso nella storia, attuato esattamente nei fatti e nelle azioni, quella che desta Bruto dal sonno dei secoli e lo ripropone come esempio e modello […]. Il Leopardi parte da un’analoga verifica del fallimento del modello di Bruto come esempio consacrato dall’autorità della classicità e da tutta una lunga tradizione storico-letteraria e da una cultura anche scolastica tutta fondata sull’esemplarità di nomi e di gesta del tempo dei Greci e dei Romani. Ma la rappresentazione leopardiana del fallimento del gesto eroico di Bruto è molto più radicale di quella, pur così netta, del Manzoni».

[308] F. Spera, op. cit., p. 246. 

[309] Entrambe le citazioni sono prese da G. Barberi Squarotti, op. cit., p. 233.

[310] Cfr. note al Bruto minore di M. Fubini in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di M. Fubini, cit., p. 79.

[311] Forse un’eco tematico-stilistica per la leopardiana Sopra il ritratto di una bella donna scolpito nel monumento sepolcrale della medesima, vv. 1-7: «Tal fosti: or qui sotterra / polve e scheletro sei. Su l’ossa e il fango / immobilmente collocato invano, / muto, mirando dell’etadi il volo, / sta, di memoria solo / e di dolor custode, il simulacro / della scorsa beltá», in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di M.

[312] V. Alfieri, La virtù sconosciuta, in V. Alfieri, Della tirannide ec., cit., p. 367.

[313] Ivi, p. 368.

[314] Ivi, pp. 370, 372.

[315] Ivi, p. 379-380. 

[316] Cfr. A. Ferraris, L’ultimo Leopardi, Torino, Einaudi, 1987, pp. 140-141: «“Pensa coi classici; coll’intelletto e coll’anima spazia, se il puoi, infra Greci e Romani”: il monito lanciato da Alfieri nel dialogo La virtù sconosciuta – estranea, cioè, nella sua intima essenza, all’orizzonte etico-politico della civiltà moderna – si traduce, nei Paralipomeni, nella rivendicazione dell’esemplarità del comportamento morale degli antichi: “O costanza, o valor de’ prischi tempi! / Far gran cose di nulla era vostr’arte, / nulla far di gran cose età di scempi / apprese da quel dì che il nostro marte / Costantin, pari ai più nefandi esempi, / donò col nostro scettro ad altra parte. / Tal differenza insieme han del romano / vero imperio gli effetti, e del germano.”». 

[317] Ivi, p. 375. 111 Ivi, p. 382.

[318] F. Spera, op. cit., pp. 238-239. L’intento si farà esplicito e concreto nel 1824, con la pubblicazione del primo nucleo di Operette morali e del Discorso sopra lo stato presente del costume degl’italiani. Cfr. V. Alfieri, La virtù sconosciuta, in V. Alfieri, Della tirannide ec., p. 383: «Di questo secolo servile ed ozioso,

[319] F. Spera, op. cit., p. 248.

[320] Ivi, pp. 232-233.

[321] V. Alfieri, Filippo (III, V), vv. 160-161, in V. Alfieri, Tragedie, cit., p. 45.

[322] V. Alfieri, La virtù sconosciuta, in V. Alfieri, Della tirannide ec., cit., p. 367.

[323] Entrambe le citazioni sono prese da A. Ferraris, L’ultimo Leopardi, cit., p. 140.

[324] V. Alfieri, La virtù sconosciuta, in V. Alfieri, Della tirannide ec., cit., p. 366 e ibidem: «Comunque ciò fosse, morte ch’io non temeva, né bramava; morte che a me dolse soltanto perché, senza neppur più vederti negli ultimi miei momenti, io lasciava te immerso fra le tempeste di mille umane passioni; ma pure, morte che al mio cuore e pensamento giovava, poiché da tanti sì piccioli e nauseosi aspetti per sempre toglieami, ogni tuo amichevole dubbio spettante a me disciolto ha per sempre».

[325] G. Leopardi, Il pensiero dominante, vv. 53-68, in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di M. Fubini, cit., pp. 201-202.

[326] Entrambe le citazioni sono prese da A. Negri, Lenta ginestra. Saggio sull’ontologia di Giacomo Leopardi, Milano, SugarCo, 1987, p. 195.

[327] Ibidem.

[328] G. Singh, op. cit., p. 77.

[329] Cfr. note di A. Campana, in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di A. Campana, cit., p. 378: «Qui la parola utile può valere – ambiguamente – sia come “profitto economico”, sia come “utilità collettiva, sociale di ciò che si produce”, anche e soprattutto in campo culturale. Non si può escludere nessuno dei due significati, anche se è più probabile il secondo, viste le riflessioni svolte da L. in favore di un’arte “inutile” ma dilettevole (cioè utile solo al conforto dell’anima) nello Z e in altri luoghi». 124 A. Negri, op. cit., p. 194.

[330] U. Bosco, op. cit., p. 72.

[331] Cfr. note di M. Fubini in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di M. Fubini, cit., p. 201.  127 Cfr. lettera A Fanny Targioni Tozzetti, Firenze (Roma, 5 Dicembre [1831]), in G. Leopardi, La vita e le lettere, cit., p. 497: «Sapete che io abbomino la politica, perché credo, anzi vedo che gli individui sono infelici sotto ogni forma di governo, colpa della natura che ha fatto gli uomini all’infelicità; e rido della felicità delle masse, perché il mio piccolo cervello non concepisce una massa felice composta d’individui non felici». 

[332] U. Bosco, op. cit., p. 23. 129 Ivi, p. 21.

[333] G. Leopardi, A se stesso, vv. 13-16, in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di M. Fubini, cit., p. 213. Cfr. note di M. Fubini: «Il poeta accenna a quel potere senza nome di cui la natura stessa è strumento e il cui fine, se altre volte gli pare ignoto e incomprensibile, ora crede di poter intendere». 131 Cfr. commento introduttivo di M. Fubini, in ivi, p. 212.

[334] U. Bosco, op. cit., p. 15.

[335] M. Marcazzan, op. cit., pp. 193-194: «Per sempre, si noti bene. Quante volte erano dunque rinate le vaghe illusioni, e quante volte aveva il cuore eluso la fredda disciplina della mente? E avrebbe poi smesso davvero il cuore stanco di palpitare, e si sarebbe davvero chiusa la fine di quell’avventura come sull’ultima illusione una gelida pietra tombale?».

[336] Cfr. note di A. Campana in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di A. Campana, cit., p. 404: «La distinzione rispecchia quella spinoziana fra Natura naturata (gli enti) e Natura naturans (il principio creatore/ordinatore)».

[337] Cfr. note di A. Campana in ivi, p. 405: «vanità: inutile inconsistenza, ricordo certo di Qoelet 1 2 (“Vanitas vanitatum, dixit Ecclesiastes, vanitas vanitatum et omnia vanitas”), ma qui incaricato di un sovrappiù materialistico-meccanicistico». 136 G. Di Fonzo, op. cit., p. 27. 

[338] Z 3291,1, in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova edizione tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., pp. 80-81. Nell’introduzione, a p. XXXV, Cacciapuoti precisa: «Il Trattato delle passioni, qualità umane ec. si presenta […] come un’analisi dei moti del profondo dell’animo, un vero percorso psicologico. Leopardi lemmatizza i suoi brani proprio col nome delle passioni che vuole esaminare: passioni nere, come l’odio, l’invidia, la vendetta, l’egoismo, o che sembrano positive, come la compassione, la beneficenza, e forse non lo sono in quanto al fondo di tutte, e quindi di ogni azione dell’individuo, c’è sempre l’amor proprio».

[339] A. Vigorelli, op. cit., p. 129. Cfr. C. Luporini, Leopardi progressivo, cit., p. 49: «Tuttavia fra Leopardi e Rousseau la divergenza è sostanziale […]. Rousseau vive ante rem e Leopardi vive post rem, e questa cosa, decisiva per la posizione storica di ambedue, è stata la grande rivoluzione. Rousseau aveva aperto la strada alla rivoluzione e aveva aperto la strada anche al romanticismo. Ora, Leopardi che vive nel romanticismo, lo rifiuta e non si abbandona alle sollecitazioni etiche e politiche che venivano da esso. E qui sta il punto più delicato per intendere tutta la posizione di Leopardi, il suo dramma, il suo intimo dissidio che non è tanto e soltanto un dissidio personale e soggettivo, ma un dissidio storico».

[340] Z 108,1, in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova edizione tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., p. 8. 

[341] Cfr. A. Vigorelli, op. cit., p. 129: «La spinta centrifuga dell’amor proprio, e non l’istinto di autoconservazione, è ciò che qualifica l’uomo e lo separa dalla animalità. Sentire la vita, e in conseguenza agire, mossi dal conatus del piacere, è proprio degli umani che, per tale via, si escludono dalla possibilità di accesso ad una quieta felicità, consistente nel passivo godimento di se stessi».

[342] Entrambe le citazioni sono prese dall’introduzione di F. Cacciapuoti in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova edizione tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., p. XXXVI. Alla pagina seguente, continua: «Lo sguardo di Leopardi, che muove sempre da un’attenta e fredda analisi di sé, evidente nelle Memorie della mia vita e riportata nel Trattato delle passioni con valenza generale, si volge quindi alla società, guardando ai sentimenti che sottostanno all’agire umano». 

[343] G. Singh, op. cit., p. 74.

[344] Entrambe le citazioni sono prese da M. Moneta, L’officina delle aporie. Leopardi e la riflessione sul male negli anni dello Zibaldone, Milano, Franco Angeli, 2006, p. 15: «All’uomo soltanto, dunque, è imputabile la condizione di infelicità in cui versa. Dio e la natura, al contrario, restano pienamente giustificate, e la loro giustificazione – assimilabile a una teodicea o a una fisidicea – avviene sulla base di un modello provvidenzialistico, a carattere latamente leibniziano».

[345] Z 72, 3, in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova edizione tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., p. 7.

[346] M. Moneta, op. cit., p. 15.

[347] Ibidem.

[348] M. Marcazzan, op. cit., p. 214: «Ma l’altro mito, quello da cui non lo deviò neppure la suggestione dell’Alfieri e del Foscolo coll’invito a conciliare l’amarezza del pensiero moderno colla dolcezza dell’antica poesia, il mito che affiora nel Bruto […] sarà il mito che si spremerà dall’esteriorità, dall’indifferenza, dall’assenza della natura: non più la grazia di un fiore educato da un vivo anche se

[349] Ivi, p. 201.

[350] C. Luporini, Leopardi progressivo, cit., p. 78.

[351] Z 108,1, in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova edizione tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., p. 8: «Ed ogni qualunque operazione dell’animo nostro ha sempre la sua certa e inevitabile origine nell’egoismo, per quanto questo sia purificato, e quella ne sembri lontana. Ma la compassione che nasce nell’animo nostro alla vista di uno che soffre è un miracolo della natura che in quel punto ci fa provare un sentimento affatto indipendente dal nostro vantaggio o piacere, e tutto relativo agli altri, senza nessuna mescolanza di noi medesimi. E perciò appunto gli uomini compassionevoli sono sì rari, e la pietà è posta, massimamente in questi tempi, fra le qualità le più riguardevoli e distintive dell’uomo sensibile e virtuoso. Se già la compassione non avesse qualche fondamento nel timore di provar noi medesimi un male simile a quello che vediamo».

[352] C. Luporini, Leopardi progressivo, cit., p. 25.

[353] Introduzione di F. Cacciapuoti in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova edizione tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., p. XXXVII.

[354] C. Luporini, Leopardi progressivo, cit., p. 25.

[355] Introduzione di F. Cacciapuoti in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova edizione tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., p. XXXVII: «C’è un delitto, addirittura un fratricidio, alla base della società: quella cainità che non ha mai più trovato soluzione, una colpa che ogni individuo si porta dentro come una condanna. E l’innocente? Chi è innocente?». 

[356] Z 669,1, in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova edizione tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., p. 39. Spiega Cacciapuoti in nota: «L’orgoglio e l’amor proprio, passioni utili alla costruzione del sé, possono divenire causa di disgregazione sociale: la selezione delle passioni è volta anche alla definizione del ruolo dell’uomo nella società».

[357] C. Luporini, Leopardi progressivo, cit., p. 96.

[358] G. Leopardi, La ginestra, vv. 147-157, in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di M. Fubini, pp. 254-255.

[359] Cfr. note di A. Campana in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di A. Campana, cit., p. 495.

[360] C. Luporini, Leopardi progressivo, cit., p. 96. 

[361] Nota al testo di F. Cacciapuoti, in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova edizione tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., p. 39. 

[362] W. Binni, La protesta di Leopardi, p. 53: «Proprio da quel bisogno, configurato (entro la ripresa del sensismo settecentesco) come “amor proprio”, “amor di sé”, senza cui non esiste vita e vitalità, deriva infatti la sua biforcazione in eroismo (l’accettazione alta dell’amor proprio) e in egoismo (l’accezione dell’amor proprio corrotto dalla gretta ragione ingenerosa e calcolatrice). L’eroismo è la forma in cui l’amor proprio si traduce nell’uomo intero, generoso, poetico, entusiastico, attivo, vicino alla natura come fu soprattutto nelle epoche della classicità greca e latina. L’egoismo è invece il vizio, la sigla abbietta dell’uomo contemporaneo, che, con la sua gretta e calcolatrice ragione, riduce la sorgente energica e generosa dell’amor proprio dal tornaconto individuale, al conformismo interessato e impoetico. Sicché sulla via della natura e delle illusioni il Leopardi mirava ad un uomo che, sulla radice energica dell’amor proprio-eroismo, sia continuamente rivolto al bene pubblico, al bene della società e della patria».

[363] Z 293,1, in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova edizione tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., pp. 20-21. Datato 22 ottobre 1820.

[364] Z II, 124 in G. Leopardi, Zibaldone scelto, in G. Leopardi, Opere vol. III, cit., pp. 264-265 (17 febbraio 1821). Corsivi miei. Cfr. C. Luporini, Leopardi progressivo, cit., p. 23: «Così l’egoismo diventa necessariamente universale e l’egoismo universale condiziona quello individuale. L’egoismo universale è la mancanza di qualsiasi solidarietà sociale». 

[365] Ivi, p. 28. A rigore, a p. 29 il critico riporta una definizione peculiare data da Leopardi nello Zibaldone: «Barbarie è la corruzione della civiltà e quindi lo stadio più estremo, opposto allo stato naturale. “Altro è primitivo, altro è barbaro. Il barbaro è già guasto, il primitivo ancora non è maturo” (Zib. 118)».

[366] A. Vigorelli, op. cit., p. 146. Cfr. anche Z 3291,1 sopracitato. 

[367] Ivi, p. 130: «È infatti nell’ambito del processo (non meramente adattivo) dell’assuefazione, che si svolge la dinamica degli affetti, descritta da Leopardi come una vera e propria fisica o fisiologia del comportamento. Come la quantità di materia “è una grandezza costante in natura”, così l’amor proprio, essendo materialmente infinito, come il piacere, rimane costante nell’uomo e in ogni essere vivente: “la sua quantità, non è mai né cresciuta né scemata di un nulla” (Z 2153-2154). La fenomenologia degli affetti, nella loro sorprendente varietà di manifestazioni individuali e sociali, si riconduce a questa dinamica fondamentale dell’amor proprio. Aumentata da una resistenza, “l’elasticità e la forza di una molla” di questa passione elementare produrrà una intensificazione dell’affetto, che si renderà più evidente, quanto più l’uomo o l’individuo si collocano in prossimità della condizione naturale o primitiva. Viceversa, diminuita dalla assuefazione e “depressa”, essa renderà l’individuo incapace di azioni e sentimenti “vivi e forti” (Z 959), sia nei confronti di se stesso, che di altri, arricchendo la fenomenologia dello “spirituale” nell’uomo, senza però aggiungere nulla del suo conatus materiale fondamentale e al desiderio inappagato di felicità».

[368] M. Marcazzan, op. cit., p. 258: «L’accento non è però ancora sull’astrazione implicita nell’estremo risolversi di quest’urto in distacco, e di quella solitudine in impassibilità, ma sull’umano ideale di una virilità […] ancor tutta intrisa e penetrata di elementi passionali e affettivi».

[369] Z III, 181, 2, in G. Leopardi, Zibaldone scelto, in G. Leopardi, Opere vol. III, cit., p. 346.

[370] Cfr. Frammento sul suicidio, in G. Leopardi, Poesie e prose vol. II, cit., p 275: «E pure il suicidio è la cosa più mostruosa in natura ec. ec. Non è più possibile l’ingannarci o il dissimulare. La filosofia ci ha fatto conoscer tanto che quella dimenticanza di noi stessi ch’era facile una volta, ora è impossibile».

[371] Cfr. A. Vigorelli, op. cit., p. 107: «Leopardi non è un anti-moderno o un nichilista à la mode novecentesca, ma il suo sguardo in profondità nella condizione metafisica dell’uomo, non cessa di inquietare e scuotere la coscienza culturale contemporanea».

[372] B. Croce, op. cit., p. 107.

[373] W. Binni, La protesta di Leopardi, cit., p. 67: «Il linguaggio brunito e forzato, la sintassi risentita e inarcata, la stessa metrica rarefatta di rime […] per far risaltare il ritmo sintattico e la sua forza severa, scura, prepotente».

[374] Ibidem.

[375] U. Bosco, op. cit., p. 16: «Il secondo momento del titanismo leopardiano, che ha la sua massima espressione nella canzone su Bruto, parte dunque da questa nuova concezione della virtù come di una “larva”. E allora esso, originariamente alfieriano, assume una colorazione nettamente romantica». Si badi, però, che qui non si sta dando del “romantico” a Leopardi direttamente, ma si definisce “romantica” la connotazione di titanismo che si differenzia da quella tipica di un Alfieri che «mosse guerra a’ tiranni». A p. 10, infatti, Bosco precisa che «essenziale caratteristica di questo [del titanismo romantico] è la coscienza dell’ineluttabilità della sconfitta […]: al titanismo dell’Alfieri – per protoromantico che questi sia stato – manca infatti la coscienza di quella ineluttabilità».

[376] Ibidem. 

[377] Ivi, p. 10.

[378] G. Di Fonzo, op. cit., p. 24.

[379] G. Leopardi, Bruto minore, vv. 19-30, in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di M. Fubini, cit., pp. 74-75.

[380] G. Leopardi, Bruto minore, vv. 46-51, in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di M. Fubini, p. 76. Cfr. note di M. Fubini: «In questa e nella stanza seguente il L. per bocca di Bruto combatte contro quelle credenze religiose (egli pensa al Cristianesimo) per le quali il suicidio è considerato colpa e peccato. La polemica in questo senso contro la religione cristiana compare già esplicita in un passo dello Zibaldone del 19 marzo 1821 (814-8), ma solo nell’ipotesi che la religione non sia “vera”, bensì essa stessa un prodotto della misera ragione umana. E ancora poche settimane prima della composizione del Bruto minore, il L. […], pur polemizzando contro i filosofi che consideravano illegittimo il suicidio, ammette tuttavia la condanna della religione (“Non v’è dunque che la religione che possa condannare il suicidio”; 1981). Solo più tardi, sei mesi dopo la composizione del Bruto minore, sembra cadere ogni riserva nei confronti della religione».

[381] L. Felici, op. cit, p. 30. 

[382] G. Singh, op. cit., p. 73: «Un così alto concetto d’uomo non è per il Leopardi un’astrazione o un ideale platonico, ma qualcosa di concretamente realizzabile – non certo da tutti gli uomini e neanche dalla stragrande maggioranza di essi, ma da pochi, pochissimi. Tuttavia questo concetto serve al Leopardi come contrappeso al suo pessimismo circa la natura dell’uomo in genere, e circa il suo posto nell’universo». 185 Ivi, p. 75. Si veda anche p. 76: «Un’altra cosa che, secondo il Leopardi, caratterizza la maggior parte degli uomini – e anche in questo l’uomo leopardiano si distingue – è che non amano conoscere la verità assoluta, ma solo quella parte di essa che loro conviene. “La verità assoluta”, commenterà il Leopardi, “e

[383] L. Battisti, P. Panella, La bellezza riunita, in Hegel, Numero Uno, 1994. Cfr. A. Negri, op. cit., p. 92: «Agli antipodi del restauratore Hegel, tale è Leopardi, un sovvertitore dell’essere. La chiave del sovvertimento è il dolore, ne segue l’affermazione di un essere ribaltato, la tensione del mito, il desiderio di realizzare una negatività inesausta».

[384] G. Leopardi, Frammento sul suicidio, in G. Leopardi, Poesie e prose vol. II, cit., p. 275.

[385] L. Blasucci, Profilo dell’“Ultimo canto di Saffo”, in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di Lettere e Filosofia», Vol. 17, No. 3, 1987, pp. 827-845, p. 833.

[386] F. De Sanctis, op. cit., p. 188. 

[387] G. Di Fonzo, op. cit., p. 24. Riguardo lo stoicismo di Bruto, la critica non ha però mantenuto sempre la stessa linea di pensiero. Cfr. F. De Sanctis, op. cit., p. 185: «Bruto era un filosofo stoico e poneva il supremo bene nella virtù, ma la vittoria dei ribaldi a Filippi e la sua sconfitta, e con la sua rovina di Roma, gli ispirano un altro aspetto del mondo, dove la virtù è vanità e tutto è vanità. E questo nuovo aspetto esce fuori accompagnato con tutti i sentimenti che lo fecero nascere».

[388] M. Marcazzan, op. cit., p. 239.

[389] Ivi, p. 241: «Ma il tema del suicidio era già inquinato da fermenti di natura non precisamente morale, anteriori ai pensieri nei quali il Leopardi dovette sulle prime educarsi a vincere la riluttanza che in lui suscitava tale materia, troppo intima per ragionarne pacatamente e con distacco».

[390] Anche in questo aspetto di Bruto si può leggere un’eco biografica che lo avvicina a Leopardi: «Malgrado il suo amore intermittente per la solitudine, Leopardi era più absent di quanto affermasse. Il suo spirito era assuefatto da un lunghissimo tempo alla solitudine e al silenzio, ed era “pienamente ed ostinatissimamente nullo” nella società degli uomini. Era cacciato via, espulso, escluso. Nessuno, egli diceva, si occupava di lui: tutto lo contraddiceva, tutto lo respingeva; bastava che egli desiderasse una cosa perché accadesse il contrario. I parenti e i conoscenti lo disprezzavano. Questa condizione di “disprezzato e vilipeso” distruggeva in lui ogni sentimento, ogni slancio di entusiasmo, fantasia e compassione, ogni immagine nobile e dolce; e faceva sì ch’egli si considerasse un nulla. Così diventava apatico, vuoto, indifferente. Il

[391] L’ispirazione letteraria a cui Leopardi deve il componimento è da riconoscersi, secondo sua stessa testimonianza, nella quindicesima delle Heroides di Ovidio, l’epistola Sappho Phaoni. Basandosi su un’interpretazione di G. Lonardi (L’ultimo canto, in «Rivista di letteratura italiana», X (1992), 1-2), L. Felici spiega che «l’osservazione è acuta nel rilevare il carattere di “ultimo canto” comune all’epistola ovidiana e alla canzone leopardiana; ciò però non riduce la distanza fra i due “ultimi canti”, sia per lo spostamento del nucleo psicologico e poetico che Leopardi opera, con lucida consapevolezza, rispetto alla leggenda (al centro della tragedia di Saffo c’è l’esclusione dalla bellezza, non più il delirio della passione), sia per l’altrettanto consapevole determinazione con cui egli piega l’“antico” a significati appunto “esistenziali”, tipici della moderna poesia sentimentale», in L. Felici, op. cit., p. 95. 

[392] G. Singh, op. cit., p. 81.

[393] L. Felici, op. cit., p. 99: «Con la Corinne si entra nel territorio delle fonti “nascoste”, non dichiarate, sulle quali la critica si è a lungo esercitata con una sovrabbondanza di ipotesi e congetture che, avvolgendo il testo della canzone dentro una spessa coltre di “referenti” piò o meno attendibili, rischiano di farne smarrire i significati e gli esiti formali più propri e originali».

[394] Ibidem: «Ma più importante è notare che qui Leopardi prende spunto dal romanzo della Staël per “storicizzare” natura ed effetto del dolore: una “storicizzazione” che, come vedremo, verrà estesa, con argomenti analoghi e consequenziari, al tema del suicidio».

[395] M. Marcazzan, op. cit., p. 254. 

[396] Cfr. commento di G. Rosati in P.O. Nasone, Lettere di eroine, introduzione, traduzione e note di G. Rosati. Testo latino a fronte [1989], Milano, Rizzoli, 2018, p. 278: «Intorno alla personalità di Saffo fiorì nell’antichità una ricca tradizione di leggende biografiche, fra le quali quella, su cui la nostra epistola si fonda, dell’amore infelice per Faone, un traghettatore di Lesbo che aveva ricevuto da Venere […] un unguento capace di fornirgli un’eccezionale bellezza e un fascino irresistibile sulle donne. L’associazione con Saffo (originata evidentemente dalla comune patria di Lesbo), infelicemente innamorata di lui fino a gettarsi, per disperazione, dalla rupe di Leucade, è documentata dalla commedia attica in poi».

[397] G. Leopardi, Ultimo canto di Saffo, vv. 67-72, in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di M. Fubini, pp. 101-102. Cfr. note di Fubini: per gelida si intende «“non in quanto uccide per sempre; ma in quanto uccide nell’uomo la vita, le ragioni della vita, e pur lo lascia in vita” (De Robertis)». 

[398] I confronti linguistici col Bruto minore sono molti, ma non si ritiene di portarli in questa sede poiché l’analisi è incentrata maggiormente su un raffronto tematico e ideologico. Per un’accurata rassegna linguistica sugli usi dell’Ultimo canto di Saffo si veda L. Blasucci, Profilo dell’“Ultimo canto di Saffo”, cit., pp. 840-844: «Il confronto col Bruto risulta illuminante anche sul piano linguistico. L’Ultimo canto rientra ancora, per molti aspetti, nel classicismo ‘ardito’ delle odi-canzoni, di cui il Bruto minore rappresentava il frutto estremo, con la ricchezza dei suoi latinismi e arcaismi, con le sue costruzioni latineggianti, con le sue inversioni, con le varie riprese virgiliane e oraziane in chiave espressionistica [ecc.]».

[399] L. Felici, op. cit., p. 30.

[400] Z 516,2 in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova edizione tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit. pp. 27-28: «Oltre la compassione, si può notare come indipendente affatto dall’amor proprio, un altro moto naturale, che sebbene somiglia alla compassione, non per ciò è la stessa cosa. Ed è quella sensibilissima pena che noi proviamo nel vedere p. e. un fanciullo fare una cosa la quale noi sappiamo che gli farà male: un uomo che si esponga a un manifesto pericolo; una persona vicina a cadere in qualche precipizio, senz’avvedersene. E simili. Questo dei mali non sono ancora accaduti. Allora proviamo ancora un’assoluta necessità d’impedirlo, se possiamo, e se no una pena assai maggiore. Certo è che il veder uno che si fa male o sta per soffrire, o volontariamente, o non sapendo ec. il vederlo, e non impedirlo, o non sentirsi accorare non potendo, è contro natura. Nell’atto dei mali parimente, vedendo qualcuno cadere ec. ancorché quel male non sia degli orribili e stomachevoli all’apparenza, contuttociò ne proviamo naturalmente e indeliberatamente gran pena. […] proviamo lo stesso sentimento doloroso, la stessa necessità di esclamare, d’impedirlo potendo […]. (17. Gen.1821)».  

[401] Cfr. Postilla ai versi 68-70 in G. Leopardi, Poesie e prose vol. I, cit., p. 681: «Il Tartaro è forse una palma, o un error dilettoso? Tutto l’opposto, ma ciò appunto dà maggior forza a questo luogo, venendoci ad entrare una come ironia. Di tanti beni non m’avanza che il Tartaro, cioè un male. Oltracciò si può spiegare questo luogo anche esattamente, e con un senso molto naturale. Cioè, queste tante speranze e questi errori così piacevoli si vanno a risolvere nella morte: di tanta speranza, e di tanti amabili errori, non esce, non risulta, non si realizza altro che la morte».

[402] Z 712, 1 in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova edizione tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., pp. 181-182. Datato 3 marzo 1821

[403] Cfr. F. Cacciapuoti, op. cit., p. 122: «Egli le affida, infatti, il tormento che in quegli anni lo segna profondamente: l’essere, in un certo qual modo, cacciato dalla natura».

[404] Lettera A Pietro Giordani, Vicenza (Recanati 26 Aprile 1819), G. Leopardi, La vita e le lettere, cit., p. 109: «Io non trovo cosa desiderabile in questa vita, se non i diletti del cuore, e la contemplazione della bellezza, la quale m’è negata affatto in questa misera condizione. Oltre ch’i libri, particolarmente i vostri, mi scorano insegnandomi che la bellezza appena è mai che si trovi insieme colla virtù, non ostante che sembri compagna e sorella [ecc.]».

[405] Entrambe le citazioni sono prese da L. Blasucci, Profilo dell’“Ultimo canto di Saffo”, cit., p. 828. 213 L. Felici, op. cit., p. 28: «Queste due canzoni, perciò, non sono mitologiche; piuttosto esse denunciano il divorzio definitivo del divino dall’umano e anche dalla natura». 214 L. Blasucci, Profilo dell’“Ultimo canto di Saffo”, cit., p. 836.

[406] F. De Sanctis, op. cit., p. 189. 

[407] A. Negri, op. cit., pp. 97-98: «L’esperimento lirico del ’20-’21 è un esempio significativo di questo muoversi in avanti del mondo della vita leopardiana. Con la sua complessità, le sue qualificazioni, la sua crisi. È il movimento di uno spiazzamento globale. […] Ciò non vale solo per la poesia: ogni aspetto della vita è costretto a questa rigidità».

[408] Cfr. P. Citati, op. cit., pp. 33-34: «Leopardi non diventò gobbo a causa del rachitismo. La sua malattia era infinitamente più grave e complicata: la tubercolosi ossea (o “morbo di Pott”), come per primo suppose Giovanni Pascoli: una malattia metamorfica, mimica, che assume tutti gli aspetti e forma un sistema saldissimo; il primo dei sistemi che distrussero la vita di Leopardi, colpendolo nelle “apparenze”, che tanto amava. In una data che non possiamo precisare, il suo corpo cominciò a non crescere più: la statura si fermò a 1 metro e 41 centimetri: la parte alta rimase esilissima; i femori e le gambe si svilupparono, mentre due grosse gibbosità si formarono sia nella parte anteriore sia in quella posteriore del corpo. Attorno a queste gobbe si sviluppò il mostruoso sistema della tubercolosi. I nomi delle malattie si accumulano come in un’enciclopedia degli orrori […]. Nulla, della vita di Leopardi quei venti terribili anni –, obbedì al caso, o all’estro di qualche piccola, indifferente malattia. Tutto era sistema. Nessun medico tentò un’analisi o un rimedio qualsiasi. […] La cosa più grave è che Leopardi si sentiva colpevole della propria malattia […] Verso la fine della sua vita pensò che tutti i suoi mali fossero fantasie e fantasmi del suo fertilissimo sistema nervoso». Per un quadro completo della descrizione fisica ed emotiva del giovane recanatese, si veda l’intero capitolo L’infanzia e l’adolescenza, in ivi, pp. 19-36.

[409] G. Leopardi, Annotazioni alle dieci canzoni stampate a Bologna nel 1824, in G. Leopardi, Poesie e prose vol. I, p. 163. Continua: «soggetto così difficile, che io non mi so ricordare né tra gli antichi né tra i moderni nessuno scrittor famoso che abbia ardito di trattarlo, eccetto solamente la signora di Staël, che lo tratta in una lettera in principio della Delfina, ma in tutt’altro modo».

[410] A.M. Ortese, Pellegrinaggio alla tomba di Leopardi. Nell’imminenza della traslazione dei resti gloriosi, in A.M. Ortese, Da Moby Dick all’Orsa bianca. Scritti sulla letteratura e sull’arte, a cura di M. Farnetti, Milano, Adelphi, 2011, p. 11: «Così ho pensato di andare verso la Grotta, in fondo alla quale, in un paese di luce, dorme da cento anni il giovane favoloso».

[411] A. Ranieri, Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi. Con appendice di lettere di Antonio Ranieri al conte Monaldo Leopardi, a cura di R. Bertazzoli, Milano, Mursia, 1995, p. 92.

[412] F. Cacciapuoti, op. cit., p. 127.

[413] Cfr. ibidem: «Da questa esclusione si mettono a fuoco due temi fondamentali per il Leopardi di questi anni, cioè la colpa e il fato. La domanda di Saffo sull’eventuale colpa commessa per meritare una tale infelicità si collega direttamente all’idea propria del mondo antico, che abbiamo già individuato nell’analisi dei personaggi di Ettore e di Achille, per cui l’infelice, come il vinto, è colpevole in quanto causa diretta della propria infelicità e, di conseguenza, rifiutato dagli stessi dei, contro i quali, comunque, egli scaglia la sua protesta».

[414] F. De Sanctis, op. cit., p. 190.

[415] Commento introduttivo di A. Campana, in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di A. Campana, cit., pp. 195-196: «Ricordiamo poi che l’attribuzione di bruttezza ad un sapiente è topica: si trova, solo per fare un es., già in Platone a proposito di Socrate […]. L. aveva altresì già affermato nello Z (1975, 23 ott. ’21) che le disgrazie fisiche sono un forte strumento conoscitivo, perché rendono più acuti nella comprensione delle cose: “Un uomo di forte e viva immaginazione, avvezzo a pensare ed approfondare, in un punto di straordinario e passeggero vigore corporale, di entusiasmo, di disperazione, di vivissimo dolore o passione qualunque, di pianto, insomma di quasi ubbriachezza, e furore, ec. scopre la verità che molti secoli non bastano alla pura e fredda e geometrica ragione per scoprire”. Chi è brutto è quindi più agevolato degli altri a comprendere che l’umanità non ha compassione né interesse per la bruttezza, e che tende anzi a squalificare l’opera, pur bella, di poeti e artisti brutti (Z 220-1, 21 ago. ’20); a comprendere insomma che i brutti e i deformi sono per natura esclusi dal piacere e dal successo fra gli uomini».

[416] F. De Sanctis, op. cit., p. 190.

[417] L. Blasucci, Profilo dell’“Ultimo canto di Saffo”, cit., p. 830. 229 P. Citati, op. cit., p. 20.

[418] L. Blasucci, Profilo dell’“Ultimo canto di Saffo”, cit., p. 832: «In una siffatta visuale, l’infelice amore per un uomo si pone come puro corollario sentimentale di una tragedia consumatasi ancor prima». 232 G. Leopardi, Ultimo canto di Saffo, vv. 20-27, in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di A. Campana, cit., pp. 199-200. Cfr. note del critico: «Si osserva in questi versi un accento di “protesta”, che ricorda le feroci note di BM 14».

[419] F. Cacciapuoti, op. cit., p. 125: «Saffo, invece, è fuori da ogni schema, perché non assimilabile alla tipologia del suo genere, e quindi volta a un destino di esclusione proprio per la sua diversità, per la mancanza di bellezza che la spinge ai margini della natura armoniosa e perfetta».

[420] A. Negri, op. cit., pp. 105-106: «Di contro, qui è la coscienza che si fa, senza voler essere divina, senza voler scivolare in abissi di idealistica mistificazione – che si fa in quanto potenza finita e critica, senza superbia e senza viltà. Il regno del senso scopre un soggetto etico. Il dolore lo organizza e lo incarna. “Morremo”: ma la morte è ingiusta e il dio “cieco dispensator de’ casi”. moriremo, così come soffriamo, ma l’ingiustizia della morte e del dolore non può essere tolta alla coscienza».

[421] Z 2607, 1, in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova edizione tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., p. 185: «Così tosto il bambino è nato, convien che la madre che in quel punto lo mette al mondo, lo consoli, accheti il suo pianto, e gli alleggerisca il peso di quell’esistenza che gli dà. E l’uno dei principali uffizi de’ buoni genitori nella fanciullezza e nella prima gioventù de’ loro figliuoli, si è quello di consolarli, d’incoraggiarli alla vita; perciocché i dolori e i mali e le passioni riescono in quell’età molto più gravi, che non a quelli che per lunga esperienza, o solamente per esser più lungo tempo vissuti, sono assuefatti a patire. E in verità conviene che il buon padre e la buona madre studiandosi di racconsolare i loro figliuoli, emendino alla meglio, ed alleggeriscano il danno che loro hanno fatto col procrearli. Per Dio!

perché dunque nasce l’uomo? [ecc.]. (13. Agosto. 1822)».

[422] Oltre ad essere un richiamo all’«amaro ferro» che Bruto «intride» nel suo fianco, si vedano le note di A. Campana in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di A. Campana, cit., p. 201: «Il filo (lat. stamen) della mia vita, dal colore oscuro (in questo caso, ferrigneo per “color del ferro”) o – secondo un’altra plausibile esegesi – fatto di ferro, quindi duro, disagevole, nel senso che la vita di Saffo non è morbida lana, ma fil di ferro»

[423] L. Blasucci, Profilo dell’“Ultimo canto di Saffo”, cit., p. 854.

[424] F. De Sanctis, op. cit., p. 189: «La disperazione di Bruto nasce dalla piena orchestra di una vita virile, l’amore della virtù, il desiderio della gloria, la libertà della patria, la grandezza di Roma, la fede negli Dei, nella natura e nelle sorti umane. E quando conosce la vanità di tutti questi amori, rimane nel vuoto. Quando ha scoperto la vanità della vita, si toglie la vita. Ma in Leopardi di tutta questa orchestra solo una corda vibrava, la corda femminile. E doveva sentirsi più vivo in Saffo, che in Bruto».

[425] F. Cacciapuoti, op. cit., p. 129.

[426] A.M. Ortese, op. cit., p. 17. 242 L. Felici, op. cit., p. 29.

[427] Z III, 473, 1, in G. Leopardi, Zibaldone scelto, in G. Leopardi, Opere vol. III, cit., p. 430. 

[428] F. De Sanctis, op. cit., p. 193: «Nel Bruto è una terribilità, che se conviene a romano animo, è poco nel genio delicato del poeta, e v’è insieme una sottigliezza di pensiero e di argomentazione che se è nel genio del poeta non è appropriata all’Eroe. Qui, al contrario, malgrado che il colore locale abbondi e simuli vita greca, e malgrado che la verità individuale sia perfetta, la situazione in cui è stata immaginata Saffo, corrisponde così appuntino collo stato d’animo del poeta e col suo genio, che hai fusione compita. E in verità in Leopardi ci è più di Saffo che di Bruto, più del delicato e del tenero che del terribile e del pomposo, e quando vuol bruteggiare appariscono durezze, latinismi e oscurità».  245 U. Bosco, op. cit., p. 31. 

[429] Si veda anche Z I, 188, 3, in G. Leopardi, Zibaldone scelto, in G. Leopardi, Opere vol. III, cit., pp. 7980: «L’espressione del dolore antico, per esempio nel gruppo di Niobe, nelle descrizioni di Omero ec., doveva essere per necessità differente da quella del dolor moderno. Quello era un dolore senza medicina, come ne ha il nostro: non sopravvenivano le sventure degli antichi come necessariamente dovute alla nostra natura, ed anche come un nulla in questa misera vita, ma come impedimenti e contrasti a quella felicità che gli antichi non pareva un sogno come a noi pare, […] come mali inevitabili e non evitati. Perciò la vendetta del cielo, le ingiustizie degli uomini, i danni, le calamità, le malattie, le ingiurie della fortuna, pareano mali tutti propri di quello a cui sopravvenivano: in fatti il disgraziato, al contrario di adesso, solea per la superstizione che si mescolava ai sentimenti e alle opinioni naturali, esser creduto uno scellerato e in odio agli Dei, e destar più l’odio che la compassione. Quindi il dolor loro era disperato, come suol essere in natura, [ecc.]».

[430] A. Vigorelli, op. cit., pp. 51-52: «Come è tipico del Leopardi “diaristico” dello Zibaldone, l’espressione passionale del dolore antico viene “esercitata” nella intuizione psicologica vissuta e personale. […] Poiché il suicidio è “la cosa più contro natura che si possa immaginare”, opponendosi direttamente al conatus fondamentale dell’amore di sé, a indurne il desiderio può essere solo una modificazione del sentimento d’odio e di vendetta, che si distoglie dal suo soggetto naturale, per ritorcersi contro l’io stesso. Non lo trattengono i moniti e la condanna morale della religione cristiana, che anzi gli appare come una concessione fatta alla “debolezza” dei moderni».

[431] F. Cacciapuoti, op. cit., p. 128: «Un ordine che rispecchiava la natura stessa degli dei: inesorabile, indifferente, ricca di bene come di male, inaccessibile al dolore e alle preghiere degli uomini».

[432] E. Severino, Il nulla e la poesia. Alla fine dell’età della tecnica: Leopardi, Milano, Rizzoli, 1990, p. 87: «Nella antica sapienza dei Greci, la contentezza della vita “in genere” corrisponde cioè all’“accidentalità” del dolore, ossia alla capacità del “genere” di librarsi al di sopra del divenire e del dolore – sì che il piacere ha “un’estensione quasi illimitata”: lascia fuori di sé soltanto il piacere accidentale di cui gli individui possono restar privi quando sono colpiti da dolori accidentali». 250 Ivi, p. 54.

[433] Tutti e tre i passi riportati corrispondono a Z 503,1, in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova edizione tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., pp. 182-183. Datato 15 gennaio 1821. Corsivi miei. Commenta Cacciapuoti: «L’idea del Suicidio, implicita nelle Memorie della mia vita e causata dal sentirsi responsabile della propria infelicità al di là di qualunque Necessità indipendente dal soggetto, si oppone in maniera speculare alla Consolazione che gli Antichi traevano dalla loro resistenza al fato. Alla capacità antica di non cedere, quindi al titanismo, si sostituisce la condizione dell’io moderno che vede se stesso come autore del male e, contemporaneamente, come vittima. Soggetto forte e soggetto debole in Leopardi coincidono». 

[434] E. Severino, op. cit., p. 53.

[435] A. Vigorelli, op. cit., p. 57.

[436] C.E. Gadda, La cognizione del dolore, a cura di P. Italia, G. Pinotti e C. Vela [2017], Milano, Adelphi, 2019, p. 146. Cfr. P. Citati, op. cit., p. 59: «Lo Zibaldone era lì, sotto i suoi occhi, come un’immensa e mostruosa rovina, a dimostrargli quale forza di dissoluzione lo possedesse. Senza saperlo, Leopardi parlava di Flaubert, di Kafka, di Musil, di Gadda e di molti scrittori del ventesimo secolo, divorati dallo spirito di incompiutezza e dallo spirito di infinito».

[437] U. Bosco, op. cit., p. 31.

[438] Per il significato di «ferrata necessità» cfr. note di L. riportate nella sezione Note, prefazioni, dedicatorie dei canti in G. Leopardi, Canti, a cura di U. Dotti, pp. 516-520: «Ferrata cioè ferrea». Leopardi riporta numerosi esempi, tratti dalla letteratura latina e italiana, che attestino questo tipo di utilizzo, riflettendo anche sui casi di catacresi e metafore. Alla fine, si congeda affermando che «da tutte le sopraddette cose conchiuderemo, a parer mio, che la voce ferrata posta per ferreo, non tanto che si debba riprendere, ma nella poesia specialmente, s’ha da tenere per una dell’eleganza della nostra lingua».

[439] A. Ranieri, op. cit., p. 49: «Io ho lasciato, le risposi, in Firenze, un immortale uomo, ma un mortale malato, a protrarre la cui vita le mie fraterne cure sono di assoluta necessità!...».

[440] Ivi, p. 36. Cfr. P. Citati, op. cit., pp. 26-27. In queste pagine il critico ben illustra quanto la biblioteca paterna fosse per Leopardi quella sorta di «odiato sepolcro»: «Monaldo voleva sottolineare che la biblioteca di palazzo Leopardi era il luogo sacro, che corrispondeva al tempio: Giacomo […] era Gesù; e Monaldo impersonava la parte di Dio. Monaldo non poteva tollerare che Giacomo restasse lontano da Recanati, e da

[441] U. Bosco, op cit., p. 31: «Al di là di questo atteggiamento non ci può essere che il dolore, quella dolente pensosità che trova la sua espressione poetica soprattutto nei grandi Idilli».

[442] F. Cacciapuoti, op. cit., p. 132.

[443] U. Bosco, op. cit., p. 16.

[444] Entrambe le citazioni sono prese da A. Negri, op. cit., p. 223. 263 W. Binni, La protesta di Leopardi, cit., p. 56. 

[445] Z III, 118, 2: «Non solamente tutte le facoltà dell’uomo sono una facoltà di assuefarsi, ma la stessa facoltà di assuefarsi dipende dall’assuefazione. A forza di assuefazioni si piglia la facilità di assuefarsi, non solo dentro lo stesso genere di cose, ma in ogni genere. Il fanciullo non ha ancora un abito di assuefazioni, e perciò è difficile ad assuefarsi e ad imparare. Chi ha molto imparato più facilmente impara (22 luglio 1821), in G. Leopardi, Zibaldone scelto, in G. Leopardi, Opere vol. III, cit., p. 333. 

[446] Entrambe le citazioni sono prese da C. Luporini, Leopardi progressivo, cit., p. 59. Corsivo mio. Così continua: «Ma questa insoddisfazione dell’elemento volontaristico, pur così diffuso ed evidente in Leopardi (esso è in sostanza […] la base della sua morale eroica, della morale che si oppone al fato); l’impossibilità di concretarsi in cui esso viene obiettivamente a trovarsi, è appunto, accanto alla delusione storica e in connessione con questa, il fondamento di quello che è stato detto il “pessimismo storico” di Leopardi». 266 G. Leopardi. Bruto minore, vv. 31-35, in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di M. Fubini, cit. p. 75. Cfr. note di A. Campana, in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di A. Campana, cit., p. 157: «L’uomo volgare, di animo vile (il plebeo, in senso fig., non sociale), si consola dicendo che contro i mali non si può più nulla».

[447] M. Moneta, op. cit., pp. 132-133: «C’è anche il gesto di Bruto, uomo morale che apprende tragicamente la vanità della virtù, di togliersi la vita in segno di protesta contro l’immoralità del destino […]. L’oggetto polemico del canto appare dunque piuttosto esplicito, e l’estensione dell’imputazione a nuovi imputati sembra sbiadire l’ipotesi della colpevolezza dell’uomo».

[448] Z 112, 3 in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova edizione tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., p. 133. Scrive Cacciapuoti in nota: «La Pazienza è vista come una virtù eroica. Il fatto, messo in rilievo da Leopardi, che essa non possegga alcuna delle caratteristiche che connotano l’essere eroico, richiama il continuo atto di volontà che caratterizza chi pratica questa virtù».

[449] U. Bosco, op. cit., p. 16.

[450] A. Vigorelli, op. cit., p. 103.

[451] Z 188, 2, in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova edizione tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., p. 12: «Nessun dolore cagionato da nessuna sventura, è paragonabile a quello che cagiona una disgrazia grave e irrimediabile, la quale sentiamo ch’è venuta da noi, e che potevamo schivarla, in somma al pentimento vivo e vero». Spiega Cacciapuoti in nota: «Il Pentimento implica la colpa: il soggetto individua se stesso quale autore del male. Su questa consapevolezza si svolgeranno molti pensieri sia del Trattato delle passioni, qualità umane ec., sia del Manuale di filosofia pratica, i due percorsi che racchiudono l’area morale della scrittura dello Zibaldone. Brano scritto tra il 26 e il 28 luglio 1820».  272 A. Ferraris, L’ultimo Leopardi, cit., p. 162.

[452] M. Moneta, op. cit., p. 128.

[453] G. Singh, op. cit., p. 80.

[454] L. Felici, op. cit., p. 29.

[455] C. Luporini, Leopardi progressivo, cit., p. 84: «Ma già abbiamo visto che fin dai primi pensieri, nella giusta società, nella democrazia e uguaglianza, soggetto delle “grandi azioni” era il popolo, e i singoli lo erano non in quanto a lui contrapposti, ma in quanto sua espressione […]. L’uomo veramente uomo è quello che non si piega a nessuna schiavitù, uomo libero e quindi “renitente al fato”. Il fato sta diventando sempre più il “comun fato” della Ginestra, quello che si deve combattere in comune».

[456] Entrambe le citazioni sono prese da G. Singh, op. cit., p. 30. 

[457] Ibidem e ivi, p. 31: «La sua arte è insieme personale ed impersonale, contingente ed universale, perché egli non sarebbe riuscito a contemplare i valori universali e le applicazioni pratiche senza immedesimarvisi o sentirli a livello personale, proprio in forza della sua profonda passione per la verità. […] Le riflessioni e le conclusioni di Leopardi sul “perché delle cose”, sull’infelicità del genere umano, sulla natura “madre di parto e di voler matrigna” e sui primi e ultimi inganni della vita lo ossessionavano come una passione». 279 G. Leopardi, Bruto minore, vv. 101-105, in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di M. Fubini, cit., p. 79. Per contrasto, precisa Fubini in nota che «eppure gli uomini favoleggiarono gli astri impalliditi per umani delitti o per umane sciagure. L’immagine è simile a quella di Alla primavera, 76: “e d’ira e di pietà pallido il giorno”».

[458] G. Singh, op. cit., p. 72.

[459] G. Leopardi, Ultimo canto di Saffo, vv. 46-58, in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di M. Fubini, cit., pp. 100-101.

[460] A. Negri, op. cit., p. 105. 

[461] Cfr. note di M. Fubini, in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di M. Fubini, cit., p. 101.

[462] Cfr. note di A. Campana, in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di A. Campana, cit., p. 55: «Non vale Satana, come in Dante; non c’è in questo Dite alcun senso punitivo: il suo regno accoglie anzi quasi amorevolmente l’anima disincarnata (ignudo) di Saffo. Il suicidio, contrariamente all’etica cattolica, non è infatti visto come peccato mortale da L.».

[463] A. Negri, op. cit., p. 105: «Ciò che in questo Canto colpisce è lo scuotersi interno di un mondo che sembrava ormai fissato. Esso, questo mondo della trama del senso, è assunto come tale ma percorso, vivificato da soggetti indistruttibili. Se la trama è quella della notte, la voce lirica e il dolore e l’amore sono termini di identificazione soggettiva irrinunciabile».

[464] Commento introduttivo di A. Campana, in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di A. Campana, cit., p. 373.

[465] Cfr. note di A. Campana, in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di A. Campana, cit., p. 377: «Il poeta, ora che è innamorato, non è più dunque solo bendisposto (al contrario degli uomini volgari) o solo intrepido, fermo (com’era del resto già prima di innamorarsi) di fronte all’eventualità del morire: egli ora attende addirittura la morte con ansia, la ammira e la saluta con gioia, come fosse un evento gradevolmente atteso».

[466] Z 107, 1 in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova edizione tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., p. 215.

[467] A. Ferraris, L’ultimo Leopardi, cit., p. 38.

[468] Ibidem.

[469] Entrambe le citazioni sono prese da M. Marcazzan, op. cit., p. 223.

[470] G. Leopardi, Ad Arimane, in Argomenti e abbozzi di poesie, in Poesie e prose vol. I, cit., p. 685: «Perché, dio del male, hai tu posto nella vita qualche apparenza di piacere? l’amore…? Per travagliarci col desiderio, col confronto degli altri, e del tempo nostro passato ec.?». La domanda che il poeta rivolge alla divinità riprende l’invettiva dell’Islandese contro la Natura nell’omonimo dialogo.

[471] G. Leopardi, Ad Arimane, in Argomenti e abbozzi di poesie, in Poesie e prose vol. I, cit., p. 685.

[472] Cfr. il VI dei Pensieri, in G. Leopardi, Operette morali seguite da una scelta dei “Pensieri”, cit., p. 291: «La morte non è male: perché libera l’uomo da tutti i mali, e insieme coi beni gli toglie i desideri. La

[473] Cfr. note in G. Leopardi, Poesie e prose vol. I, cit., p. 1099: «Arimane, (Ahriman, Angra Mainyu) è nel mazdeismo o zoroastrismo, la religione dell’Iran preislamico, lo spirito divino del Male. L’abbozzo dell’Inno interessa anzitutto come testimonianza o conferma dell’idea leopardiana dell’assoluta sovranità del male nell’universo: non prevedendo l’opposizione di Arimane ad alcun Ormuzd (Ohrmazd, Ahura Mazdah), la concezione professata da Leopardi assume infatti, a partire da un certo momento, il carattere di un nero monismo. […] Ma l’abbozzo è altresì importante in relazione ad alcuni luoghi dei Canti, che ad esso riconducono: A se stesso, vv. 14-5; Sopra un basso rilievo, v. 47; Palinodia al Marchese Gino Capponi, vv. 154-64; La ginestra, vv. 124-5. Ad Arimane è di poco anteriore al 29 giugno 1835 (dato che vi si legge: “concedimi ch’io non passi il settimo lustro”) e fu pubblicato per la prima volta dal Carducci, 1898, Spiriti e forme».

[474] A. Ferraris, L’ultimo Leopardi, cit., p. 40.

[475] Ivi, p. 39.

[476] Ivi, p. 40.  

[477] Cfr. A. Dolfi, op. cit., p. 408: «Scartato quel suicidio che lo stoicismo poneva come ultima ratio dinanzi alla costruzione esterna, alla logica stessa dell’imperturbabilità del vero e del giusto, l’urgenza (non per sé

[478] M. Marcazzan, op. cit., p. 267-268: «E certo, come dato reale, il suicidio avrebbe potuto esser taciuto o commentato sommessamente (si pensi all’Ultimo Canto di Saffo) se dietro l’impassibilità dello stoico e la lucida consapevolezza dell’illuminista non avesse trovato credito la tragedia della libertà […] la suggestione del Saul alfieriano, e l’ombra di quel Cecco Nerva che aveva saputo nei mali della repubblica morire incontaminato».

[479] L. Battisti, P. Panella, Tubinga, in Hegel, Numero Uno, 1994. 

[480] E. Severino, In viaggio con Leopardi. La partita sul destino dell’uomo, Milano, Rizzoli, 2015, p. 137. All’interno del capitolo Felice infelice: l’uomo (pp. 137-145), Severino espone una disamina attorno alla presenza del contraddittorio in Leopardi, quando si affida alla tesi aristotelica secondo cui la verità rispetta il principio di non contraddizione. Eppure, «egli afferma che con l’accadimento della ragione il “principio contraddittorio” diventa reale – riesce a “stare in natura” – perché l’uomo è, essenzialmente, desiderio di essere e di essere felice, e ciò nonostante l’uomo è infelice e desidera di non esser più e si uccide. È felice e infelice». (p. 143). Secondo l’analisi di Severino, dunque, Leopardi trova un senso compiuto pure nella contraddizione, poiché riuscirebbe, attraverso le sue ampie riflessioni esposte nello Zibaldone, nei Pensieri, ecc. a giustificare la «realtà dell’assurdo»: infatti, continua il critico, «se l’uomo è felice e infelice in tempi diversi, tuttavia è nello stesso tempo che egli si trova ad avere la possibilità reale, la reale capacità di diventare felice e infelice» (p. 144).

[481] Z I, 249, 3, in G. Leopardi, Zibaldone scelto, in G. Leopardi, Opere vol. III, cit., pp. 122-123. Corsivi miei. Cfr. F.A. Piperno, M. Camilletti, op. cit., p. 260: «L’equivalenza fra antichi e fanciulli, adulti e moderni è un principio molto antico, risalente almeno a Esopo. In Leopardi questa idea è centrale perché su di essa si fonda l’esperienza personale del soggetto: non solo Leopardi la vive in prima persona, ma la mette continuamente al centro della propria riflessione filosofica ed estetica».

[482] N. Bellucci, Itinerari leopardiani, Roma, Bulzoni, 2012, p. 167: il brano «segna la presa d’atto di un evento irreversibile […]; il tempo verbale dell’enunciazione è quello della storia, il passato remoto, che evidenzia il distacco totale rispetto a un’epoca della propria vita, a una parte di sé legata alla sensibilità, all’immaginazione, alla fantasia».

[483] Ibidem.

[484] Ivi, p. 168: non solo nell’immaginario poetico leopardiano Roma è, in quel momento, un luogo centralissimo, ma anche in vista del suo tentativo di fuga la città «da anni rappresenta l’unica meta praticabile per un trasferimento». 

[485] S. Timpanaro, op. cit., pp. 162-163.

[486] F.A. Camilletti, M. Piperno, op. cit., pp. 260-261: «Nell’individuo come nella specie è possibile identificare un periodo ante mutazione e un periodo post mutazione; una frattura drastica separa l’asse del tempo in antico e nuovo, prima e dopo. L’esperienza della mutazione è un’esperienza di “caduta”, in cui si riflettono modelli biblici […] e letterari». 

[487] U. Dotti, op. cit., p. 54: «La virtù di Bruto non era che un idolo, e un idolo di sangue, […] uno sconfitto che non accetta la sconfitta – un capoparte vinto che protesta con gli dei».

[488] B. Zandrino, op. cit., p. 638.

[489] G. Leopardi, A Silvia, in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di M. Fubini, cit., p. 170, vv. 6063: «All’apparir del vero / tu, misera, cadesti: e con la mano / la fredda morte ed una tomba ignuda / mostravi di lontano».

[490] U. Dotti, op. cit., p. 47.

[491] Z III, 291, 3, in G. Leopardi, Zibaldone scelto, in G. Leopardi, Opere vol. III, cit., p. 380. Cfr. G. Leopardi, Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, a cura di A. Ferraris, Torino, Einaudi, 2003, p. 239: «La credulità è, e sarà sempre, come sempre è stata, una sorgente inesauribile di pregiudizi popolari». E, poco più avanti, a p. 243: «Più tosto concederò che talvolta e anco spesse volte sia vantaggio a non sapere il vero. Benché certamente l’ignoranza è vicinissima all’errore, anzi cagione sicura e madre dell’errore». 14 Z I, 478, 1, in G. Leopardi, Zibaldone scelto, in G. Leopardi, Opere vol. III, cit., p. 221: «Questa dev’essere la base di tutta la metafisica (22 dicembre 1820)».

[492] Z 375, 1, in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova edizione tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., p. 294. Corsivi miei.

[493] U. Dotti, op. cit., p. 55: «Il primo è capace di guardare alle cose con tutta l’energia della verità; il secondo è colui che, anziché spalancare gli occhi su un mondo disumano traendone le conseguenze, si consola vilmente con ciò che non è per il solo terrore di affrontare virilmente ciò che è».

[494] S. Timpanaro, op. cit., pp. 170-171.

[495] «Il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, composto all’inizio del ’15, rappresenta il risultato ultimo e, a suo modo, perfetto di quel tipo di divulgazione illuministico-cattolica verso cui, come abbiamo visto, il Leopardi era stato orientato inizialmente dai libri della biblioteca paterna. Appare ancora ben salda in quest’opera la convinzione che religione cattolica e conoscenza razionale coincidono, che gli “errori popolari” sono contrari al dogma cristiano non meno che alla sana filosofia. Quindi i filosofi antichi a volte sono biasimati per esser rimasti essi stessi vittime dei pregiudizi popolari, o addirittura per essersene fatti promotori», ivi, p. 188.

[496] G. Leopardi, Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, cit., p. 243.

[497] B. Biral, op. cit., p. 64: «Egli crede il suo Sistema parallelo e non contrapposto all’insegnamento cristiano, che è vero». Cfr. anche S. Timpanaro, op. cit., p. 196: «Gran parte dei pensieri leopardiani del 1820-22 rivelano questa oscillazione tra il tentativo di metter d’accordo il cristianesimo col suo “sistema” e la ripugnanza, che infine prevalse, ad accettare quel tipo di illusioni negatrici della vita attiva, della felicità terrena, del patriottismo, che erano le illusioni cristiane, ben diverse da quelle dei Greci e Romani antichi». 21 U. Dotti, Riflessioni sul comico e sull’ironia leopardiana, in Il riso leopardiano. Comico, satira, parodia, pp. 1-8, cit., p. 4. 

[498] Commento introduttivo di M. Fubini all’Elogio degli uccelli, in G. Leopardi, Operette morali seguite da una scelta dei “Pensieri”, cit., p. 216.

[499] U. Dotti, Riflessioni sul comico e sull’ironia leopardiana, cit., p. 5. 

[500] G. Leopardi, Elogio degli uccelli, in G. Leopardi, Operette morali seguite da una scelta dei “Pensieri”, p. 221.

[501] Ibidem e ivi, p. 222.

[502] G. Marzot, Storia del riso leopardiano, Firenze, Casa editrice G. D’Anna, 1966, p. 15.

[503] G. Leopardi, Elogio degli uccelli, in G. Leopardi, Operette morali seguite da una scelta dei “Pensieri”, p. 222. Corsivi miei. 

[504] Tutte le citazioni sono prese da ivi, p. 221.

[505] G. Marzot, op. cit., p. 17.

[506] U. Dotti, Riflessioni sul comico e sull’ironia leopardiana, cit., p. 7. Si veda quanto scrive a p. 9: «Il riso leopardiano, oltre che esercitare la sacrosanta funzione di smascheramento dei vizi sociali, adempie ad una di consolazione e di autodominio: conforta delle “indegnità della fortuna” e dà una padronanza di sé e degli altri non diversa da quella che è posseduta da chi è preparato a morire».

[507] M.A. Rigoni, op. cit., p. 44, spiega: «L’estetizzazione dell’antico è la conseguenza di una trasformazione estetica di tutta la conoscenza e, insieme, il momento centrale e privilegiato di questo processo».

[508] Ivi, p. 23.

[509] Ibidem: «Di fronte alla totalità materiale della natura e dell’uomo antico, la ragione si pone come principio di quella “spiritualizzazione” che è l’essenza stessa della civiltà moderna: pratica della separazione, del distacco e dell’arbitrio metafisico. La ragione, che ha insediato nel luogo dell’esteriorità, dell’immaginazione, della bellezza e della poesia primitiva il dominio dell’interiorità, della verità, della riflessione e della scienza, non solo è causa di infelicità al vivente, ma costituisce anche, d’altra parte, l’organo più recente e più debole della conoscenza».

[510] M. Gigante, Leopardi e l’antico, Bologna, Il Mulino, 2002, p. 123.

[511] M.A Rigoni, op. cit., p. 23. Il critico rimanda alla polemica religiosa con Lamennais. A tal proposito, cfr. anche B. Biral, op. cit., p. 63: «Dunque per gli entusiasmi che suscita e non già per il suo contenuto di verità egli prende la difesa della religione; e difatti il dissenso con il Lamennais scoppia quando il poeta, maturatosi alla scuola del dolore, colloca sullo stesso piano verità ed errore; anzi, preferisce senz’altro l’errore se questo serve, come servì, a render l’uomo più attivo, più appassionato. Se l’uomo tende alla felicità come la fame tende al cibo, l’uomo ha bisogno non di conoscere, ma di sentire infinitamente».

[512] Cfr. C. Fenoglio, Leopardi moralista [2020], Venezia, Marsilio, 2021, p. 41: «In quel periodo Leopardi sta compulsando in modo sistematico l’Essai sur l’indifférence en matière de religion di Lamennais, sulla scorta del quale comincia a far interagire storia e religione». 

[513] Cfr. B. Biral, op. cit., p. 63: «Il Leopardi sembrerebbe destinato a cader nelle braccia del Lamennais, che nella filosofia moderna indica la fonte di ogni egoismo. Ma con il passar dei mesi ci accorgiamo che la sua attenzione si rivolge non alla verità ma alle azioni e alle conseguenze che questa produce nella vita reale; e alla fine religione e illusione vengono considerate equivalenti».

[514] S. Timpanaro, op. cit., p. 189.

[515] B. Biral, op. cit., pp. 60-61: «Lo stesso cristianesimo è la fondamentale componente storica che ha generato la contraddittoria situazione dell’uomo moderno travagliato dalla consapevolezza della propria miseria. Al cristianesimo attribuirà in seguito la responsabilità di aver potentemente ingigantito, attraverso le dispute teologiche e i ragionamenti su enti astratti, la facoltà razionale che ha alterato lo spirito e il volto della società umana preparando il terreno al sorgere dello stesso ateismo».

[516] C. Fenoglio, op. cit., p. 41: «Ma nello Zibaldone quest’ultima [la religione] è collocata sotto le insegne dell’errore benefico, della fertile illusione, e non sotto quelle della Verità, come invece avveniva nel razionalismo cattolico di Lamennais».

[517] S. Timpanaro, op. cit., pp. 194-195: «Tuttavia, di fronte all’uso apologetico, filocattolico che il Lamennais della prima maniera faceva delle osservazioni di Montesquieu, si ribellava la profonda onestà e chiarezza del Leopardi, convinto della dolorosità del vero, ma non per questo disposto a gabellare il falso per vero e a credere nella obiettiva verità delle illusioni religiose».

[518] B. Biral, op. cit., p. 61.

[519] Z I, 479, 3, in G. Leopardi, Zibaldone scelto, in G. Leopardi, Opere vol. III, cit., p. 222. Datato 23 dicembre 1820. 

[520] S. Timpanaro, op. cit., p. 204.

[521] G. Leopardi, Zibaldone scelto, in G. Leopardi, Opere vol. III, cit., p. 243. Datato 21 gennaio 1821. 47 M.A. Rigoni, op. cit., p. 34.

[522] Z, 315, 1 in G. Leopardi, Zibaldone scelto, in G. Leopardi, Opere vol. III, cit., p. 150.

[523] Ibidem. Come si è esposto nel capitolo precedente, Leopardi trova una giustificazione al suicidio nel momento in cui questo è compiuto in qualità di atto eroico, come avviene, appunto, nel Bruto minore. Ma prima di arrivare a questa giustificazione, che rendeva senz’altro lecite così le sue molteplici tentazioni di cercare la morte, vive dentro di sé un diverbio travagliato. Spiega Biral: «Contro la morale cristiana si profila e s’impone un gravissimo problema che affatica l’animo del Leopardi durante il 1821: il suicidio. Non è questo per il Leopardi un problema di estrazione libresca […]. Gli viene dal cuore ulcerato. Ne ha più volte patito il desiderio: “…e provava una gioia feroce ma somma nell’idea del suicidio”. Il suicidio è una sua tentazione, non solo per sfuggire alle sofferenze reali, ma anche per vendicarsi della fortuna ed evitare il pericolo di cadere nella inerzia della rassegnazione: quella rassegnazione così raccomandata dagli esempi familiari».

[524] F.A. Camilletti e M. Piperno, op. cit., p. 258.

[525] F. D’Intino, L’immagine della voce. Leopardi, Platone e il libro morale, Venezia, Marsilio, 2009, p. 93: «Fu su questo terreno che si innestò l’influsso decisivo della Staël. Lo dice Giacomo in una pagina dello Zibaldone: a indurlo a passare “dalla poesia alla prosa”, dalla “bella letteratura” “alla ragione, alla filosofia, alla matematica delle astrazioni”, fu la lettura di “alcune opere di Mad. di Staël”».

[526] F.A. Camilletti e M. Piperno, op. cit., p. 258.

[527] F. D’Intino, L’immagine della voce. Leopardi, Platone e il libro morale, cit., p. 97: «“Gli antichi prendevano spesso il loro punto d’appoggio in alcuni errori, spesso in idee fittizie; ma finalmente sagrificavano se stessi a ciò che riconoscevano per virtù; e quello che ci manca in oggi, è una leva per rialzare l’egoismo: tutte le forze morali di ciascun uomo si trovano concentrate nell’interesse personale”. Non sappiamo con certezza se Leopardi abbia letto questa frase; ma vi avrebbe trovato un’idea capace di stimolare potentemente la sua immaginazione: l’idea di una leva che potesse “rialzare” (cioè risollevare a un orizzonte etico comune) l’egoismo, sacrificando l’“interesse personale”. […] A muovere gli uomini saranno anche, come dice la Staël, “idee fittizie”, ma è grazie a esse (Leopardi le chiamerà poi “larve” nella Storia del genere umano) che gli Antichi potevano dimenticare il proprio interesse personale e vivere moralmente il momento presente, in vista dell’immortalità». 

[528] Z I, 315, 1 in G. Leopardi, Zibaldone scelto, in G. Leopardi, Opere vol. III, cit., p. 151.

[529] Entrambe le citazioni sono prese da M.A. Rigoni, op. cit., p. 32. 56 S. Timpanaro, op. cit., p. 195.

[530] Z I, 197, 1 in G. Leopardi, Zibaldone scelto, in G. Leopardi, Opere vol. III, cit., p. 85. Corsivi miei. Si noti la ripresa del sintagma «di quel maligno amaro e ironico sorriso» nel Bruto minore, quando il suicida «maligno alle nere ombre sorride» (v. 45).

[531] Entrambe le citazioni sono prese da F. D’Intino, Leopardi: eccezione, esempio e persuasione. La funzione dei volgarizzamenti in prosa tra 1822 e 1827, in «Bollettino di italianistica», vol. 12, No. 1, 2015, pp. 3851, p. 48.

[532] Entrambe le citazioni sono prese da ibidem. Continua: «La vera alternativa alla “moralità pratica” non è, secondo Leopardi, la “morale teorica”, bensì la morte, che con essa coincide».

[533] Entrambe le citazioni sono prese da C. Luporini, Decifrare Leopardi, cit., p. 245.

[534] Ibidem. Il concetto di «zona» è espresso a p. 253: «Con questi interrogativi la lettera a De Sinner ci fa rimbalzare indietro nel tempo leopardiano, in zona “Bruto minore”. Che è proprio una “zona”».

[535] E. Montale, In limine, vv. 11-14, in E. Montale, Tutte le poesie, a cura di G. Zampa [1984], Milano, Mondadori, 2001, p. 7.

[536] B. Zandrino, op. cit., p. 639.

[537] Ivi, p. 642. Zandrino spiega che Bruto, nelle fonti, è «confortato nella morte dalla contemplazione del cielo stellato, dal ricordo degli amici morti in battaglia, dalla constatazione di non essere stato deluso da nessuno di loro, ma solo dalla fortuna, dalla speranza della salvezza di coloro che gli sono intorno e dalla certezza di essere più felice dei vincitori, non solo rispetto al passato, ma anche rispetto al presente, per il ricordo della virtù che i nemici non possono lasciare con l’aiuto delle armi e delle ricchezze, con la conquista ingiusta e malvagia del potere, con il sacrificio degli uomini giusti e onesti (Bruto, 52, 4-8; 51, 1-2)».

[538] G. Leopardi, Comparazione delle sentenze ec., in G. Leopardi, Poesie e prose vol. II, cit., p. 267.

[539] Ibidem. In riferimento ad altre fonti, Zandrino nota che Leopardi capovolge «la magnanima immagine di Bruto che, nelle Storie romane di Dione Cassio (XLVII, 49, 1-2), persa ogni speranza di recuperare ogni cosa, di potersi salvare e ritenendosi immeritevole di cadere vivo in potere dei nemici, dopo aver ad alta voce abiurato la virtù, ordina a uno dei suoi di ammazzarlo».

[540] Entrambe le citazioni sono prese da G. Leopardi, Frammento sul suicidio, in G. Leopardi, Poesie e prose vol. II, cit., p. 276.

[541] M.A. Rigoni, op. cit., p. 31.

[542] Ivi, p. 32.

[543] C. Luporini, Decifrare Leopardi, cit. p. 253: il critico rileva che confrontando la Comparazione con i passi zibaldoniani del ’20 dedicati a Teofrasto «ci si rende subito conto che essi ben poco hanno a che fare col personaggio Bruto, e seguivano un percorso problematico proprio, il quale non richiedeva per nulla detta comparazione: essi sono andati a costituire il corpo principale del testo in questione (mentre nello Zibaldone non c’è praticamente nulla su Bruto suicida)».  71 Ibidem. 

[544] Z I, 386, 2, in G. Leopardi, Zibaldone scelto, in G. Leopardi, Opere vol. III, cit., pp. 194-195.

[545] G. Leopardi, Comparazione delle sentenze ec., in G. Leopardi, Poesie e prose vol. II, cit., p. 266. Corsivo nel testo. 

[546] Ivi, p. 269.

[547] C. Luporini, Decifrare Leopardi, cit., p. 266: «Ci si potrebbe domandare che cosa hanno in comune essi, nella presentazione fattane da Leopardi, oltre il fatto di appartenere ambedue, benché in tempi storici diversi, alla dimensione dell’antico, così acutamente percepita e scrutata da Leopardi nel suo contrasto col moderno».

[548] G. Leopardi, Comparazione delle sentenze ec., in G. Leopardi, Poesie e prose vol. II, cit., pp. 268-269.

[549] C. Luporini, op. cit., p. 255.

[550] B. Zandrino, op. cit., pp. 643-644.

[551] G. Leopardi, Comparazione delle sentenze ec., in G. Leopardi, Poesie e prose vol. II, cit., p. 270: «E questa scienza universale non fu subordinata da lui, come da Platone, all’immaginativa, ma solamente alla ragione e all’esperienza, secondo l’uso d’Aristotele; e indirizzata, non allo studio né alla ricerca del bello, ma del suo maggior contrario, ch’è propriamente il vero».

[552] S. Timpanaro, op. cit., p. 200.

[553] G. Leopardi, Comparazione delle sentenze ec., in G. Leopardi, Poesie e prose vol. II, cit., p. 267. Corsivo nel testo. Cfr. Z I, 386, 1, in G. Leopardi, Zibaldone scelto, in G. Leopardi, Opere vol. III, cit., p. 194: «Teofrasto, notato dagli antichi per uomo laboriosissimo e infaticabile negli studi, venuto a morte nell’estrema vecchiezza per l’assiduità dello scrivere, […] e interrogato dagli scolari se lasciasse loro nessun precetto o ricordo, rispose: Nient’altro se non che l’uomo disprezza molti piaceri a causa della gloria. [ecc.]». Si veda in proposito S. Timpanaro, op. cit., p. 201: «Certo, noi oggi sappiamo che le ultime parole di Teofrasto, dato e non concesso che siano almeno in parte autentiche, non autorizzano a fare un pessimista di un pensatore così pieno di aristotelico equilibrio e di lieta curiosità empirica come egli fu; e non dobbiamo dimenticare che a quell’epoca il Leopardi non aveva ancora letto i Caratteri né alcun altro degli scritti teofrastei a noi giunti».

[554] G. Leopardi, Comparazione delle sentenze ec., in G. Leopardi, Poesie e prose vol. II, cit., p. 268.

[555] Z I, 387, 2, in G. Leopardi, Zibaldone scelto, in G. Leopardi, Opere vol. III, cit., p. 195.

[556] «Ma di suo fato ignara / e degli affanni suoi, vota d’affanno / visse l’umana stirpe; alle secrete / leggi del cielo e di natura indutto / valse l’ameno error, le fraudi, il molle / pristino velo; e di sperar contenta / nostra placida nave in porto ascese»: così è descritta l’ignoranza sopra il destino umano – poiché velata dalle illusioni e alterata da false credenze – dei «nostri progenitori» (Fubini) nell’Inno ai Patriarchi, vv. 97-103, in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di M. Fubini, cit., pp. 93-94.

[557] C. Luporini, Decifrare Leopardi, cit., p. 255.

[558] G. Leopardi, Comparazione delle sentenze ec., in G. Leopardi, Poesie e prose vol. II, cit., p. 269.

[559] Ivi, p. 268.  

[560] Cfr. U Dotti, Lo sguardo sul mondo. Introduzione a Leopardi, cit., p. 55: «Ma ci sono altre ed estremamente importanti divergenze tra l’uomo antico e il moderno: la non rassegnazione del primo ai dolori e alle miserie del mondo; la sua convinzione di una possibile felicità dell’uomo e della sua società su questa terra; il suo abito eroico e non avvezzo ad accogliere passivamente la “scoperta” di quanto in realtà la natura sia ostile ai desideri umani».

[561] S. Timpanaro, op. cit., p. 198: «E tuttavia l’elemento fantasioso, irrazionale, di questa “mezza filosofia” antica, se giovava a tener vive le illusioni, costituiva un ostacolo obiettivo al raggiungimento della verità. Per un verso le filosofie degli antichi avevano serbato una funzione sociale, di stimolo alla virtù, che mancava alle aride filosofie moderne; per un altro verso, giudicate da un punto di vista strettamente scientifico, esse erano “le pazze filosofie degli antichi”, inferiori alle moderne proprio perché avevano preteso di “insegnare e fabbricare”, mentre oggi la ragione umana aveva acquistato coscienza del proprio compito esclusivamente negativo».

[562] Entrambe le citazioni sono prese da L. Neri, La responsabilità della prosa. Retorica e argomentazione nelle «Operette morali» di Leopardi, Milano, LED, 2008, p. 64.

[563] Cfr. note di M. Fubini alla Storia del genere umano, in G. Leopardi, Operette morali seguite da una scelta dei “Pensieri”, cit., p. 67: «In questo discorso di Giove, che descrive con tanta pacatezza e lucidità nei suoi aspetti e nelle sue cause l’infelicità degli uomini, dopo la scomparsa delle benefiche illusioni, il Leopardi ha rielaborato la materia di numerosissimi passi dello Zibaldone, nonché di passi delle sue lettere».

[564] Cfr. note di Galimberti in G. Leopardi, Operette morali, a cura di C. Galimberti, Napoli, Guida, 1986,

p. 463: «La canz. Bruto minore e la Comparazione presentano uno dei tentativi più determinati di fissare nel tempo quel diaframma tra mondo “antico” e mondo “moderno” che è centrale nella problematica del primo L.; finché […] nella St. d. gen. um. la vecchiezza del mondo sarà fatta coincidere col progrediente involversi del tempo storico, e la felicità del vivere con lo spazio astorico del mito».

[565] Commento e note alla Comparazione delle sentenze ec., in G. Leopardi, Poesie e prose vol. II, cit., p. 1379.

[566] Entrambe le citazioni sono prese da S. Campailla, La vocazione di Tristano. Storia interiore delle “Operette morali”, Bologna, Pàtron, 1977, pp. 105-106.

[567] G. Leopardi, Comparazione delle sentenze ec., in G. Leopardi, Poesie e prose vol. II, cit., p. 268. 97 Cfr. L. Neri, op. cit., p. 58: «La facoltà immaginativa permette l’ingresso nel sistema della natura, inaccessibile alla pura e fredda ragione. Suo oggetto è anche la rappresentazione del vero: che siano poi la realtà e le circostanze a rivelare sempre più frustrante quella stessa attitudine sentimentale, quell’ansia di ricerca della felicità che appartengono tipicamente all’uomo, risulta palese nella scrittura delle Operette morali». 

[568] S. Campailla, op. cit., p. 106.

[569] G. Leopardi, Comparazione delle sentenze ec., in G. Leopardi, Poesie e Prose vol. II, cit., p. 270.

[570] Ivi, p. 271.

[571] W. Binni, Lettura delle Operette morali, cit., p. 27.

[572] G. Leopardi, Storia del genere umano, in G. Leopardi, Operette morali seguite da una scelta dei “Pensieri”, cit., p. 68.

[573] Cfr. C. Luporini, Decifrare Leopardi, cit., p. 257.

[574] M.A. Rigoni, op. cit., pp. 21-22: «La ragione non è, in tale condizione, uno strumento di conoscenza, ma un organo materiale della natura predisposto all’economia e al mantenimento dell’esistenza […]. La volontà di verità è verità suicida e forma il vero contenuto della colpa originaria, che non rappresenta quindi l’“offuscazione dell’intelletto”, come sostiene l’esegesi teologica, ma anzi la nascita stessa dell’Aufklärung: “la degradazione dell’uomo non fu quella della ragione né della cognizione, né l’offuscazione dell’intelletto. Anzi dopo il peccato, e mediante il peccato l’uomo ebbe l’intelletto rischiaratissimo” (Zib. 434)».

[575] G. Leopardi, Cantico del gallo silvestre, in G. Leopardi, Operette morali seguite da una scelta dei “Pensieri”, cit., p. 230.

[576] L. Neri, op. cit., p. 33.

[577] A. Vigorelli, op. cit., p. 189.

[578] Lettera A Melchiorre Missirini, a Roma (Recanati 15 Gennaio 1825), in G. Leopardi, Opere vol. II, cit., pp. 861-862. Corsivi miei. 

[579] A. Vigorelli, op. cit., p. 190.

[580] Entrambe le citazioni sono prese da S. Timpanaro, op. cit., p. 200.

[581] Ivi, p. 201.

[582] E. Montale, Piove, in E. Montale, Satura, a cura di R. Castellana. Con un saggio di R. Luperini e uno scritto di F. Fortini [2009], Milano, Mondadori, 2018, pp. 137-138, vv. 41-53.

[583] Lettera a Carlo Bunsen, Roma (Bologna 1° Febbraio 1826), in G. Leopardi, La vita e le lettere, cit., p. 328: «Spero di poterle, di qui a non molto, mandare un esemplare del Manuale di Epitteto che si stamperà presto in Milano, tradotto da me ultimamente con tutto l’amore e lo studio possibile. Vi ho premesso un brevissimo preambolo sopra la filosofia stoica, che io mi trovo avere abbracciato naturalmente, e che mi riesce utilissima».

[584] Lettera Ad Antonio Fortunato Stella – Milano (Bologna 4 Febbraio 1826), in G. Leopardi, Tutte le opere, con introduzione e a cura di W. Binni, con la collaborazione di E. Ghidetti [1969], Firenze, Sansoni, 1976, pp. 1236-1237, vol. I. 

[585] Cfr. A. Dolfi, op. cit., pp. 418-419: «Scrivendo a Giacomo, che aveva da poco compiuto l’Epitteto, Carlo Antici, informato da amici di una nuova raccolta leopardiana, richiamava il nipote a quei moniti più volte avanzati nelle lettere del ’25, soprattutto ripetendo la sua preoccupazione per le liriche e il discorso intorno a Bruto […]. In particolare la sua apprensione per la fama di Giacomo a Roma, negli ambienti ecclesiastici, gli faceva ricordare ancora una volta quanto la figura di Bruto fosse contraria al “divino Vangelo”, come il colpevole comportamento dell’eroe romano fosse stato determinato dall’“essere egli allievo soltanto dell’orgogliosa Stoa”».

[586] Entrambe le citazioni sono prese da ivi, p. 420.

[587] S. Timpanaro, op. cit., p. 218.

[588] G. Leopardi, Detti memorabili di Filippo Ottonieri, in G. Leopardi, Operette morali seguite da una scelta dei “Pensieri”, cit., pp. 190-191.

[589] Cfr. note di M. Fubini in ibidem: «Vero è che, interpreti più o meno rettamente le dottrine degli stoici come quelle degli epicurei, affatto estranei al suo spirito sono i dettami della saggezza antica, e certo ideali non potevano essere per lui né l’apatia degli stoici né l’atarassia degli epicurei: nello stoicismo perciò egli vide soltanto la filosofia dei deboli, nell’epicureismo la dottrina che consiglia l’ozio e la negligenza e l’uso di quelle voluttà del corpo, che paiono consolare della mancanza della felicità, che sola appagherebbe l’anima».

[590] U. Dotti, Riflessioni sul comico e sull’ironia leopardiana, cit., p. 5. 

[591] Manuale di Epitteto, introduzione e commento di P. Hadot. Testo greco a fronte, Torino, Einaudi, 2006, p. 138.

[592] A. Vigorelli, op. cit., p. 194.

[593] Lettera A Giampietro Vieusseux, a Firenze (Bologna 4 Marzo 1826), in G. Leopardi, Opere vol. II, cit., pp. 880-882.

[594] L. Cellerino, L’io del topo. Pensieri e letture dell’ultimo Leopardi, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1997, p. 9.

[595] Manuale di Epitteto, cit., p. 138.

[596] G. Leopardi, Manuale di Epitteto, in G. Leopardi, Poesie e prose vol. II, cit., pp. 1046-1047.

[597] Lettera A Giampietro Vieusseux, a Firenze (Bologna 4 Marzo 1826), in G. Leopardi, Opere vol. II, cit., p. 881: «La mia vita, prima per necessità di circostanze e contro mia voglia, poi per inclinazione nata dall’abito convertito in natura e divenuto indelebile, è stata sempre, ed è, e sarà perpetuamente solitaria, anche in mezzo alla conversazione, nella quale, per dirlo all’inglese, io sono più absent di quel che sarebbe un cieco e sordo. Questo vizio dell’absence è in me incorreggibile e disperato».

[598] C. Fenoglio, op. cit., p. 23: «Ma è una solitudine popolata di libri, che consente di studiare i costumi degli uomini, di analizzarne le passioni, comportamenti e modelli di riferimento rimanendo sostanzialmente estraneo alla società del proprio tempo».

[599] Lettera A Giampietro Vieusseux, a Firenze (Bologna 4 Marzo 1826), in G. Leopardi, Opere vol. II, cit., p. 881: «Da questa assuefazione e da questo carattere nasce naturalmente che gli uomini sono a’ miei occhi quello che sono in natura, cioè una menomissima parte dell’universo, e che i miei rapporti con loro e i loro rapporti scambievoli non m’interessano punto, e non interessandomi, non gli osservo se non superficialmente. Bensì sono assuefatto ad osservar di continuo me stesso, cioè l’uomo in se, e similmente i suoi rapporti col resto della natura, dai quali, con tutta la mia solitudine, io non mi posso liberare».

[600] C. Fenoglio, op. cit., p. 20.

[601] Si fa riferimento al titolo del capitolo Una morale fragile, in C. Fenoglio, op. cit., pp. 9-29. Cfr. S. Timpanaro, op. cit., p. 220: «In questo senso anche lo stoicismo era una “morale dei deboli”».

[602] Entrambe le citazioni sono prese dall’introduzione di M.A. Rigoni in G. Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani, cit., pp. 9-10.

[603] Ivi, p. 52. Corsivi miei. 

[604] C. Fenoglio, op. cit., p. 27.

[605] F. Cacciapuoti, op. cit., p. 135.

[606] Cfr. S. Timpanaro, op. cit., pp. 218-219: «Alla possibilità di raggiungere la perfetta atarassia il Leopardi, come già sappiamo, non credette mai; e nella chiusa del preambolo […] ritorna il concetto, già svolto nell’Ottonieri, che l’imperturbabilità non dipende solo dal nostro volere […]. Ciò non toglie che l’interesse per Epitteto, e per la filosofia ellenistica in generale, si accordi realmente con una fase di disimpegno politico e di tentativo di adattamento alla realtà della vita, che il Leopardi attraversò all’incirca dal ’24 al ’27)».

[607] G. Leopardi, Manuale di Epitteto, in G. Leopardi, Poesie e prose vol. II, cit., p. 1045. Corsivi miei.

[608] Commento e note al Manuale di Epitteto in ivi, p. 1454.

[609] C. Fenoglio, op. cit., p. 21: «Il moralista a cui si palesa l’inutilità della morale finisce così per ricostruirla ponendo alla sua base non più i principi di virtù e di gloria, bensì quello della consolazione: ed è nel segno della consolazione e dell’affetto reciproci che Leopardi integra morale e poesia, recuperando il valore dell’illusione e del nascondimento della verità».

[610] G. Leopardi, Disegni letterari, in G. Leopardi, Poesie e prose vol. II, cit., p. 1218, § XI.  145 A. Dolfi, op. cit., pp. 398-399.

[611] G. Leopardi, Manuale di Epitteto, in G. Leopardi, Poesie e prose vol. II, cit., p. 1046. Corsivi miei. 

[612] Ivi, p. 1045.

[613] A. Dolfi, op. cit., p. 421.

[614] G. Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani, cit., pp. 52-53. Corsivi miei. 

[615] A. Dolfi, op. cit., p. 407.

[616] G. Leopardi, Disegni letterari, in ivi, p. 1217, § XI.  152 Cfr. F. Cacciapuoti, op. cit., pp. 135-136.

[617] Ibidem.

[618] G. Leopardi, Manuale di Epitteto, in G. Leopardi, Poesie e prose vol. II, cit., p. 1046.

[619] Cfr. commento e note in G. Leopardi, Manuale di Epitteto, in ivi, p. 1454: «La “guerra feroce e mortale al destino” appartiene a un mondo “eschileo”, in cui il pensiero è ancora sotto la tutela della poesia e del mito, ma laddove esso, filosoficamente emancipato, abbia prodotto la “cognizione della imbecillità naturale e irreparabile dei viventi”, non vi sono che deboli alla ricerca, contro le tribolazioni dell’esistenza, di un ragionevole “stato di pace, e quasi soggezione dell’animo, e di servitù tranquilla”. Questo rovesciamento della condizione di “continua guerra” che è la vita […] rappresenta, nella sua innaturalezza filosofica e morale, il vertice della conoscenza». 156 A. Vigorelli, op. cit., p. 195.

[620] Cfr. S. Timpanaro, op. cit., p. 220: «Il Leopardi, spingendo lo sguardo più a fondo, vide ciò che la morale stoica e le altre morali ellenistiche avevano in comune col cristianesimo: la rinuncia a dominare il mondo esterno. Egli comprese perfettamente che il concetto di libertà interiore, per quanto orgogliosamente affermato e vissuto, nasceva pur sempre dalla consapevolezza dell’impossibilità di conquistarsi la libertà esteriore, sia sul piano politico, sia su quello del rapporto uomo-natura».

[621] G. Leopardi, Manuale di Epitteto, in G. Leopardi, Poesie e prose vol. II, cit., p. 1045.

[622] Entrambe le citazioni sono prese da A. Dolfi, op. cit., pp. 422-423.

[623] E a distanza di pochi anni, nel 1829, la riflessione del recanatese attorno alle civiltà antica e moderna permane, quasi come un’ossessione, tant’è che nei Disegni letterari si legge: «Parallelo della civiltà degli antichi (cioè Greci e Romani) e di quella dei moderni. Considerata l’origine e la natura sua, la civiltà moderna è un risorgimento; e gran parte di quello che in questo genere noi chiamiamo acquistare, non è che un ricuperare. La civiltà nostra ha le sue radici nell’antica; e da questa può tuttavia prendere accrescimento, come può una lingua figlia dalla lingua madre; come la lingua italiana dalla latina. In tutti i modi, non può essere di piccolo rilievo, sì alla filosofia speculativa, e sì all’uso pratico, l’investigare accuratamente quella civiltà che è madre della nostra, e paragonarla alla figliuola. Risultato da questo Parallelo, che a noi resta molto a ricuperare della civiltà degli antichi», in G. Leopardi, Disegni letterari, in G. Leopardi, Poesie e prose vol. II, cit., p. 1217, § XI.

[624] A. Huxley, Il mondo nuovo. Ritorno al mondo nuovo, traduzione di L. Gigli e L. Bianciardi [1971], Milano, Mondadori, 199, p. 31.

[625] C. Fenoglio, op. cit., p. 24.

[626] Ibidem e ivi, p. 25.

[627] A. Negri, op. cit., p. 222.

[628] Ibidem. Si veda quanto scrive Negri a p. 227: «La virtù, la potenza di rottura non trovano in ciò nutrimento. Ma vi è una seconda via attraverso la quale la virtù cerca di riconquistare il suo nome e la rottura un progetto potente: è la via nella quale il paradosso non viene posto nell’etica ma nel rapporto fra etica e mondo – e l’immaginazione si confronta all’etica e cerca di farsi, con essa, un tutt’uno materiale».

[629] C. Fenoglio, op. cit., p. 46: nel raffronto tra il pensiero di Leopardi e quello di Montesquieu, Fenoglio spiega che per il recanatese la decadenza storica «è frutto non di specifici eventi, ma di un mutamento civile e culturale – ossia morale – che riveste il rapporto fondamentale fra l’uomo e la natura».

[630] A. Negri, op. cit., p. 223.

[631] Tutte le citazioni presenti in questo segmento sono prese dal commento introduttivo ai Paralipomeni della Batracomiomachia, in G. Leopardi, Poesie e prose vol. I, cit., p. 1006. 

[632] C. Fenoglio, op. cit., p. 123.

[633] A. Ferraris, L’ultimo Leopardi, cit., p. 129. 

[634] Cfr. ivi, p. 131: «Com’è noto, le rane e i granchi adombrano, sotto il velo del travestimento zoomorfo, i papalini e gli austriaci, sullo sfondo della libera rievocazione storica della situazione politica italiana dopo i moti del 1831, con ampiezza di riferimenti alle vicende del regno di Napoli tra il 1815 e il 1821».

[635] Ibidem.

[636] Commento introduttivo di F. Russo in G. Leopardi, I Paralipomeni, a cura di F. Russo, Milano, Franco Angeli, 1997, pp. 17-18.

[637] G. Marzot, Storia del riso leopardiano, Firenze, Casa editrice G. D’Anna, 1966, p. 78.

[638] Entrambe le citazioni sono prese da A. Negri, op. cit., p. 221: «Questo è il secondo nucleo insistente dei pensieri, ed è a partire da esso che il quadro della riflessione leopardiana si apre, dal contrasto cioè che, contro questa machiavellica figura della società e del sapere, impone la potenza della virtù». 176 C. Fenoglio, op. cit., p. 124.

[639] A. Negri, op. cit., p. 224.

[640] Commento introduttivo di F. Russo in G. Leopardi, I Paralipomeni, cit., p. 19. 

[641] Commento introduttivo ai Paralipomeni della Batracomiomachia in G. Leopardi, Poesie e prose vol. I, cit., pp. 1005-1006.

[642] Z VII, 329, 3, in G. Leopardi, Zibaldone scelto, in G. Leopardi, Opere vol. III, cit., p. 837: «Ridete franco e forte, sopra qualunque cosa, anche innocentissima, con una o due persone, in un caffè, in una conversazione, in via: tutti quelli che vi sentiranno o vedranno rider cosí, vi rivolgeranno gli occhi, vi guarderanno con rispetto, se parlavano taceranno, resteranno come mortificati, non ardiranno mai rider di voi, se prima vi guardavano baldanzosi o superbi, perderanno tutta la loro baldanza e superbia verso di voi. In fine il semplice rider alto vi dà una decisa superiorità sopra tutti gli astanti o circostanti, senza eccezione. Terribile ed awful è la potenza del riso: chi ha il coraggio di ridere, è padrone degli altri, come chi ha il coraggio di morire».

[643] Commenta così Fabio Russo in G. Leopardi, I Paralipomeni, cit., p. 153: «Espressione assai felice, con l’efficace effetto buffo di mostrare una situazione di riso più che di pietà, propria dei Topi sbandati sotto il controllo di Camminatorto».

[644] Commento introduttivo ai Paralipomeni della Batracomiomachia in G. Leopardi, Poesie e prose vol. I, cit., p. 1007.

[645] Nota al testo in G. Leopardi, I Paralipomeni, cit., p. 147. 

[646] Commento introduttivo ai Paralipomeni della Batracomiomachia in G. Leopardi, Poesie e prose vol. I, cit., p. 1004.

[647] A. Ferraris, L’ultimo Leopardi, cit., p. 138. 186 Ibidem. 

[648] Ivi, p. 139: «La virtù repubblicana rivela, nell’antagonismo con la “ferrata necessità”, un’effettiva capacità di presa sulla realtà politica circostante, particolarmente là dove lo scontro tra l’ideale di libertà e il dispotismo assume contorni più netti e drammatici».

[649] G. Leopardi, I Paralipomeni, cit., p. 147 (V, 47-48).

[650] A. Negri, op. cit., p. 251.

[651] Cfr. A. Ferraris, L’ultimo Leopardi, cit., p. 138: «A differenza dell’Ettore foscoliano, […] Rubatocchi non avrà “onore di pianti”, giacché l’età moderna ha sperimentato l’eclissi dell’amor patrio: e su di lui si posa non la luce radiosa del Sole, che accompagna idealmente nel tempo la memoria del vinto dei Sepolcri, ma l’ombra notturna di un cielo senza dei».

[652] A. Negri, op. cit., p. 252.

[653] Cfr. ibidem: «Con ciò, un momento fondamentale di rottura metafisica entra nell’opera politica di Leopardi. La gentilezza dell’esposizione ontologica della rottura non inganni sulla sua radicalità. Con l’inizio del Canto VI finisce così quella che si può certamente chiamare la prima parte dei Paralipomeni, e cioè la costruzione poetica attorno a una trama storica – fino al momento in cui la trama storica si dirompe e alla sua miseria, al suo infame tempo si oppongono virtù e un “altro” tempo. Di qui alla fine del poemetto, d’altronde incompiuto, la trama storica non riemerge più».

[654] Commento introduttivo di F. Russo in G. Leopardi, I Paralipomeni, cit., p. 29.

[655] A. Negri, op. cit., p. 251: «Questa verità teorica ha un immediato risvolto poetico; essa esige che un’estrema violenza del chiaroscuro, della scrittura eroica attraversi il tessuto sarcastico della documentazione dell’esistente. Da questo punto di vista il canto V è al centro della Batracomiomachia».

[656] A. Ferraris, L’ultimo Leopardi, cit., p. 137. 

[657] Nota al testo in G. Leopardi, I Paralipomeni, cit., p. 146: Russo parla di una «mossa tragica ed estrema di un crescendo drammatico» che descrive la scena, in cui si fa spazio, nell’immaginario del lettore, il momento in cui «cognati petti il vincitor calpesta» (v. 80).

[658] Ibidem (V, 45-46).

[659] Cfr. nota al testo in ibidem: «C’è una concomitanza tra il calar del sole con il conseguente farsi notte e il venir meno del valoroso Rubatocchi, per il quale anche si può accostare l’inciso “densato della notte il velo”. Allora “cadde”, detto con questa mesta solennità, ma il “cielo” equivalente a “Natura” non lo vede forse anche perché scuro, buio, e quindi l’atto del “cader” rimane diremmo non visto alla luce del giorno».  199 Ivi, p. 23.

[660] Entrambe le citazioni sono prese dal commento introduttivo in ivi, p. 29.

[661] Entrambe le citazioni sono prese da ibidem.

[662] A. Negri, op. cit., p. 254.

[663] Ibidem. 

[664] Commento introduttivo di F. Russo in G. Leopardi, I Paralipomeni, cit., p. 38.

[665] Ivi, p. 37.

[666] G. Leopardi, Detti memorabili di Filippo Ottonieri, in G. Leopardi, Operette morali seguite da una scelta dei “Pensieri”, cit., p. 208.

[667] P.P. Pasolini, intervista a G. Ungaretti in Comizi d’amore, 1965. Trascrizione mia dal video https://youtu.be/ypFcFh98vME. 

[668] «Nel marzo del 1921 la famigliola parte per l’Italia, dove amici comuni, i signori Fasola, hanno preso in affitto per loro un appartamento a Firenze. […] Ha inizio da quest’anno un rapporto con l’Italia affatto speciale, destinato ad essere interrotto solo dalla morte», in S. Manfrelotti, Invito alla lettura di Aldous Huxley, Milano, Mursia, 1987, p. 24.

[669] Tutte le citazioni presenti in questo segmento sono prese da R. Pieraccini, Aldous Huxley e l’Italia, Napoli, Liguori, 1998, pp. 191-192.

[670] Cfr. note di S. Manfrelotti, op. cit., p. 67: «La cosiddetta era di Ford (numerosi quanto strampalati i tentativi critici di fissarne le precise coordinate temporali) prende il nome dall’industriale americano Henry Ford (1863-1947). Il segno T, che nell’Inghilterra del futuro viene usato come novello segno di croce, è la trasposizione criptica del “modello T”, la vettura Ford di cui vennero venduti sino a tutto il 1926 quindici milioni di esemplari».

[671] Elencando le tre alternative proposte da Bertrand Russel in merito al futuro dell’uomo, Huxley spiega che «la terza alternativa, che Lord Russell auspica, è che venga creato uno stato sovrannazionale, il che potrebbe avvenire in due modi: con la forza, […] oppure sotto minaccia della forza, mossi dal timore di ciò che potrebbe accadere, e come conseguenza dell’uso della ragione e del rispetto dei propri interessi e degli ideali umanitari. Questa, naturalmente, sarebbe il modo auspicabile di creare quello che Wendell Willkie ha chiamato “un solo mondo”; ma bisogna ammettere che i precedenti storici non sono molto incoraggianti», in A. Huxley, La condizione umana, a cura di R. Carretta, Pavia, Liber, 1995, p. 105.

[672] Cfr. A. Huxley, Fini e mezzi. Indagine sulla natura degli ideali e sui metodi adottati per realizzarli, Milano, Mondadori, 1947, p. 215: «Accettato il fatto che gli esseri umani appartengono a tipi diversi, sono dotati di attitudini diverse e possiedono dei diversi gradi di intelligenza, dobbiamo tentare di dare ad ognuno di essi l’educazione meglio calcolata per sviluppare al massimo le sue capacità».

[673] A. Huxley, Il mondo nuovo, cit., p. 14. 

[674] S. Manfrelotti, op. cit., p. 65. Cfr. A. Huxley, Il mondo nuovo, p. 5: «e in uno stemma il motto dello Stato Mondiale: “Comunità, Identità, Stabilità”».

[675] Il riferimento corrisponde al VI dei Pensieri, in G. Leopardi, Opere vol. II, cit., pp. 288-289.

[676] G. Leopardi, Storia del genere umano, in G. Leopardi, Operette morali seguite da una scelta dei “Pensieri”, cit., p. 62.

[677] S. Manfrelotti, op. cit., p. 65.

[678] A. Huxley, Il mondo nuovo, cit., p. 17.

[679] Ivi, p. 33: «“Voi tutti ricordate” disse il Governatore, con voce forte e profonda “voi tutti ricordate, suppongo, quel bellissimo e ispirato detto del Nostro Ford: “La storia è tutta una sciocchezza”. […] Agitò la mano; ed era come se, con un invisibile piumino, egli avesse spazzato via un po’ di polvere, e la polvere era Harappa, era Ur dei Caldei; delle ragnatele, ed esse erano Tebe e Babilonia e Cnosso e Micene. Una spolveratina, un’altra, e dov’era più Odisseo, dov’era Giobbe, dov’erano Giove e Gotamo e Gesù? Una spolveratina… e quelle macchie di antica sporcizia chiamate Atene e Roma, Gerusalemme e l’Impero di Mezzo, erano tutte scomparse. Una spolveratina… il posto dov’era stata l’Italia eccolo vuoto. Una spolveratina, via le cattedrali; una spolveratina, un’altra, via Re Lear e i Pensieri di Pascal. Una spolveratina, via la Passione; una spolveratina, via il Requiem; e ancora via la Sinfonia, via…». Cfr. S. Manfrelotti, op. cit., p. 69: «In Music at Night compaiono invece i riferimenti al piacere sfrenato, le critiche all’eugenetica ed ai condizionamenti neopavloviani e, soprattutto, il tetro apoftegma dell’industriale Henry Ford: History is bunk, “la Storia è tutta una sciocchezza”, riproposto pari pari in Brave New World».

[680] M.A. Iannaccone, Aldous Huxley. Profeta del “Mondo nuovo”, Milano, Ares, 2023, p. 206. Continua: «Con questo romanzo, [Huxley] non intendeva fare delle profezie precise – anche se negli ambienti scientisti e fabiani che aveva frequentato aveva sentito parlare di simili progetti, – ma ragionare sui possibili effetti dell’applicazione della scienza, della tecnologia, della medicina e della farmacologia da parte di uno stato totalitario».

[681] A. Huxley, Il mondo nuovo, cit., p. 23. 16 Ivi, p. 37.

[682] M. Moneta, op. cit., p. 138, corsivi nel testo: «L’Inno, in accordo con le numerose pagine dello Zibaldone dedicate al tema della “degenerazione” e dell’infelicità dell’uomo, sostiene che tale origine non sia in natura – né, tanto meno, nell’“autor della natura”, negli Dèi, nel fato – ma sia il risultato dell’attività dell’uomo». 18 G. Leopardi, Inno ai Patriarchi (o de’ principii del genere umano), in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di M. Fubini, cit., p. 89, vv. 19-21. Cfr. l’abbozzo in prosa all’Inno: «Perocché alla pietà del creatore certamente non piacque che la morte fosse all’uomo assai migliore della vita, o che la condizione della vita nostra fosse tanto peggior di quella di ciascuno degli altri animali e degli altri esseri che ci sottomise in questa terra. E sebbene la fama ricorda un antico vostro fallo cagione delle nostre calamità, pur la clemenza divina non vi tolse che la vita non fosse un bene; e maggiori assai furono i falli de’ vostri nepoti, e i falli nostri che ci ridussero in quest’ultimo termine d’infelicità», in G. Leopardi, Tutte le opere vol. I, cit., p. 74. 

[683] G. Leopardi, Inno ai Patriarchi (o de’ principii del genere umano), in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di M. Fubini, cit., p. 90, vv. 36-42. 20 M. Moneta, op. cit., p. 140.

[684] Commento introduttivo di M. Fubini in G. Leopardi, Inno ai Patriarchi (o de’ principii del genere umano), in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di M. Fubini, cit., p. 88.  22 A. Huxley, Fini e mezzi, cit., p. 69. 

[685] Ivi, p. 66.

[686] Cfr. A. Huxley, Il mondo nuovo, cit., pp. 26-27: «“I bambini Alfa sono vestiti di grigio. Lavorano molto più di noi, perché sono tanto tanto intelligenti. Sono veramente contento di essere un Beta perché non sono costretto a lavorare così duro. E poi, noi siamo superiori ai Gamma e ai Delta. I Gamma sono stupidi. Essi sono vestiti tutti di verde, e i bambini Delta sono vestiti di kaki. Oh no, non voglio giocare coi bambini Delta. E gli Epsilon sono ancora peggio. Sono troppo stupidi per…”». 25 A. Huxley, Fini e mezzi, cit., p. 68. 

[687] G. Leopardi, Dialogo di Tristano e di un amico, in G. Leopardi, Operette morali seguite da una scelta dei “Pensieri”, studio introduttivo e commento di M. Fubini, cit., p. 281.

[688] S. Manfrelotti, op. cit., p. 68.

[689] A. Huxley, Il mondo nuovo, cit., p. 202. 

[690] G. Leopardi, Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto vicini a morte, in G. Leopardi, Poesie e prose vol. II, cit., p. 270: «E questa scienza universale non fu subordinata da lui, come da Platone, all’immaginativa, ma solamente alla ragione e all’esperienza, secondo l’uso d’Aristotele; e indirizzata, non allo studio né alla ricerca del bello, ma del suo maggior contrario, ch’è propriamente il vero. Atteso queste particolarità, non è maraviglia che Teofrasto arrivasse a conoscere la somma della sapienza, cioè la vanità della vita e della sapienza medesima; essendo che le molte scoperte fatte da’ filosofi degli ultimi secoli circa la natura degli uomini e delle cose, vengano principalmente dal confrontare e dal rapportare che s’è fatto le diverse scienze, e quasi tutte le discipline tra loro, e dall’averle collegate l’une coll’altre, e per questo mezzo considerate le relazioni che intervengono tra le varie parti della natura, ancorché lontanissime, scambievolmente».

[691] M. Balzano, I confini del sole. Leopardi e il Nuovo Mondo, Venezia, Marsilio, 2008, p. 99. Cfr. Z 375, 1, in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova edizione tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., p. 294: «Nemico della natura è quell’uso della ragione che non è naturale, quell’uso eccessivo ch’è proprio dell’uomo corrotto: nemico della natura, perciò appunto che non è naturale, né proprio dell’uomo primitivo».

[692] A. Huxley, Il mondo nuovo, cit., p. 46.

[693] C. Battisti, Cultura e civiltà in Aldous Huxley, in «Il lettore di provincia», aprile 2000, pp. 59-69, p. 66.

[694] A. Huxley, Il mondo nuovo, cit., p. 203.  34 Ivi, p. 39.

[695] Ivi, p. 211. 36 Ivi, p. 212.

[696] Z I, 360, 1 in G. Leopardi, Zibaldone scelto, in G. Leopardi, Opere vol. III, cit., p. 176.

[697] C. Luporini, Leopardi progressivo, cit., p. 20.

[698] Z 1566, in G. Leopardi, Tutte le opere vol. II, cit., p. 442.

[699] C. Luporini, Leopardi progressivo, cit., p. 20.

[700] Ivi, p. 21.

[701] A. Huxley, Il mondo nuovo, cit., p. 84.

[702] Z II, 274, 1 in G. Leopardi, Zibaldone scelto, in G. Leopardi, Opere vol. III, cit., p. 302. Corsivi nel testo. Si veda quanto scritto nel maggio 1822, in Z IV, 239, 1: «Il mondo o la società umana, nello stato di egoismo (cioè di quella modificazione dell’amor proprio così chiamata) in cui si trova presentemente, si può rassomigliare al sistema dell’aria […] Dal che risulta un equilibrio prodotto da una qualità distruttiva, cioè dall’odio e invidia e nemicizia scambievole di ciascun uomo contro tutti e contro ciascuno, e dal perenne esercizio di queste passioni, cioè in somma dell’amor proprio puro, in danno degli altri. […] Lo stato d’egoismo puro, e quindi di puro odio verso altrui, che ne segue essenzialmente, è lo stato naturale dell’uomo. Ma ciò non è maraviglia, spiegandosi esso e dovendosi necessariamente spiegare col negar la pretesa destinazione naturale dell’uomo allo stato sociale stretto (cioè diverso da quello ch’hanno fra loro quasi tutte le bestie, massime le più svegliate); al quale stato ripugnano per natura loro le dette qualità naturalissime e assolutamente proprie dell’uomo. […] La maraviglia è ch’essendo tornato l’uomo allo stato naturale per questa parte (mediante l’annichilamento delle antiche opinioni e illusioni, frutto delle prime società e relazioni contratte scambievolmente dagli uomini), la società non venga a distruggersi assolutamente, e possa durare con questi principii distruttivi per natura loro. […] E questo equilibrio, certo

[703] A. Huxley, Il mondo nuovo, cit., p. 40.

[704] Z 172,1 in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova edizione tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., p. 128. 

[705] A. Huxley, Il mondo nuovo, cit., p. 41-42: «“Considerate le vostre esistenze” disse Mustafà Mond. “Nessuno di voi ha mai incontrato un ostacolo insormontabile?”. La domanda ricevette in risposta un silenzio negativo. “Nessuno di voi è mai stato costretto a subire un lungo intervallo di tempo tra la coscienza di un desiderio e il suo compimento?” “Veramente…” cominciò uno dei giovani, ed esitò. “Parlate” disse il Direttore “non fate aspettare Sua Forderia”. “Una volta dovetti attendere quasi quattro settimane prima che una ragazza ch’io desideravo mi si concedesse.” “E avete provato, di conseguenza, una forte emozione?” “Orribile!” “Orribile, precisamente” disse il Governatore. “I nostri antichi erano talmente stupidi e corti di vista che, quando vennero i primi fondatori e si offersero di salvarli da quelle orribili emozioni, non vollero aver niente a che fare con essi.”». 

[706] G. Leopardi, Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare, in G. Leopardi, Operette morali seguite da una scelta dei “Pensieri”, studio introduttivo e commento di M. Fubini, cit., p. 140.

[707] Z 1815, 1 in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova edizione tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., p. 62: «La noia è la più sterile delle passioni umane. Com’ella è figlia della nullità, così è madre del nulla: giacché non solo è sterile di per sé, ma rende tale tutto ciò su cui si mesce o avvicina ec. (30. Sett. 1821)».

[708] Entrambe le citazioni sono prese dal commento introduttivo di Fubini al Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare, in G. Leopardi, Operette morali seguite da una scelta dei “Pensieri”, studio introduttivo e commento di M. Fubini, cit., p. 135.

[709] Z I, 271, 3 e Z I, 273 in G. Leopardi, Zibaldone scelto, in G. Leopardi, Opere vol. III, cit., pp. 129-130.  51 Cfr. Z 1017, 1 in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova edizione tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., p. 47: «Dalla mia teoria del piacere seguita che l’uomo, desiderando sempre un piacere infinito e che lo soddisfi intieramente, desideri sempre e speri in una cosa ch’egli non può concepire. E così è infatti. Tutti i desideri e le speranze umane, anche dei beni ossia piaceri i più determinati, ed anche già sperimentati altre volte, non sono mai assolutamente chiari e distinti e precisi, ma contengono sempre un’idea confusa, si riferiscono sempre ad un oggetto che si concepisce confusamente. E perciò e non per altro, la speranza è meglio del piacere, contenendo quell’indefinito, che la realtà non può contenere».

[710] A. Huxley, op. cit., p. 199. L’espressione «andare in vacanza» si riferisce, nel romanzo, alle pause lavorative concesse grazie all’assunzione del soma, una droga distribuita a tutta la comunità affinché il suo effetto generi un torpore equivalente alla sensazione di felicità e svago, nonché un lungo sonno nel momento in cui viene presa in dosi maggiori.

[711] Ivi, p. 119. 

[712] G. Leopardi, Frammento sul suicidio, in G. Leopardi, Poesie e prose vol. II, cit., p. 276.

[713] Z 172, 1 in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova edizione tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., pp. 128-129.

[714] Lettera A Fanny Targioni Tozzetti, Firenze (Roma, 5 Dicembre [1831]), in G. Leopardi, La vita e le lettere, cit., p. 497.

[715] A. Huxley, Il mondo nuovo, cit., p. 39.  

[716] G. Leopardi, Storia del genere umano, in G. Leopardi, Operette morali seguite da una scelta dei

“Pensieri”, cit., p. 66. Così è descritta la condizione degli uomini all’insorgere dell’età moderna, quando «il totale rivolgimento della loro fortuna e l’ultimo esito di quello stato che oggi siamo soliti chiamare antico» combacia con la discesa in Terra della larva della Sapienza.

[717] Ivi, p. 63. Scrive Fubini in nota: «Anche nell’Inno ai patriarchi dopo aver ricordato e interpretato a suo modo, scostandosi più che in questo luogo dai poeti antichi, il mito dell’età dell’oro, il Leopardi accenna al popolo di California, che, per le sue letture, egli si era immaginato vivesse come quegli uomini leggendari». 60 M. Balzano, op. cit., pp. 21-22: «I patriarchi, i poeti, gli antichi, i fanciulli si allineano insomma così lungo un unico asse, che è quello della natura. I loro contrari vanno invece a comporre un altro asse, quello del pensiero (modernità, adulti, ragione, civiltà ecc.). Questa disposizione assiologica accompagnerà ogni ragionamento leopardiano, dai suoi primi passi fino agli ultimi approdi, perché è parte stessa della sua forma mentis. Su questo primo polo il poeta aggiunge fin da qui, nel 1818, un altro elemento: il primitivo». 61 M. Moneta, op. cit., p. 142.

[718] M.A. Rigoni, op. cit., p. 29. Cfr. ivi, p. 28: «Leopardi tiene lo sguardo continuamente rivolto all’Atlantide dell’antichità: dietro l’orizzonte filosofico che rinchiude il moderno, egli cerca ancora, ciecamente, la classicità sprofondata e, date le premesse teoriche, si capisce come la raffigurazione leopardiana dell’antico non possa che avere caratteri inconsueti rispetto a ogni altra, tradizionale concezione».

[719] G. Leopardi, Inno ai Patriarchi (o de’ principii del genere umano), in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di M. Fubini, pp. 93-94, vv. 97-103. Precisa Fubini in nota: «Ignara non della morte, come intendono alcuni commentatori, sì del destino umano, della fatale infelicità dell’uomo, celata dall’ignoranza e dalle illusioni».

[720] A. Negri, op. cit., p. 107. 

[721] M. Moneta, op. cit., p. 141.

[722] Ivi, p. 142.

[723] Cfr. M. Balzano, op. cit., p. 92: «Le famose “californie selve” (v. 104) rappresentano, a livello filosofico, l’acme della prima fase di riflessione sui selvaggi, di quella prima teorizzazione che li ha visti animati, oltre che dalla diversa eccezione che ho cercato di seguire volta per volta, da una positività e da un benessere dati direttamente dalla natura, contro la quale non si è diretto l’“irrequieto ingegno” dell’uomo».

[724] G. Leopardi, Inno ai Patriarchi (o de’ principii del genere umano), in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di M. Fubini, pp. 94-95, vv. 104-117.

[725] Note di M. Fubini in ibidem: «Si può osservare che la parola felicità ha in tutti i versi del L. la stessa collocazione: è posta sempre all’inizio del verso, separata con un forte enjambement dall’aggettivo che l’accompagna, quasi il poeta voglia farci sentire l’irraggiungibile lontananza del bene da tutti agognato». 70 Cfr. M. Balzano, op. cit., p. 36: «Ciò che è toccato dalla ragione – dunque anche tutto ciò che ne è solo mediamente invischiato – è destinato a rivelare corruzione e contraddizioni insanabili, dando così spazio a una concezione in cui si contrapporranno sempre più chiaramente due blocchi netti, uno del mondo asociale, immune dal sapere, e l’altro sociale e filosofico, abusivo della ragione». 71 A. Huxley, Il mondo nuovo, cit., pp. 178-179.

[726] M. Balzano, op. cit., pp. 49-51. A p. 96, Balzano conclude il capitolo con un’importante osservazione, a scanso di equivoci: «I Californiani non rappresentano il primitivo leopardiano. Leopardi, innanzi tutto, non chiama mai i Californiani “primitivi”: egli nelle cinque note li chiama due volte “selvaggi” (pp. 2712 e 3179-3180) e tre volte semplicemente “Californi” (pp. 3304, 3360 e 3801). Abbiamo poi visto che il primitivo leopardiano non esiste: mentre Leopardi, finché nomina questi uomini li insegue e propone, come fa coi selvaggi, come un’effettiva realtà: realtà che è degna, oltreché di elogio, di rimanere intoccata dall’esecranda fame dell’oro e di conquista degli Europei. Invece il primitivo sempre gli sfugge, e Leopardi è da subito rassegnato a riconoscere questo momento come “aureo” e quest’uomo come in “balia della favola” e dell’“opinione”; ad ammettere senza opposizione che sullo stato di natura vero e proprio, ossia la sede del primitivo, l’“uomo pochissimo sa”». 

[727] A. Huxley, Il mondo nuovo, cit., p. 212: «Ma voi non fate né l’una né l’altra cosa. Voi né sopportate né affrontate. Abolite semplicemente i colpi e le frecce. È troppo facile». Benché nel romanzo non sia esplicitato, si tratta di una citazione quasi letterale dell’Amleto di Shakespeare (autore che ritorna molte volte nel romanzo poiché studiato da John). Siamo alla scena II dell’atto III, al monologo di Amleto: «È forse più nobile soffrire, nell’intimo del proprio spirito, le pietre e i dardi scagliati dall’oltraggiosa fortuna, o imbracciar l’armi, invece, contro il mare delle afflizioni, e combattendo contro di esse metter loro una fine?».

[728] Z IV, 239, 1 in G. Leopardi, Zibaldone scelto, in G. Leopardi, Opere vol. III, cit., p. 491.

[729] A. Huxley, La condizione umana, cit., p. 103.

[730] Ivi, pp. 116 e 121.

[731] Z 579, 2 in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri. Nuova edizione tematica condotta sugli Indici leopardiani, cit., pp. 311-312. Cfr. nota di F. Cacciapuoti: «Il brano costituisce la parte iniziale [549,1-548] di un micro-trattato sulle forme di governo, composto tra il 22 e il 29 gennaio 1821, che si conclude a 579,1».

[732] A. Huxley, La condizione umana, cit., pp. 117-119. Scrive a p. 118: «Ma se l’influenza dell’Occidente sulle altre culture è davvero il dato storico fondamentale della nostra epoca, allora nessuno di noi è nella storia. Perché noi non siamo consapevoli direttamente degli effetti provocati dalla cultura occidentale sulle altre o dalle altre culture sulla nostra».

[733] Ivi, p. 120.

[734] S. Manfrelotti, op. cit., p. 67.

[735] G. Leopardi, Zibaldone scelto, in G. Leopardi, Opere vol. III, cit., pp. 285-287.

[736] Il tema del suicidio “per noia”, tipico dell’uomo moderno, viene trattato da Leopardi in diverse sedi. Esemplare è il finale della Scommessa di Prometeo, in cui Prometeo e Momo, giunti in una Londra odierna, si trovano di fronte allo spettacolo suicida di un gentiluomo che, per disperazione e «tedio della vita», aveva ucciso non solo sé stesso, ma anche i due figli. Cfr. G. Leopardi, La scommessa di Prometeo, in G. Leopardi, Operette morali seguite da una scelta dei “Pensieri”, cit., pp. 114-124.

[737] S. Manfrelotti, op. cit., p. 75.  84 M. Balzano, op. cit., p. 45.

[738] A. Huxley, Fini e mezzi, cit., pp. 306-307. Si ricordi la già citata Lettera A Pietro Giordani, Vicenza (Recanati 26 Aprile 1819), G. Leopardi, La vita e le lettere, cit., p. 109, in cui Leopardi scrive: «i libri, particolarmente i vostri, mi scorano insegnandomi che la bellezza appena è mai che si trovi insieme colla virtù, non ostante che sembri compagna e sorella. Il che mi fa spasimare e disperare». 86 A. Huxley, Il mondo nuovo, cit., p. 158.

[739] M.A. Rigoni, op. cit., p. 31. 

[740] A. Huxley, Il mondo nuovo, cit., pp. 26-27. Si tratta di una voce registrata diffusa da un altoparlante nel Corso Elementare di Coscienza di Classe, durante il quale ai bambini viene impartito l’ordine sociale su cui è strutturata la società (dai più intelligenti Alfa, ai minori Epsilon), di modo che si abituino fin da subito ad essere contenti della loro posizione: «Ma il condizionamento senza parole è rude e grossolano; non può mettere in rilievo le distinzioni più sottili; ma può inculcare i modi di comportamento più complessi. Per questo sono necessarie le parole, ma senza ragionamento. Vale a dire, l’ipnopedia: la massima forza moralizzatrice e socializzatrice che sia mai esistita».

[741] Entrambe le citazioni sono prese dal commento introduttivo di M. Fubini al Dialogo di Tristano e di un amico, in G. Leopardi, Operette morali seguite da una scelta dei “Pensieri”, studio introduttivo e commento di M. Fubini, cit., p. 279. 90 Ivi, p. 286.

[742] Ivi, p. 284: «Tristano. Appunto. Credo ed abbraccio la profonda filosofia de’ giornali, i quali uccidendo ogni altra letteratura e ogni altro studio, massimamente grave e spiacevole, sono maestri e luce dell’età presente. Non è vero?».

[743] S. Manfrelotti, op. cit., p. 67.

[744] Commento introduttivo di M. Fubini al Dialogo di Tristano e di un amico, in G. Leopardi, Operette morali seguite da una scelta dei “Pensieri”, studio introduttivo e commento di M. Fubini, cit., p. 279. 94 A. Huxley, Il mondo nuovo, cit., p. 214.  95 Ivi, p. 122.

[745] Ivi, p. 121. La situazione è ripresa nei pensieri dello stesso John a p. 205: «“Diamine…” Il Selvaggio esitò. Avrebbe voluto dire qualche cosa della solitudine, della notte, dell’altipiano che si stende pallido sotto la luna, del precipizio, della caduta nelle tenebre fonde, della morte. Avrebbe voluto parlare, ma non c’erano parole. Neppure in Shakespeare».

[746] A. Huxley, La condizione umana, cit., p. 123. 98 S. Manfrelotti, op. cit., p. 66.

[747] A. Huxley, Il mondo nuovo, cit., pp. 61-63.

[748] C. Battisti, op. cit., p. 67: «Egli ci fornisce il primo occhio alternativo alla fatticità del presente, la porta d’accesso ad una visione “altra” rispetto a quella idilliaca, ma subdolamente inculcata dal potere, condivisa da tutti gli abitanti del New World».

[749] C. Luporini, Decifrare Leopardi, cit., p. 239.

[750] Ibidem.

[751] S. Manfrelotti, op. cit., p. 86.

[752] A. Huxley, Il mondo nuovo, cit., pp. 92-93.

[753] Ivi, p. 211.

[754] Ivi, p. 51.

[755] Z 51, in G. Leopardi, Tutte le opere vol. II, cit., p. 35: «Il più solido piacere di questa vita è il piacer vano delle illusioni. Io considero le illusioni come cosa in certo modo reale stante ch’elle sono ingredienti essenziali del sistema della natura umana, e date dalla natura a tutti quanti gli uomini, in maniera che non è lecito spregiarle come sogni di un solo, ma propri veramente dell’uomo e voluti dalla natura, e senza cui la vita nostra sarebbe la più misera e barbara cosa ec. Onde sono necessari ed entrano sostanzialmente nel composto ed ordine delle cose».

[756] Entrambe le citazioni sono prese da C. Luporini, Decifrare Leopardi, cit., p. 239.

[757] G. Leopardi, Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare, in G. Leopardi, Operette morali seguite da una scelta dei “Pensieri”, studio introduttivo e commento di M. Fubini, cit., p. 140.

[758] Ivi, p. 141.

[759] A. Huxley, Il mondo nuovo, cit., p. 93. 

[760] A. Huxley, Ritorno al mondo nuovo, in ivi, p. 264.

[761] Ivi, p. 152.

[762] Ivi, p. 70.

[763] C. Luporini, Decifrare Leopardi, cit., p. 242: «È una “distrazione” e una “dimenticanza” metafisica, dietro la quale stanno oggettivamente il nulla e soggettivamente la noia». 116 A. Negri, op. cit., p. 229.

[764] C. Battisti, op. cit., p. 68.

[765] A. Huxley, Il mondo nuovo, cit., pp. 196-197. 119 M. Moneta, op. cit., p. 130.

[766] Z 4511 in G. Leopardi, Tutte le opere vol. II, cit., p. 1233. 

[767] G. Leopardi, Inno ai Patriarchi (o de’ principii del genere umano), in G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di M. Fubini, cit., p. 88, vv. 3-4.